PRESENTAZIONE

 

Le meditazioni di P. Giuseppe qui raccolte partono da un presupposto molto semplice ed essenziale: che alla Parola di Dio c’è da aggiungere ben poco, in quanto il Testo sacro, come si suol dire, parla da solo. Da qui procede il tono generale del discorso, che raramente è di carattere interpretativo e sempre, invece, punta sulla chiarezza del dettato scritturistico. Nasce così un tipo di meditazione che ha il sapore di un colloquio di un padre di famiglia che la sa lunga, e che ammicca continuamente all’esperienza propria ed altrui per attualizzare la perenne novità del Verbo. Il carattere disinvolto di questa spiritualità così diretta ed immediata si sostanzia di tre atteggiamenti strettamente uniti tra loro.

Innanzitutto la provocazione. P. Giuseppe ama molto stimolare la sensibilità più autentica del suo interlocutore, e gli basta poco per rendersi conto del tipo di persona con la quale ha a che fare. E se di persona fa ricorso a domande così precise da lasciare stupiti gli interlocutori per la pertinenza di quanto richiesto alla loro storia, lo sguardo indagatore sulla pagina scritta ama farsi motteggio libero, delicato, e “indiscreto” al tempo stesso. Quando la conoscenza della natura umana si accompagna alla comprensione per la nostra debolezza e smaschera così i mille sotterfugi con i quali siamo soliti schermare le nostre coscienze, basta una parola per smontare un cumulo di false certezze. E quando queste parole sono scelte a ragion veduta, sortiscono un effetto destabilizzante, decentrante, “scioccante”, provocatorio, insomma.

Non sarebbe possibile scendere così in profondità nelle pieghe più riposte delle contraddizioni di tanta religiosità contemporanea senza una buona dose di complessa semplicità (si perdoni l’ossimoro). Le meditazioni di P. Giuseppe sono, infatti, semplici, a volte estremamente immediate. Gli stessi concetti tornano frequentemente, ogni volta aggiornati alla luce di un particolare nuovo che fornisce maggiore completezza e precisione. In ciò si coglie non solo il gusto per la precisione, ma anche il desiderio di comunicare e di sondare le possibili reazioni del lettore. P. Giuseppe è un indagatore attento, curioso, divertito dalla complessità del reale e per questo divertente quando te la propone sfaccettata come un diamante e brillante come uno spettro solare. Nell’uno e nell’altro caso, però, semplice, nonostante la profondità dell’esperienza che l’ha preceduta.

Sì, perché ciò che maggiormente colpisce dalla lettura delle meditazioni è l’interpretazione dei dati offerti dalla realtà. Che si tratti di un tramonto o di un filo d’erba, del sorriso di una mamma o dell’osservazione di un comportamento, del ricordo di un’esperienza o della cronaca di un fatto, anche apparentemente insignificante, il riferimento alla concretezza della res, della cosa in sé, è sempre finalizzato alla dimostrazione del continuo incarnarsi della Parola di Dio nel tessuto esperienziale dell’uomo.

In questo modo il gusto della chiarezza senza infingimenti e falsi scrupoli, che più sopra abbiamo definito “provocazione”, il ricorso ad una colloquialità semplice ma tutt’altro che superficiale e, di conseguenza, il rapporto dinamico con le cose del mondo formano un quadro completo di schietta religiosità, colta e scaltra al tempo stesso.

Si è che le meditazioni subito proposte portano l’impronta di una personalità davvero unica, che ha saputo fare della propria vita un inno alla libertà, nella faticosa ricerca di un equilibrio che passa necessariamente attraverso il coraggio di guardare in faccia la realtà per non ingannare se stessi e gli altri.

Soprattutto quando questi “altri” sono fratelli nella fede e condividono con noi lo stesso cammino di precarietà e di speranza

INTRODUZIONE

 

Non è facile riassumere in poche righe il contenuto delle meditazioni di Padre Giuseppe qui raccolte. Il desiderio di ricercare e contemplare la verità biblica ed evangelica nelle pieghe più sottili della realtà morale e storica dell’uomo di sempre induce, infatti, ad un atteggiamento di accoglienza sconfinato verso i segni della presenza di Dio, senza tralasciare nulla di quanto possa aiutarci a riflettere sulla nostra vita.

