Edmund Kowalski C.Ss.R.

Accademia Alfonsiana

 

QUALE UOMO E QUALE ETICA PER LA BIOETICA CONTEMPORANEA?

Una proposta antropologica ed etica da parte di Gabriel Marcel[1]

 

 

 

Sono trascorsi trent’anni da quando, tra gli altri, anche l’oncologo statunitense Van Rensselaer Potter ha introdotto nel lessico culturale contemporaneo il neologismo bioetica[2]. Dal 1971 ad oggi la bioetica ha percorso i diversi itinerari culturali, da una parte, promuovendo la ricerca scientifica con l’applicazione biomedica, dall’altra, suscitando nelle società vivaci dibattiti sui problemi morali sollevati dalle biotecnologie nel campo della bios. L’ampia letteratura contemporanea, cosiddetta “bioetica”, afferma appunto lo sviluppo continuo delle nuove tecnologie biomediche, che fanno insorgere dimensioni e problemi inediti, come la morale normativa, applicata nel tradizionale settore dell’etica medica (adesso chiamata biomedica). Numerosi autori in diverse maniere trattano difficilissimi problemi nel campo della bioetica, soprattutto per quel che riguarda il rapporto tra vita e valori etici in riferimento alle applicazioni della bio-medicina[3]. Oggi si parla molto di umanizzazione della medicina, soprattutto nel rapporto medico-paziente, ma penso che si debba parlare anche di umanizzazione della bioetica non soltanto nel rapporto biologo o medico (identificati con gli “interventi biomedici”) e la persona umana nelle sue diverse fasi dello sviluppo e della maturazione, ma anche nel rapporto tra il moralista, chi fa, sviluppa la sua riflessione, e la persona presente nella sua riflessione. Sembra che contenuto e linguaggio del personalismo da parte degli esistenzialisti-personalisti, innanzitutto i francesi d’ispirazione cristiana come E. Mounier[4] e G. Marcel[5], siano i più adatti ad elaborare il nostro tema. L’apertura alla trascendenza del personalismo cristiano, che fonda la inesauribilità della persona, offre la chiave dell’interpretazione personalistico-spirituale delle dimensioni tipicamente umane nel campo della bioetica.

Lo scopo della mia riflessione è innanzitutto una proposta antropologico-etica di Gabriel Marcel per sottolineare alcune ripercussioni negative della connotazione non-personale sulle questioni tipicamente umane e personali nel contesto bioetico, come la vita umana, il corpo umano, la persona e, di conseguenza, sull’etica.

 

1. Quale vita umana per la bioetica?

 

Una delle nozioni più importanti che soggiacciono a tutte le questioni relative alla bioetica, cioè all’etica della vita – nota C. Zuccaro - è appunto quella della „vita umana”. “Farne menzione esplicita e ricordarlo non è senza significato, dal momento che molti dei problemi in questo campo trovano una soluzione particolare a partire dalla concezione che si ha della vita umana. Il problema rudimentale consiste nel capire quali siano le condizioni in base alle quali la vita dell’uomo possa presentarsi come ‘umana’”[6]. La vita, prima di tutto, non può essere considerata come un’idea astratta, generale e universale per tutti gli uomini, come indica ad esempio il titolo “La vita” del libro curato da M. Sànchez Sorondo[7], e così privata del suo ambito personale, psicologico, sociologico o culturale, ma deve essere considerata come la piena attualità dell’esistenza concreta vissuta e sperimentata dal singolo in tutto il suo essere. Secondo Marcel l’esistente non si distingue dalla sua esistenza (Etre et Mystère). Il “mistero dell’esistenza” che “emerge come esperienza inquietante, incompiuta, conturbante dell’esistere” precede il pensiero, perché l’esistere è un dato autonomo ed originario e il pensiero è “accompagnato da un ‘Io’ che è precisamente l’esistenza anteriore al pensare: senza io, non c’è pensiero”[8]. La vita umana, innanzitutto, è l’esistenza personale che ha la sua densità, intensità e soprattutto la sua verità intrinseca. Solo questa vita personale-attuale-nella-sua-verità-intrinseca deve essere l’oggetto, la realtà dell’indagine e della riflessione etica. Non si può sostituire la vita-umana-personale-vissuta-attualmente a quell’idea astratta della vita come “vita” nell’oggettivazione formalista speculare. In questo contesto si capisce meglio la polemica di Marcel “contro la filosofia astrattiva sia metafisica sia idealista sia materialista” poiché “questi sistemi cosificano e oggettivano l’uomo, e universalizzandolo fanno l’uomo-cosa, distruggendone la libertà personale”[9]. Il filosofo-moralista o il teologo moralista, prima di parlare della persona, deve ascoltare se stesso per tradurre nelle parole il suo vivere. Il filosofo-moralista deve rassomigliare ad un compositore che traduce in note la musica del suo essere, del suo “io” e, nello stesso tempo, sa che le note non sono la musica. Lui non può “mostrare” la “sua musica” perché essa è da vivere e non da dire, da guardare, da dipingere o da descrivere. Le note, come i segni del codice formale, sono come le ombre platoniche nella grotta oscura che riflettono soltanto lo splendore della realtà vera ed unica.

Inoltre, ogni vita umana si presenta come un dramma. Esistere significa vivere il dramma dell’esistenza, essere contemporaneamente l’attore e lo spettatore. Nel dramma tale vita umana personale si presenta da sola nella sua pura concretezza, vissuta e percepita senza qualsiasi mediazione dal di dentro. Nel dramma e per il dramma il pensiero metafisico se saisit elle-même e si definisce – in concreto – nel materiale reale, nell’andamento dell’afferrare (Etre et Mystère; Le Mystère de l’être). In questo contesto si può meglio capire perché gli esistenzialisti francesi J. P. Sartre, A. Camus o G. Marcel hanno scelto il dramma come la forma più adatta alla presa diretta del dinamismo della realtà umana per sondare la cellula viva dell’essere. Il dramma - per Marcel – è una forma religiosa ossia vicina alla religione e per questo egli preferisce utilizzare al posto di dramma – come termine uguale – la parola mystère contrapposto a pièce à problème. Nel dramma-mysterium egli vede il création-type appropriato – nell’ordine umano – a l’acte démiurgique, l’atto della creazione. L’uomo vive il suo dramma come il creatore che deve sempre scegliere, creare, costruire, edificare. Ogni scelta costituisce il dinamico processo dello sviluppo di se stesso in ogni atto esterno e interno. La persona umana – dice Mounier – è l’unica realtà che sappiamo e che simultaneamente da di dentro creiamo. J. C. Smuts definisce la persona umana come unique creative novelty che si manifesta incessantemente nell’universo. Secondo una definizione di Sartre la persona non può mai ripetersi due volte.  La persona è unica, irrepetibile che nessuno, tuttavia, può sostituire.

Certo l’uomo non vive da solo, né solo per se stesso. Il motivo della solitudine non è soltanto una realtà comune, vissuta e sperimentata da parte degli esistenzialisti[10], ma anche una realtà da vivere da parte dell’uomo contemporaneo nel deserto della metropoli. L’uomo del dramma di Marcel desidera e cerca un contatto-accordo con gli altri. Questo desiderio finisce in maniere diverse: con una sconfitta-catastrofe personale, con un successo apparente o con la vittoria reale ed indimenticabile (Chapelle ardente, Le monde cassé). L’uomo per essere uomo ha bisogno dell’uomo[11]. Essere persona significa essere-per-gli-altri-e-con-gli-altri. L’essere uomo chiama l’altro essere alla partecipazione, alla comunione. L’esistenza costituisce e forma un legame-ambito insolubile, indecomponibile ed inseparabile di tutti gli esseri umani e non umani. Solo la persona umana ha la coscienza d’essere esistente e soltanto la persona è cosciente della sua esistenza-verso-altri. La coscienza dell’essere hic et nunc e con-se-stesso-e-con-gli-altri conduce e genera la coscienza della presenza (présence) per se-stesso-e-per-gli-altri e per questo nasce rencontre, témoignage, attestation, affrontement (face en face), engagement e participation. La coscienza della presenza fa scoprire all’uomo che è chiamato ed eletto. Inoltre, tutti gli uomini sono chiamati, eletti e, per conseguenza, assolutamente necessari ed indispensabili. Tutti, e ciascuno di loro (nel suo modo), salvano il mondo dal non esistere. “Esistere” non è un termine vuoto senza contenuto. Esistere significa “esistere qui” (être-là di Marcel, come sein-dasein di K. Jaspers). “Esistere qui” rompe la solitudine dell’uomo nell’essere: l’uomo è presente nell’essere, vive il suo essere, diventa il partecipante. La più completa forma di “esistere qui”, nel “suo piccolo mondo” è la forma di être en situation. La “sua situazione“ è la vita-attualmente-vissuta-sperimentata-creata. E da questa situazione dipende “la situazione del mondo”. In altre parole, dalla mia situazione, concepita come “mia intima e personale patria” dipende se il mondo sarà per me la patria in cui vivere oppure la terra del mio esilio.

L’être en situation traccia le frontiere del mondo in cui vive e si esprime l’uomo. Ma être en situation come essere-con-se-stesso-e-con-il-mondo non è sufficiente per l’uomo. L’esperienza di essere-in-se-stesso-e-con-il-mondo apre l’uomo a l’être avec (l’être c’est l’être avec e l’être est communion di Marcel), être-vers (l’existence avec autrui di Mounier). L’essere significa essere-con-qualcosa-e-con-qualcuno, cioè coesistere, essere con -  coesse, comexistence (il neologismo di Mounier), Mitsein (Heidegger). La prima e diretta realtà che vive e sperimenta l’uomo, come l’être avec, è il suo corpo.

 

2. Quale uomo per la bioetica?

 

“Il fatto che l’uomo abbia un corpo e che debba vivere la propria esistenza attraverso il corpo, non è mai stato messo in dubbio da nessuno”[12]. Già all’inizio della nostra riflessione sul “corpo umano” dobbiamo accennare – come abbiamo appena fatto nel punto precedente parlando della vita umana - che non esiste il corpo umano in quanto corpo, ma soltanto il mio corpo, il corpo di Maria o il corpo di Tommaso. Le difficoltà incominciano – afferma J. Gevaert - quando ci si propone di determinare più concretamente la “natura” di questo “legame” con il proprio corpo. Le posizioni a questo riguardo sono numerose e diverse: l’interpretazione dualistica di Platone secondo la quale l’anima spirituale come forma-quintessenza dell’uomo deve purificarsi e liberarsi dal corpo materiale, corruttibile, temporale; l’interpretazione aristotelico-tomista, che considera l’uomo come essere-sostanza strettamente unitario (“spirito incarnato” di Maritain); il dualismo razionalista, proposto da R. Descartes, con la sua divisione più radicale tra corpo e coscienza; l’interpretazione meccanicistica; l’interpretazione materialistica in cui le manifestazioni dell’umano sono considerate come espressioni nobili ed elevate della materia in evoluzione[13].