Un atteggiamento del genere nasconde però il rischio di una eccessiva genericità, di una dispersione dei principali valori del Cristianesimo proprio nel momento in cui si vorrebbe difenderli. Il diffuso atteggiamento culturale che induce ad una offerta di contenuti e di problematiche morali ed intellettuali sempre più vasta genera un desiderio di stabilità, risveglia l’innata tensione a cercare dei punti di riferimento stabili intorno ai quali impostare una ricerca di ordine e di equilibrio. L’uomo contemporaneo ha bisogno di confrontarsi con realtà solide, perché ha troppo a lungo sperimentato l’efficacia effimera di proposte che durano il tempo d’un giorno. Padre sembra aver intuito bene questa verità nel momento in cui, pur nella varietà delle tematiche affrontate, suggerisce punti di riferimento costanti, valori universali nei quali messaggio cristiano e ricerca di significato si incontrano e parlano lo stesso linguaggio. Si tratta di fili rossi che attraversano l’intero corpo delle meditazioni e che possono essere presi in esame come avvio ad una lettura che, si noterà, mantiene sempre molto vivi i contatti con la poliedricità dell’esperienza.

Il termine che ricorre più frequentemente nelle meditazioni è “verità”. Il concetto non rimane mai astratto e generico, ma si identifica sempre con il messaggio evangelico e, alla luce delle parole di Cristo, con l’intera Scrittura. Cristo ha rivelato l’uomo all’uomo, ha indicato la strada della perfetta obbedienza alla volontà del Padre e, grazie ad essa, l’altissima vocazione alla quale siamo tutti chiamati. Gesù è l’unica luce in grado di diradare le tenebre delle false seduzioni del mondo, l’unica speranza contro i fallimenti dei progetti umani ed il senso di impotenza che ne deriva, l’unico Spirito di vita eterna in grado di sottrarre le scelte e le opere dell’uomo al morso avvelenato del trascorrere del tempo. Alla luce di questa Verità incarnata ed entrata nella storia, Padre Giuseppe legge non solo i grandi obiettivi ed ideali della vita cristiana, quali la preghiera, le opere di carità, l’amore e l’umiltà, ma anche le più pericolose minacce del nostro tempo, come il consumismo smodato o la violazione della vita. In tutti i casi il messaggio di Cristo porta chiarezza e fermezza, senza lasciare adito a fraintendimenti o problemi di interpretazione: la denuncia delle violazioni all’ordine naturale delle cose voluto da Dio è in questo modo netta, come netto è il monito a non voler fare nulla senza tenere l’occhio costantemente rivolto a Dio.

La verità evangelica è messaggio di salvezza universale, ma sono soprattutto i consacrati gli uomini e le donne che hanno ricevuto in dono un rapporto più personale ed intimo con essa, a partire dalla Madonna, modello di perfezione per quanti si incamminano sulla via della castità, della povertà e dell’obbedienza. La vita consacrata e l’esempio di Maria hanno un peso primario nelle riflessioni affidate alle meditazioni: l’una e l’Altra si illuminano a vicenda, in modo del resto coerente con lo spirito dell’Opera, sostanzialmente mariano. Alla luce di questa reciprocità, l’apostolato dei Missionari, delle Apostoline, degli Operai del Vangelo è letto ed interpretato come visita ed accoglienza della vita, soprattutto nelle sue dinamiche familiari, laddove più intimamente e profondamente la persona umana trova la sua identità personale e collettiva.

Accoglienza, visita, pastorale familiare: sono questi i temi portanti di tante riflessioni: momenti vissuti come esperienze privilegiate di incontro con il mondo, con la realtà nella quale Gesù stesso ci invita a brillare come astri o a fermentare come lievito, in quella comunione di intenti e di aspirazioni che, sola, permette di crescere nella carità e nella fraternità.

Perché il moggio non soffochi la fiammella della lucerna o il lievito non smetta di fermentare la massa è necessario pregare, sempre costantemente.

Padre Giuseppe dedica alla preghiera parecchie meditazioni, e tutte pervengono alla stessa conclusione: la preghiera è rinnegamento di sé, accettazione del progetto di Dio soprattutto quando questo stride con le nostre attese, soave sacrificio di volontà. Per questo Padre è un sacerdote che i più anziani definirebbero “moderno”: i suoi interventi raramente fanno riferimento a digiuni, astinenze o pratiche analoghe, perché in un’epoca come la nostra, nella quale la volontà rischia di essere terribilmente indebolita dal generale permissivismo, in tutti i campi, l’offerta più gradita diventa proprio il disagio di un’anima che lotta per la difesa della sua identità cristiana.

La Verità torna così ad illuminare ogni aspetto della realtà, religioso o laico che sia. Molte meditazioni, del resto, paiono scritte da un intellettuale, più che da un uomo di Chiesa: padre Giuseppe non dimentica mai la ragione, i suoi diritti, le sue attese, le sue priorità, e con lucida determinazione ne scandaglia le contraddizioni per ribadire il primato della fede. Non si tratta del vecchio problema scolastico dei rapporti tra Verità rivelata e verità intelligibile: la Verità è una, e la ragione, da buona ancella, le viene dietro. E’ un discorso di umiltà: e il primo passo per essere umili è accogliere.

Questo si invita a fare a chi si accinge a leggere (e magari meditare) le pagine seguenti.

 

 

 

 

 

 

 

LA VERITA

 

VI FARA’

 

LIBERI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CHIUNQUE E’ DALLA VERITA’, ASCOLTA LA MIA VOCE

 (Gv. 18,37)

Questo ritiro ci deve aprire un po’ la porta dell’incontro con il Signore, incontro che in questi nostri tempi si fa sempre più difficile a causa di distrazioni che ci alienano dai veri valori. Il primo brano lo vogliamo leggere direttamente dal Vangelo di San Giovanni (18,37). Si parla di Gesù dinanzi a Pilato. Nel colloquio che ha con lui, Gesù dice: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”.

Come avrebbe potuto Pilato sapere che Gesù era ed è la verità? Innanzitutto doveva prestare ascolto alla voce della sua stessa moglie, quando gli diceva: “Tieniti lontano dalla faccenda di questo giusto, questa notte infatti sono stata molto turbata in sogno per causa sua”. Era la voce di Dio che in quel momento parlava a lui che era un pagano per portargli luce e aiuto, ma Pilato non l’ascoltò, non indagò, perché non era dalla verità. Nel Vangelo la “voce” è identificata con Giovanni il Battista: “Voce di colui che grida nel deserto: preparate le strade al Signore”.

Giovanni Battista è stato voce per il popolo ebreo. Alla luce del Vangelo di Giovanni possiamo dire che Gesù Cristo, Verbo di Dio, è il contenuto della parola, mentre la voce ne è lo strumento, il mezzo. Lo strumento che Dio aveva utilizzato come voce per portare il Verbo a questa gente era un ragazzo di sei mesi più grande di Gesù, da tutti ritenuto un profeta. Ma gli scribi e i farisei non accolsero la testimonianza di Giovanni il Battista, così come fece Pilato; essi non tennero in nessun conto quelle parole, non si confrontarono con esse, non ne videro la luce o meglio chiusero gli occhi per non vedere e convertirsi: non si schierarono dalla parte della verità e non vi aderirono.

Nell’Antico Testamento i profeti erano la voce attraverso cui lo Spirito Santo si esprimeva e questa voce riecheggiava nel popolo ebreo attraverso le Scritture. Gli Ebrei sapevano bene con chi avrebbero avuto a che fare: con il Messia, il Re, il Figlio dell’Altissimo fattosi però servo sofferente. Una profezia, quella del capitolo 7 del libro di Daniele, ci parla del Figlio dell’uomo che sulle nubi del cielo riceve dal Padre gloria, onore e potenza; diventa il Re, il Signore di tutto il creato; un figlio di uomo, un figlio del popolo ebreo avrebbe ricevuto tutto questo.

Gesù dice a Pilato: “Per questo sono venuto al mondo, per rendere testimonianza alla verità”. “Dunque tu sei Re?” “Tu lo dici, Io sono Re”. La verità che innanzitutto vuole manifestare di fronte a Pilato è questa: Egli è il Re il cui Regno non avrà mai fine. “Il mio Regno non è di questo mondo –continua Gesù- se il mio Regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei”.

Anche l’angelo che portò l’annunzio a Maria le disse che avrebbe avuto un Figlio il cui Regno non avrebbe avuto fine. Questa verità che Gesù ha testimoniato dinanzi al proconsole non viene ascoltata, non viene tenuta in alcuna considerazione perché le categorie di re, signore, figlio di Dio vengono valutate non alla luce dei profeti, della testimonianza di vita di Gesù, delle sue parole, ma in relazione al potere religioso-politico-sociale.