La tesi dell’assoluto dualismo, sia secondo l’interpretazione spiritualistico-razionalista che secondo l’interpretazione meccanistico-materialistica, è troppo in contrasto con l’evidenza dell’esperienza comune e corrente. L’esperienza data immediatamente nel vissuto indica che il corpo dell’uomo è un corpo “umano” e che l’uomo vive la propria esistenza in modo corporeo. Il corpo è ciò che permette di essere con gli altri e di realizzarsi nel mondo (l’être au monde). Nello stesso momento tuttavia l’uomo non può dire in senso stretto e rigido: io “ho” un corpo. “Io non mi servo del corpo, ma io sono il mio corpo” (Existence et objectivité). G. Marcel ha messo in luce che la categoria dell’avere non si verifica fondamentalmente nei confronti del corpo (Le mystère de l’être, Journal Métaphisique). L’esperienza immediata non mi fa vedere il mio corpo come una realtà oggettiva davanti a me, identificabile e confondibile con altri oggetti e organismi. Non posso trattare il corpo alla stregua di una cosa oggettiva perché la reificazione e la strumentalizzazione di questo spezza l’unità assoluta tra l’io e il mio corpo. Il mio corpo è dato a me non in modo oggettivo (strumento-oggetto), ma soggettivo, perché l’averne coscienza significa affermare che io sono “incarnato”, io vivo in modo corporeo, “io sono il mio corpo”[14]. Infatti posso osservarlo e guardarlo come lo specchio di me stesso, nella misura in cui lo considero contemporaneamente come identico con me stesso: io guardo e io osservo. Il mio corpo è vissuto dall’interno come me stesso, come io. Nella “mia parola”, nel “mio sguardo”, nella “mia azione” io sono personalmente presente. Io, come persona umana, mi esprimo e mi realizzo nel mio corpo e attraverso il mio corpo. Il “mio corpo” non è “soltanto un organismo” (e non può mai essere considerato come tale) che vive indipendentemente dalla mia volontà, dalla mia coscienza, ma è sempre l’io personale perché io stesso vivo, sento, parlo, soffro. Il corpo “umano” esprime la possibilità concreta d’essere e di comunicare con gli altri nel mondo, può anche indicare l’insieme delle relazioni e delle realizzazioni che una persona ha elaborato nella sua esistenza. Tale realtà in questo senso non è la possibilità astratta di comunicare e di realizzare, ma è “luogo o ambiente personale” in cui l’uomo come persona si progetta e si realizza[15].

Contrariamente a ciò che abbiamo appena detto vi è un altro genere totalmente opposto di esperienza umana comune – come indica giustamente Gevaert - che mette in luce la “non-identificazione con il corpo”. Ogni uomo è essenzialmente un ego, un io, di fronte ad un tu (M. Buber, E. Mounier, E. Lévinas). Ora quest’esperienza irriducibile, che mette in luce l’identità d’ogni singola persona, non trova la sua radice nell’oggettività dell’esistenza corporea. Nessun essere umano è radicalmente intercambiabile, perché il soggetto-persona è caratterizzato dall’unicità, dall’integrità e dalla complessità. L’esperienza immediata di questa unicità-integrità-complessità di fronte all’altro permette anche di cogliere che nessuno coincide radicalmente con il proprio corpo (“l’irriducibilità della singola persona al corpo e alla materia in genere”)[16].