Anche noi, la nostra generazione, noi cristiani, ci poniamo di fronte a Gesù come Ponzio Pilato perché, diciamocelo francamente, l'arredamento, le cose belle, il conto in banca, l’uomo e la donna fatti di carne ed ossa sono cose più pratiche, più immediate e alla portata di tutti. Si vede l’effetto, si ottiene qualcosa, ma Gesù Cristo chi lo vede, chi lo tocca, dove sta? Come, dove e quando si è manifestato ad uno di noi? Ci piacerebbe pregare ed ottenere subito il miracolo, andare in chiesa e diventare subito buoni, accendere una candela ed avere un bel voto senza studiare. Ci piacerebbero le cose facili, piacevoli, magari solo una parte della Verità: la Bibbia sì, la Chiesa no, Gesù sì, i preti no, ecc… “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Ma chi è dunque dalla verità?

La voce di Dio che si esprime nei profeti e che parlava al popolo ebreo, parlava e parla anche ai pagani attraverso la coscienza. Nella lettera ai Romani (2,14) San Paolo dice che i pagani diventano legge a sé quando dimostrano con la loro vita di avere una legge, una dirittura morale. Con la loro buona condotta certi pagani dimostrano che la voce della coscienza è la “voce del Verbo”. Ci sono pagani che sono più cristiani dei cristiani; non fa meraviglia questo, anzi, dimostra che coloro che non sono né cristiani, né giudei, e quindi non hanno i profeti e la legge mosaica, osservano una legge interiore, la legge della coscienza che Dio ha stampato nei cuori.

C’è anche un’altra voce, quella del creato. Sì, perché anche il creato, nel suo silenzio, è molto eloquente. Nella lettera ai Romani (1,18-32) San Paolo dice che la grande opera di Dio può essere colta da tutti gli uomini perché Dio si manifesta in tutto il mondo creato. Gli uomini impugnano la verità e, anziché dare onore a Dio che ha creato tutte queste meraviglie, si fermano ad adorare le creature: adorano l’uomo, la donna, i divertimenti, i piaceri, gli idoli, adorano i demoni. Abbiamo perso l’abitudine di riscontrare l’opera di Dio in un fiore, negli occhi di un bambino, nei monti, nel mare, nel tempo, nelle stagioni. Ci manca lo spirito di riflessione, di meditazione, di contemplazione, lo spirito di preghiera.

Dunque Dio che ha parlato agli Ebrei per mezzo dei profeti, parla ai pagani, anche ai pagani del nostro tempo, per mezzo della coscienza e con la “voce” del creato. E per noi cristiani? Per noi cristiani c’è una cosa meravigliosa. Dice Gesù (Gv 6,45): “E tutti saranno ammaestrati da Dio” (cfr. Ger 31,32). E ancora: “Chiunque ascolta il Padre viene a Me”. La novità nel Nuovo Testamento consiste nell’attrazione che Dio esercita sul nostro cuore. Una spinta interiore, un richiamo forte, formidabile da parte di Dio.

Per andare a Gesù ci vuole dunque quest’ascolto della lezione interiore dello Spirito di Dio dentro di noi. Per noi cristiani la responsabilità è ancora più grande perché oltre alla voce del creato, della coscienza, dei profeti, abbiamo anche l’istruzione di Dio nel nostro cuore: Dio ci precede, ci accompagna e ci segue con la Sua grazia. Tutti sappiamo che attraverso Gesù si giunge al Padre, ma sappiamo che il Padre sta aspettando tutti quanti noi, ci sollecita, ci richiama?