Il carattere soggettivo e allo stesso tempo relazionale dell’essere umano e della sua corporeità trova una specifica espressione nella persona umana che è certamente l’argomento fondamentale. Come afferma F. Bellino “gli attuali rapidi sviluppi delle scienze biomediche, cognitivi e manipolatori insieme, ci obbligano a ridefinire profondamente la nozione di persona umana”[17]. Lo sviluppo delle specializzazioni e delle iperspecializzazioni nel campo della biomedicina ha generato la frammentazione dell’uomo “in organi”, “allo stadio dell’ovulo, in quello della blastula, della formazione dell’embrione o del feto”, “nello stato vegetativo persistente”. La parzialità e la settorializzazione dell’uomo da parte della tèchne provoca la frammentazione dell’uomo nella riflessione bioetica. Gli indici dei libri o dei manuali di bioetica sono i segni visibili di questa frammentazione-divisione dell’uomo come persona. I casi estremi di questa “divisione dell’uomo” si trovano nelle opere di Engelhardt che fa una distinzione radicale tra “le persone in senso stretto” (“entità autocoscienti, razionali, libere di scegliere e in possesso di un senso morale”) e la “vita biologica umana” (neonati, gravi malati di mente, feti, soggetti in stato vegetativo persistente)[18]. “Come ha insegnato Mounier – scrive F. Boscia – la persona non si identifica con la coscienza né con l’individuo, né con i suoi atti, né con la soggettività, anche se comprende tutte queste modalità in potenza o in atto, essa è il volume totale dell’uomo, ciò che non si può ripetere due volte. La persona è in sé, ma non per sé, essendo la relazionalità costitutiva dell’essere personale”[19]. Il processo della reificazione delle attività umane da parte della tèchne, come risultato pratico dello sviluppo delle specializzazioni e della biomedicina applicata, non forma e non costituisce soltanto la reificazione dell’agire umano (i cosiddetti “interventi biomedici e biotecnologici”, che in realtà sono gli atti umani responsabili da parte dei medici o degli scienziati), ma soprattutto forma e costituisce la reificazione dell’essere umano nella sua più profonda identità assoluta come persona. Per questo è indispensabile oggi riflettere sulla persona dal punto di vista ontologico e, poi, dal punto di vista etico. In altre parole, dobbiamo rispondere a due domande fondamentali: chi è la persona? e qual è il suo valore? L’etimologia del termine “persona” ci indica una risposta. Il vocabolo latino persona ha origine dal termine greco prosôpon (il volto, la faccia) e serviva a descrivere sia il volto umano nella sua realtà fisica e concreta, sia la maschera che indossava e portava l’attore durante la commedia o la tragedia oppure il ruolo che essa rappresentava[20]. Il volto, infatti, esterna la persona in modo più diretto. La faccia, sempre singola ed unica, esprime in modo manifesto l’aspetto irriducibile della personalità, della persona, il mistero del suo essere come fine-a-se-stesso[21].  Il termine persona che ci rimanda alla faccia fa riferimento all’essere che appartiene a se stesso e in forza di questo fatto non può e non è capace di appartenere a un altro come un semplice oggetto. Questa autoappartenenza deve essere considerata nel senso ontologico di possessione piena e totale di se stesso e non nel senso etico di “cosa utile”, “mezzo che conduce al fine” o “strumento per raggiungere il bene”. E nemmeno questa autoappartenenza deve essere considerata nel senso giuridico di “proprietà” del suo corpo. Non esiste legame giuridico tra la persona e il suo corpo, perché le realtà si identificano. La persona non “possiede” un corpo ma è suo corpo. L’essere umano non può dividersi all’interno di se stesso per essere “oggetto della legge” e “soggetto della legge” senza che la sua unità essenziale non sia rotta e distrutta[22]. La persona in forza dell’atto dell’essere, dotata della densità unica, possiede una dignità intrinseca. La dignità della persona ha una dimensione ontologica in quanto realtà inseparabile dall’essere uomo. La dimensione antropologico-personale dell’essere uomo è già valore e si snoda in valori. Il valore va posto nell’uomo in quanto è e diventa persona (Scheler, Windelband, Hartmann). L’uomo come unità inseparabile delle sue manifestazioni tipicamente umane (religione, arte, cultura, linguaggio, lavoro, società, corporeità) è sempre in stato di manifestazione come uomo-persona, così tutti i valori sono uniti nell’uomo-persona. Dal fatto dell’essere uomo sorge il valore della dignità della persona. Essa è la stessa per tutti gli uomini e per tutto l’uomo nelle tappe del suo dinamico processo di sviluppo, delle sue potenzialità (gli inizi della vita umana) e della sua maturazione (la morte come un processo). La dignità dell’uomo come persona abbraccia, nella sua sfera assiologica, tutte le forme e tutti gli stati del processo dinamico dell’inizio, dello sviluppo e della fine della vita umana. Ogni “tappa” ed ogni “forma” del processo dinamico-evolutivo dello sviluppo della persona partecipa della dignità della persona umana, cioè è sempre persona e sempre diventa persona (mouvement de personalisation di Mounier). “Essere” e “diventare” uomo passa attraverso l’uomo-persona, quando egli stesso prende possesso di sé nella pienezza della persona come valore-fine-a-se-stesso (l’homme personnel, le métier d’homme). “Essere” e “diventare” uomo è affermare che l’uomo in quanto persona deve attuare se stesso (autoattuazione, autorealizzazione attraverso mouvement de personalisation), realizzando il profondo del suo essere, come il valore da realizzare e da compiere. Con la dinamica di questa dialettica si può evitare la contaminazione dell’assoluto soggettivismo (la persona considerata soltanto come soggetto, cogito, conoscenza) e dell’assoluto oggettivismo (la persona intesa soltanto come “sostanza” statica veduta nel quadro della nozione metafisica e descritta in linguaggio metafisico[23]) per far posto dovuto all’autenticità della persona in quanto individuo io (in-dividuum – indiviso, unito e completo in se stesso) nella sua storia, cioè nelle relazioni con gli altri (Dio, tu e noi) e con il mondo, che solo l’uomo-persona consapevole può ed è in grado di compiere con l’originalità delle sue facoltà. In quest’ottica gli interventi biomedici non “toccano” soltanto “corpo”, “embrione” o “feto” ma sempre la persona. Invece, la dignità della persona umana nel senso etico che fa riferimento all’agire umano verso il bene (razionale, libero e, per conseguenza, responsabile) non si può considerare che sulla base-origine-fondamento della dignità della persona in senso ontologico. Notabene, i “diritti dell’uomo”, sviluppati dalla Modernità (ad esempio di Norimberga), sono stati ispirati precisamente da questa ultima nozione. Questa struttura ontologico-relazionale della persona, che rende complementari l’unità-identità-integrità e l’alterità d’ogni persona umana nella sua storia, sta alla base della “lotta per l’identità” – di cui parla F. Bellino – di fronte alle nuove, totalmente spersonalizzate, concezioni dell’identità, come l’homo continuus, l’homo bioeconomicus, l’uomo “di vetro”, l’uomo bionico, che possono essere realmente generate in seguito agli attuali rapidissimi sviluppi delle scienze biomediche a forza di FIVET, di genetica, di informatica, di robotica e telematica[24].

 

3. Quale etica per la bioetica?

 

Noi sappiamo bene che “ci sono tante bioetiche quante sono le etiche professate, così come queste derivano dalle diverse antropologie seguite”[25]. Da tutto ciò che abbiamo già detto risulta indubbiamente che il modello etico di riferimento che intenda custodire e promuovere la “verità intera” dell’uomo sia e non possa essere che il modello personalistico. Tale modello trova il criterio morale nell’uomo stesso in quanto persona. Proprio perché la persona è un valore oggettivo, trascendente e intangibile, e quindi normativo. A questo punto non vogliamo ricordare “alcuni modelli etici inaccettabili o problematici, particolarmente presenti nella nostra situazione sociale e culturale”, di cui parla D. Tettamanzi[26], A. Bompiani[27] o M. Cozzoli[28], che si contraddistinguono per il criterio morale fondamentale al quale si riferiscono (libertà assoluta, danno-beneficio o costi-benefici, prassi medica, società come maggioranza normativa) e che è diverso o al di là della persona, ma vogliamo guardare il modello personalistico (o meglio i modelli personalistici) nell’ottica della critica personalistica per accennare a punti-problemi che diminuiscono la dimensione personalistica di questo modello (modelli).

Un critico personalista si sforza di essere durante una lettura, allo stesso tempo, la conoscenza dell’artista-creatore e del ricevitore-destinatario. Loro stessi non esistono separatamente e indipendentemente, ma di fronte all’opera e attraverso l’opera sono-vivono nella comunità del dare-ricevere. Tutti e due hanno la loro storia personale ed ora sono chiamati ad incontrarsi personalmente attraverso la parola scritta-letta. Un lettore-recettore è presente nell’opera non soltanto après la lettre, quando gusta e si diletta della parola (frutto dell’arte, della cultura), ma anche avant la lettre, cioè quando la parola trae origine, si forma e infine nasce (logos). E viceversa, un creatore attinge il sugo vitale dalla comunità storica nella quale vive e, nello stesso momento, è risonatore sensibile, un eco di tutto ciò che accade nel suo mondo. La parola scritta non può essere “arte per l’arte”, una “forma formale” per se stessa, l’arte solo come uno stile o una tecnica. La critica personalistica è contro questo formalismo dell’arte. La parola, concepita in questo modo, solo come una forma artistica, è la parola avulsa dal contenuto, dalla storia che si svolge, dalla persona che vive il suo dramma. Per un autore-formalista la tecnica non è il metodo ma l’oggetto dell’arte. Invece, per un personalista l’arte è la chiamata venuta dalla persona, un codice per accordarsi e per incontrarsi. Sotto questo aspetto l’insieme dei mezzi dell’espressione artistica appartengono solo all’artista stesso e sono da lui coltivati e sviluppati in modo personale e creativo. Pertanto non esisterebbe più la forma senza contenuto. Insomma, la personalità creativa e la tecnica artistica, il contenuto e la forma sono inseparabili, l’una implica l’altra. Nell’ottica della responsabilità della parola promulgata (etica della parola) anche il creatore nel campo della biomedicina deve rendersi conto della sua partecipazione nel processo di personalizzazione. “Una scienza e una medicina più umane possono contribuire al superamento di una pericolosa e disumanizzante tendenza della nostra civiltà, la necrofilia, che ha messo in atto un processo di reificazione dell’uomo e di personificazione delle cose e tende a dare ai problemi dell’uomo soluzioni di morte anziché di vita, e all’affermazione della biofilia, che invita l’uomo a realizzarsi nel dinamismo dei tre mondi (Popper) che costituiscono la vita della persona: il bios, il logos e l’ethos[29].

La lama della critica personalistica considera anche ogni forma di sistema chiuso, fermo, definitivo e, di conseguenza, riduzionistico e semplificante. E. Mounier molte volte ha messo in rilievo il fatto che il personalismo, secondo il suo parere, non è un sistema filosofico chiuso, una dottrina o una religione ma  una prospettiva, un metodo, un postulato nella valutazione dei fatti, dei fenomeni e dei problemi (Révolution personnaliste et communitaire, Manifeste au service du personnalisme, Le personnalisme). E’ una filosofia viva che si sviluppa insieme (hic et nunc) con la vita (être en proie au réel) e produce un effetto sulla vita (libératoire et libératrice). Quest’ultima non può essere costretta, spinta dentro un sistema senza “ferite” di fronte al codice artificiale e rigoroso che frammenta, impoverisce e diminuisce la vita concreta nella sua pienezza, nella sua ricchezza, nella sua attualità e nella sua freschezza. Ogni sistema, in modo particolare troppo formalistico, non soltanto deforma le realtà di cui parla, ma attraverso le sue frontiere rigide, spesse volte intrasgredibili e intransigenti, si chiude al dialogo con la persona di cui parla. La storia del secolo scorso ci mostra tragicamente come i sistemi politici nel nome di un’idea (ideologie applicate) hanno sterminato persone e nazioni.