Ma perché gli Ebrei non hanno ascoltato la voce dei profeti e di Giovanni Battista, perché pochi sono i pagani che ascoltano la voce della coscienza, perché noi cristiani non ascoltiamo la voce del Padre? Perché manca l’amore alla verità per essere salvati. “Chiunque ha udito il Padre ed ha imparato da Lui viene a Me”. Chi ascolta? Chi è dalla verità. Dunque la chiave principale per ascoltare la voce di Dio è non far trionfare la menzogna dentro di noi. Un grande amore per la verità: giù la maschera, basta con il carnevale e con le finzioni. Dire a noi stessi quello che siamo, scoprirci davanti a Dio e chiederGli di essere veritieri. Mi viene voglia di nascondermi come Adamo ed Eva, di fuggire dalla presenza del Signore? Andrò a confessare i miei peccati! Mi vien voglia di dire bugie, di nascondere l’età, i miei difetti, di mostrare solo la parte migliore di me? Voglio vantarmi e farmi valere con gli altri? Rinnegherò me stesso mantenendomi nell'umiltà!. Sono cattivo? Dirò quello che sono, confesserò a Dio il mio peccato, mi impegnerò con buona volontà, comprenderò gli altri e li considererò migliori di me. Veritieri con i fratelli, con i genitori, sul lavoro, a scuola, nei rapporti interpersonali.

Educarci quindi ad una vita di verità significa ascoltare e rendersi conto che Dio parla con diverse modalità: prestare dunque attenzione e confrontarsi con il Vangelo, il Magistero, la vita dei Santi.

Forse abbiamo compreso che Dio parla, ma siamo duri d’orecchio, non ascoltiamo perché abbiamo preferito le tenebre alla luce, la menzogna alla verità, una vita di falsità ad una vita di chiarezza.

Nel capitolo 8 del vangelo di San Giovanni al v. 31, Gesù dice: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. I Giudei controbattono dicendo che non sono schiavi di nessuno. Menzogna! Sono sempre stati schiavi, dagli Egiziani agli Assiro-Babilonesi, ai Romani…

Gesù risponde a quei Giudei: “In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero…se Dio fosse vostro Padre certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo…Perché non potete dare ascolto alle mie parole voi che avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio e non ha perseverato nella verità perché non vi è verità in lui e quando dice il falso parla del suo perché è menzognero e padre della menzogna”.  Questo è il nòcciolo: se compi i desideri di Dio, hai Dio per Padre. Al contrario tuo padre sarà il diavolo se compirai, asseconderai i suoi desideri. SI COMPRENDE COSI’ CHE IL SEGRETO DELLA SANTITA’, COME DICEVA PADRE PIO, CONSISTE NEL SEGUIRE LE BUONE ISPIRAZIONI, L’ATTRAZIONE DI DIO.

Questa dunque è la conclusione: la Parola di Dio che ci viene attraverso il creato, la coscienza, la Scrittura, la Chiesa, non mette radice in noi perché preferiamo seguire i desideri e i capricci che non vengono da Dio, perché non siamo abituati a fare delle scelte coraggiose e veritiere. E’ più facile scherzare che impegnarsi e fare scelte secondo l’attrattiva di Dio nel nostro cuore; è più facile divertirsi che pensare a costruire, sforzandosi ogni giorno di vivere secondo verità. Per esempio: in questo momento potreste sentire dentro di voi un suggerimento che vi invita a prestare ascolto alle parole del sacerdote, ma è più facile distrarsi che fare un piccolo sforzo per comprendere e penetrare la Parola. Qual è allora la sintesi di questo nostro ritiro? Per accogliere la Parola di Gesù, per ascoltare la sua voce e poter quasi parlare con Lui, dobbiamo essere dalla parte della verità che significa ascoltare la voce di Dio. Non è una tautologia, cioè un ripetere con altre parole lo stesso concetto. Quando siamo scaturiti dalle mani di Dio abbiamo ricevuto dentro di noi la possibilità di aderire alla verità, al bene, alla luce. Tutte le volte in cui facciamo volontariamente scelte sbagliate, ci annebbiamo la vista e se perseveriamo in esse, ci lasciamo condizionare sempre di più sino al punto di diventare sordi pur avendo le orecchie, ciechi pur avendo gli occhi.

“Ascolta la mia voce”: ascolta, leggi i profeti, l’Antico Testamento, la Parola del Signore. Poni attenzione a Dio che parla nel tuo cuore, nella coscienza, poni attenzione alle opere di Dio, adoralo, ringrazialo per tutte le cose belle e buone che ti ha dato. Non aspettare di perdere la moglie, il marito, l’amico per considerare tutto il bene che hanno fatto; non aspettare i momenti critici per fare quello che puoi fare oggi. E il momento critico per ciascuno di noi è amare la verità, dire il vero a noi stessi e agli altri, confessare il nostro peccato che è il primo modo per dire la verità a noi stessi. Ascolta quella vocina interiore che ti dice: fermati, leggi la Parola, ascolta tua moglie, tuo marito, tuo figlio…porgi attenzione a quella voce perché è la voce di Dio. E se qualche volta il tuo nipotino ti dirà: “Mi fai entrare in chiesa per dire la preghierina a Gesù”, è Dio che vuole ricordarti di santificare le feste, vuole ricordarti che Egli è il Signore e che noi siamo di passaggio e la nostra patria è in cielo.

Invece succede che Dio parla e noi non l’ascoltiamo perché stiamo seguendo le vanità dei nostri pensieri, spesso anche i suggerimenti del demonio. Pensiamo che tutto sia per la terra, per gli onori, per la casa, il lavoro. Ma non è così! La verità è che Cristo è il Re di tutte le cose, il suo regno non avrà fine e noi siamo chiamati a questo Regno. La verità è che noi dobbiamo affrontare la nostra morte, siamo sinceri, leali: dobbiamo morire ma il Regno ci aspetta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’IGNORANZA DELLE SCRITTURE E’ IGNORANZA DI CRISTO

 

Nella Bibbia ci sono parole e fatti che esprimono non evidenze di verità scientifiche ma di verità di fede, di salvezza. Se, ad esempio, interpretiamo le parole "Sole, fermati in Gàbaon" (Gs 10, 12) come espressione di un fatto scientifico, commettiamo un grosso errore perché non si tratta di una rivelazione astrofisica del nostro tempo ma di un miracolo. Di fatto ci fu che il giorno si allungò, la luce non venne meno e gli Israeliti poterono far vendetta dei loro nemici.

Anche oggi diciamo: "Il sole sorge alle ore..." ma sappiamo bene che scientificamente le cose non stanno così, è un modo di dire, è relativo al punto di riferimento. Le parole "sole, fermati" altro non vogliono dire se non: "Signore, allunga la giornata, dammi più spazio per la vittoria!", fatto che è nella potenza di Dio e che è avvenuto.

Non argomentare, quindi, teorie scientifiche sul sistema solare dalla Bibbia perché questo non è un testo scientifico ma contiene verità utili e necessarie alla nostra fede per la nostra salvezza. Se consideriamo le Sacre Scritture come opera umana, essa appare scritta in tempi diversi, in nazioni diverse, in contesti ed epoche diverse, da autori vari e ciascuno avrà avuto la sua mentalità, la sua cultura, il suo stile, i suoi punti di riferimento, il suo modo di esprimersi. Dalla lettura dei testi possiamo arguire quale fosse l'approccio umano a determinati fenomeni, possiamo scorgere i diversi contesti culturali, i diversi generi letterari: storico, profetico, poetico... Non possiamo considerare, però, la Bibbia in termini letterari puri e freddi, come se fosse una semplice raccolta di libri. Non dobbiamo dimenticare che esiste la parola ma anche lo Spirito della parola, non ci si può fermare alla semplice lettura, alla lettera, al termine, alla semantica S. Paolo, infatti, dice che "la lettera uccide, lo Spirito dà vita" (2 Cor 3,6). Occorre, quindi, quando si legge la Bibbia, cercare lo Spirito della Parola, quello che lo Spirito Santo vuole dire a ciascuno di noi. L'autore unico della Bibbia è Dio, lo Spirito Santo, ed è Lui che dà continuità dal primo libro, quello del Genesi, fino all'ultimo, l'Apocalisse. Se ci si ferma ai singoli autori, che hanno composto la Bibbia, c'è il rischio di smarrire l'unità del carisma ispirativo dello Spirito Santo che ha fatto scrivere tutte quelle cose e solo quelle che Dio volle fossero scritte per la nostra salvezza. E' il rischio che corrono gli scientisti, per cui una delle buone regole è spiegare la Scrittura con la Scrittura, ossia l'Antico Testamento alla luce del Nuovo e viceversa. Altro rischio da cui occorre stare in guardia è quello degli spiritualisti, i quali, pur ritenendo che lo Spirito Santo sia l'autore della Sacra Scrittura, portano avanti ogni tipo di spiegazione non tenendo conto del contesto della Parola, dei generi letterari, della relatività delle epoche in cui i libri sono stati scritti.