Come risolvere il problema del sistema nell’ambito dell’etica di fronte alle nuove sfide della biomedicina? A questo riguardo P. Giustiniani propone la transizione dal “ripensare la bioetica in orizzonte ‘metafisico’” per l’orizzonte ‘non-metafisico’”, al “riflettere in un orizzonte complesso” con lo scopo di far “riemergere la ‘persona’ (nella complessità del corpo e del tempo) alla luce della vita come “meraviglia” e “gioia” a confronto con “le sorprese offerte dalla vita stessa”[30]. Nella sua “Bioetica globale”, per riconciliare Uomo e Natura, B. Chiarelli propone invece, sulla base della “visione naturalistica, evoluzionistica e scientifica dell’Etica della vita”, la definizione “razionale e naturalistica di Bioetica” che “deve prima di tutto proporre la conservazione del DNA tipico della specie e il mantenimento della sua variabilità intraspecifica” e, per conseguenza, deve “focalizzare i problemi connessi con la migliore sopravvivenza dell’Uomo, sia nella sua accezione di individuo che come specie, sia nel momento presente che per le generazioni future”[31]. Il personalismo, come punto di vista della persona nel mondo e, come metodo di vedere e di sistemare i fenomeni nonché di snodare i problemi, ci indica – a mio parere – una direzione diversa per risolvere il problema del sistema nell’ambito dell’etica. Il personalismo propone la sua visione ideale, la meta ultima, la quale si definisce come “piena comunità degli uomini”, “mondo delle persone”, “persona delle persone” (personne des personnes), cioè il mondo umanizzato pienamente, il mondo penetrato dall’uomo fino in fondo. E. Mounier non soltanto ha rifiutato ogni forma di violenza e di forza, ma anzitutto ha proposto di assumersi il carico permanente della personalizzazione dell’uomo e del suo mondo. Questa fatica etica apre la persona alla persona come l’Io al Tu nella comunità del Noi (communion) nel nostro mondo (amo ergo sum di Mounier[32]). La proposta del personalismo cristiano di una “rivoluzione pacifista”[33] per creare il mondo delle persone, il mondo più umano, non si perde nell’abisso del mondo dell’anonimato, deformato e senza volto umano, ma apre la possibilità di creare l’ambiente, la cultura e la civiltà delle persone per le persone con lo scopo di sviluppare e di difendere pienamente la vita personale (nous créons nous-mêmes – dice Marcel – et nous faisons de nous ce que nous faisons des autres). Alla pretensione di governare il mondo Marcel contrappone l’umiltà di concreare il mondo. Al mondo della funzione egli contrappone il mondo dello sviluppo interno. Contro la cultura tecnica pone la cultura etica. La cultura è, secondo Marcel, la realtà dinamica, che non consiste nell’accumulazione, nella somma dei beni e delle conquiste tecniche, ma nella creazione di se stesso e del mondo. Nella creazione si svolge uno scambio misterioso e reciproco tra il donare e il ricevere che alla fine diventano una sola cosa – la totalità dell’essere come partecipazione piena alla vita del Creatore. Nella visione del mondo di Marcel, infatti, si incontrano l’etica (“l’apertura ai valori, e tramite i valori al Valore”, per usare la terminologia di D. Tettamanzi) e la religione (l’apertura al Sacrum) come due vie verso la pienezza dell’essere. Andando più avanti nella sua prospettiva si può constatare che il cammino del cristiano verso la santità e il cammino dell’uomo verso la pienezza dell’essere sarebbero e farebbero una sola strada che conduce all’accordo pieno, cosciente e responsabile della persona con se stessa, con la sua esistenza e con il suo mondo nella verità dell’essere (essere-verità)[34] e nella fedeltà all’essere (essere-verità-bontà). L’etica della responsabilità (di se stesso, degli altri e del mondo) e la fedeltà ontologica (L’être comme lieu de la fidelité) attraverso la “vita interiore” (Mounier), la formazione della coscienza morale (Evangelium vitae, n. 96; Veritatis splendor, n. 64) e l’educazione (Evangelium vitae, n. 97) [35] tracciano due vie e due piloni della costruzione della cultura etica, della cultura della vita e della civiltà dell’amore di cui parla oggi la Chiesa attraverso la voce forte e incessante di Giovanni Paolo II[36].  “Il Vangelo della vita non è esclusivamente per i credenti: è per tutti... Per questo, la nostra azione di “popolo della vita e per la vita” domanda di essere interpretata in modo giusto e accolta con simpatia... Il Vangelo della vita è per la città degli uomini. Agire a favore della vita è contribuire al rinnovamento della società mediante l’edificazione del bene comune... Il “popolo della vita” gioisce di poter condividere con tanti altri il suo impegno, cosicché sia sempre più numeroso il “popolo per la vita” e la nuova cultura dell’amore e della solidarietà possa crescere per il vero bene della città degli uomini” (Evangelium vitae, n. 101).

 

Conclusioni

 

Il campo della bioetica con le sue varie dimensioni teoretiche e zone applicate non investe soltanto la responsabilità degli scienziati e dei medici, ma le decisioni e il destino d’ogni persona, le responsabilità politico-sociali, culturali e religiose della collettività. Pertanto va oltre l’ambito della pura deontologia professionale, del sistema etico professato, dell’etica della scienza, dell’etica scientifica o dell’etica medica[37]. “Anche gli intellettuali – scrive ancora Giovanni Paolo II – possono fare molto per costruire una nuova cultura della vita umana. Un compito particolare spetta agli intellettuali cattolici, chiamati a rendersi attivamente presenti nelle sedi privilegiate dell’elaborazione culturale, nel mondo della scuola e delle università, negli ambienti della ricerca scientifica e tecnica, nei luoghi della creazione artistica e della riflessione umanistica” (Evangelium vitae, n. 98).

Il presente contributo ha proposto un approccio alla riflessione bioetica nei termini di una lettura e di un’interpretazione personalistica. Perciò è stato attento in modo particolare alle prospettive teoriche e alle indicazioni pratiche relative alla vita umana, al corpo umano, alla persona colta nel suo divenire, nel compito sempre aperto a farsi e a costruirsi e, di conseguenza, all’etica. Nella lettura diretta delle opere di G. Marcel e di E. Mounier e della letteratura critica ad esse relativa, mi sono posto l’interrogativo di individuare le prospettive e le dinamiche che concretamente accompagnano il progetto dei personalisti francesi nell’elaborazione e nella costruzione di un nuovo umanesimo attraverso il processo di personalizzazione dell’uomo e del suo mondo (cultura etica). Questo processo include ogni uomo e tutti gli uomini, ogni attività e realtà umane. Mi sono limitato ad una proposta di umanizzazione della riflessione bioetica perché “sul piano speculativo – come afferma G. Santinello - prevalgono atteggiamenti anti-umanistici, collegabili non tanto ad una sopravvalutazione delle scienze e della tecnica”, ma soprattutto per “motivazioni ‘ermeneutiche’ e riflessive lontane dai valori dell’umano”[38] e per la forma troppo tecnica, formalistica e astratta radicalmente distaccata dalla “persona-in-situazione”. La persona in forza dell’atto dell’essere, dotata della densità unica, possiede una dignità intrinseca. La dignità della persona ha una dimensione ontologica in quanto realtà inseparabile dall’essere uomo. La dimensione antropologico-personale dell’essere uomo è già valore e si snoda in valori. Il valore va posto nell’uomo in quanto è e diventa persona. La persona è un valore oggettivo, trascendente e intangibile, e quindi normativo. Da questa realtà fondamentale e normativa risulta indubbiamente che il modello etico di riferimento che intenda custodire e promuovere la “verità intera” dell’uomo sia e non possa essere che il modello personalistico. Tale modello trova il criterio morale nell’uomo stesso in quanto persona e lo difende da ogni forma di strumentalizzazione e di frammentazione. Personalismo integrale e comunitario nella forma di cultura etica, di cultura della vita e di civiltà dell’amore sarebbe un efficace aiuto alla ricostruzione della terza via nella riflessione contemporanea bioetica tra due direzioni estreme: sistemazione-schematizzazione intesa come forma e metodo del riduttivismo e della semplificazione della persona-in-situazione, e frammentazione della persona e, per conseguenza, della riflessione bioetica (“un nuovo ritorno della casistica”)[39].

 

 


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[1] Cfr E. Kowalski, Quale uomo e quale etica per la bioetica. Una proposta di umanizzazione della riflessione bioetica, StMor 39(2001), 175-195.

[2] Nel mondo e soprattutto negli Stati Uniti si discute al presente su questo problema: chi per primo abbia usato il vocabolo „bioethics”, V. R. Potter a Madison (Wisconsin) oppure S. Shriver ed A. Hellegers a Washington, D.C., cfr W. Th. Reich, The Word „Bioethics”: Its Brith and the Legacies of those Who Shaped It, Kennedy Institute of Ethics Journal, 4/1994/4, 319-335; The Word „Bioethics”: The Struggle Over Its Earliest Meanings, Kennedy Institute of Ethics Journal, 5/1995/1, 19-34; Revisting the Launching of the Kennedy Institute: Re-visioning the Origins of Bioethics, Kennedy Institute of Ethics Journal, 6/1996/4, 323-327; E. P. Pellegrino, The Origins and Evolution of Bioethics: Some Personal Reflections, Kennedy Institute of Ethics Journal, 9/1999/1, 73-88.

[3] In quest’articolo prendo in considerazione gli autori seguenti: A. Bompiani, Bioetica in medicina, CIC Edizioni Internazionali, Roma 1996; T. L. Beauchamp, J. F. Childress, Principles of Bioemedical Ethics, Ed. IV, Oxford University Press, New York-Oxford 1994; P. Cattorini, R. Mordacci, M. Rechlin (a cura di), Introduzione allo studio della bioetica, Europa Scienze Umane Editrice, Milano 1996; B. Chiarelli, Bioetica globale, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 1993; D. von Engelhardt, Etica e medicina. Problemi e scelte della pratica quotidiana, Trad. it., Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 1994; C. Lega, Manuale di bioetica e deontologia medica, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano 1991; S. Leone, Lineamenti di Bioetica, Ed.2, Medical Books di G. Cafaro, Palermo 1990; T. A. Mappes, D. De Grazia, Biomedical Ethics, Ed. IV, McGraw-Hill, New York 1996; S. Rodotà (a cura di), Questioni di bioetica, Editori Laterza, Roma-Bari 1993; E. Sgreccia (a cura di), Bioetica. Manuale per i Diplomi Universitari della Sanità, Vita e Pensiero, Milano 1999; V. Tambone, Problemi di bioetica e deontologia medica, Società Editrice Universo, Roma 2000; D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 2000.

[4] E. Mounier, Oeuvres, Seuil, T. I-IV, Paris 1961-1963.

[5] G. Marcel, Journal Métaphysique, Gallimard, Paris 1997; Position et approches concrètes du mystère ontologique, Jean-Michel Place, Paris 1977; Etre et avoir, Editions Universitaires, Paris 1991; Homo Viator, Présence de Gabriel Marcel, Paris 1998; Le mystère de l’être, Présence de Gabriel Marcel, Paris 1997; La dignité humaine et ses assises existentielles, Aubier, Paris 1968; L’homme problématique, Aubier, Paris 1955; Présence et immortalité, Flammarion, Paris 1959.

[6] C. Zuccaro, La vita umana nella riflessione etica, Editrice Queriniana, Brescia 2000, 49.

[7] M. Sànchez Sorondo (a cura di), La vita. Storia e teoresi, Pontificia Università Lateranense, Roma 1998.

[8] D. Composta, Intersoggettività e morale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999, 73-74.

[9] Ibidem, 74.

[10] Cfr C. Carrara, La solitudine nelle filosofie contemporanee dell’esistenza, Pontificia Università Lateranense, Roma 1994.

[11] Cfr G. Cicchese, I percorsi dell’altro. Antropologia e storia, Città Nuova Editrice, Roma 1999.

[12] J. Gevaert, Il problema dell’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, Editrice Elle Di Ci, Torino 1992, 49.

[13] Ibidem, 49-57; G. Basti, Filosofia dell’uomo, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995, 69-101; S. Palumbieri, L’uomo, questa meraviglia. Antropologia filosofica I. Trattato sulla costituzione antropologica, Urbaniana University Press, Roma 1999, 69-97; R. Zavalloni, Linee di sviluppo nella concezione della „corporeità” umana, Antonianum 65(1990)2-3, 345-382.

[14] G. Marcel, Giornale metafisico, Trad. it., Abete, Roma 1966, 157; cfr E. Mounier, Il personalismo, Trad. it., AVE, Roma 1989, 36-37.

[15] J. Gevaert, Il problema dell’uomo, op. cit., 49-57.

[16] Ibidem, 61-65; S. Palumbieri, L’uomo, questa meraviglia, op. cit., 105.

[17] F. Bellino, I fondamenti della bioetica. Aspetti antropologici, ontologici e morali, Città Nuova Editrice, Roma 1993, 59.

[18] H. T. Engelhardt, Bioetica: i limiti della legislazione, Biblioteca della Libertà 125/1994, 85-107; The Foundations of Bioethics, Oxford 1986, 105.

[19] F. Boscia, Sul piano delle biotecnologie, in: M. Cozzoli (a cura di), La soggettività tra individualismo e personalismo, op. cit., 106; W. Norris Clarke, Persona ed essere (a cura di Siobhan Nash-Marshall), Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 1999, 67-83.

[20] J. M. Trigeaud, La personne ou la justice au double visage, Studio Editoriale di Cultura, Gênes 1990, 50; da: R. Andorno, La bioéthique et la dignité de la personne, Presses Universitaire de France, Paris 1997, 34.

[21] Cfr E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jacka Book, Milano 1990, 64, 299; Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Città Nuova Editrice, Roma 1984, 100-101; da: G. Cicchese, I percorsi dell’altro, op. cit., 207-223.

[22] R. Adorno, La bioéthique et la dignité de la personne, op. cit., 35.

[23] Cfr P. Giustiniani, Quale progetto di persona per una bioetica oggi?, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1998, 61-70.

[24] F. Bellino, I fondamenti della bioetica, op. cit., 58-59.

[25] D. Tettamanzi, Bioetica. Nuove sfide per l’uomo, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1987, 28.

[26] Ibidem, 28-33.

[27] A. Bompiani, Bioetica dalla parte dei deboli, op. cit., 15-24; 49-71; Bioetica in Italia. Lineamenti e tendenze, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 1992, 53-88.

[28] M. Cozzoli, La bioetica e i suoi problemi. Il passaggio al terzo millennio, Rivista di Teologia Morale, 125/2000/1, 42-43.

[29] F. Bellini, I fondamenti della bioetica, op. cit., 85.

[30] P. Giustiani, Quale progetto di persona per una bioetica oggi?, op. cit., 61-104.

[31] B. Chiarelli, Bioetica globale, op. cit., 170-171.

[32] Cfr S. Palumbieri, Amo dunque sono. Presupposti antropologici della civiltà dell’amore, Paoline Editoriale Libri, Milano 1999, 10.

[33] Cfr M. Montani (a cura di), Una rivoluzione esigente. Il messaggio di Emmanuel Mounier, Editrice ELLE DI CI, Torino 1985, 81-176; Persona e società. Il messaggio di Emmanuel Mounier, Editrice ELLE DI CI, Torino 1978, 127-192; G. Goisis, L. Biagi, Mounier fra impegno e profezia, Euganea Editoriale Comunicazioni, Padova 1990, 311-460; G. Campanini, Il pensiero politico di Mounier, op. cit., 49-70; 149-192.

[34] Cfr Fides et ratio, nn. 106-107.

[35] Cfr P. L. Cameroni, Personalizzazione ed educazione in Emmanuel Mounier, op. cit., 9-13.

[36] Cfr S. Majorano, Bioetica oggi: la lettura teologica, in: M. Iadanza (a cura di), Bioetica oggi. Alla ricerca del “filo d’Arianna” nel labirinto delle bioetiche (Seminario di studi: Benevento, 24-27.04.1997),  Benevento 1998, 59-73.

[37] F. Bellino, I fondamenti della bioetica, op. cit., 23.

[38] G. Santinello, Bilancio del personalismo cristiano, in: Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale Sezione di Padova (a cura della), Persona e personalismo. Aspetti filosofici e teologici, Fondazione Lanza, Padova 1992, 91.

[39] C. Zuccaro, La vita umana nella riflessione etica, op. cit., 5; A. Drago, Definizioni della bioetica e dei suoi principi. Nella visione pluralista dell’etica e della scienza, Rivista di Teologia Morale, 127/2000/3, 410; L. Canovacci, Per una metodologia casistica, Bioetica, VIII/2000/2, 242-261.