Il linguaggio dello Spirito Santo, la verità che trasmigra a noi per la nostra salvezza è autenticata da un Magistero, quello della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù; perciò la Parola di Dio non può essere consegnata al popolo se non attraverso una mediazione, quella del Magistero della Chiesa, che non può sbagliare perché Dio ha dato a tutta la Chiesa, nel suo insieme, il dono dell'infallibilità (le porte degli inferi non prevarranno contro di essa!). La Chiesa, nella sua unità, riceve la stessa Verità anche attraverso un altro canale, la Tradizione, che trasmette integralmente la Parola di Dio, affidata da Gesù e dallo Spirito Santo agli Apostoli, ai loro successori perché, illuminati dallo Spirito di verità, la diffondano fedelmente con la predicazione. In seguito queste verità furono raccolte e tramandate dai Padri della Chiesa nei loro scritti. Il Santo Padre ha poi il dono personale dell'infallibilità nel valutare le questioni di fede e di morale. Abbiamo quindi dei punti di riferimento con cui confrontarci. Il popolo di Dio può accedere anche direttamente alla Parola di Dio ma non può accedere sempre e totalmente in una esegesi della Parola di Dio che non tenga conto delle indicazioni dei Pastori, ossia delle indicazioni del Magistero autentico della Chiesa, dato dal S. Padre e dai Vescovi uniti a lui, in quanto questi, quali successori degli Apostoli, sono gli unici dispensatori autorizzati dal Signore a dare la Parola di Dio (cfr. documento conciliare "Dei Verbum", 7). Il teologo è colui che studia la Parola di Dio ma non ne autentica l'interpretazione perché questa resta affidata al Papa e ai vescovi uniti a lui. Non possono i teologi diffondere teorie o ipotesi personali per costituirne un "avance" o testa di ponte, per creare una mentalità, un dato di fatto, per forzare la mano ed aggirare la legittima autorità.

Nella Sacra Scrittura, come dice S. Paolo a Timoteo, si trova tutto quello che serve all'uomo che si vuol collocare al servizio di Dio. Occorre una piena conoscenza della Parola di Dio perché,  come diceva S. Girolamo: "l'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo". E' bene che si faccia un'educazione alle Sacre Scritture, un'iniziazione ad esse, come base della catechesi cristiana. Occorre dare ai laici le chiavi interpretative delle Sacre Scritture, i punti salienti, i punti di riferimento per conoscere ed arguire personalmente le fonti da cui vengono fuori le formulazioni catechistiche. Per questo occorre che si studi, secondo le possibilità di ciascuno, a partire da un semplice annuncio a finire ad un approfondimento che non deve essere settoriale. Non sono pochi coloro che, ad esempio, usano quale chiave interpretativa di lettura delle Scritture il solo studio antropologico o psicologico o storico-archeologico, filosofico, politico-rivoluzionario, e persino scientifico-evoluzionistico, dimentichi che questi fattori devono essere di ausilio senza però correre il rischio di una mentalità settoriale che porta ad estremi fuorvianti. Anche nelle scienze cosiddette "esatte" si assiste ad una frammentazione dello scibile che può condurre gli stessi scienziati a perdere di vista il generale, come accade per esempio in medicina, dove le specializzazioni sui singoli organi spesso smarriscono l'uomo "in toto", nella sua unità, psiche compresa. Nello studio della Bibbia il solo approccio filologico fa correre il rischio estremo di cadere nel nominalismo, così come l'affidarsi esclusivamente ai reperti archeologici fa sì che molti studiosi assimilino la Scrittura ad evocazioni mitologiche, pagane. La "Dei Verbum"  afferma che " la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non poter indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l'azione dello Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime"( §10). Ben vengano tutte quelle scienze applicate alle Sacre Scritture che concorrono a fare chiarezza;  ma chi ci dà la certezza che siamo nella verità è il Magistero della Chiesa. Ecco perché è importante vivere nella Chiesa per conoscere e capire la verità. La Chiesa, "mater e magistra"  ci permette di crescere nella carità e nella verità senza sbandare.

La verità può essere proposta ed espressa in maniere diverse, ma resta sempre identica a se stessa. Per intenderla nel giusto valore occorre tener conto sia del genere letterario, sia del contesto culturale e dell'epoca in cui è stata scritta, ma occorre anche badare al "contenuto e all'unità di tutta la Sacra Scrittura, tenuto debito conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede" ("Dei Verbum", 12). Il significato dato alla Parola è stato ratificato dalla Tradizione ed è stato sempre lo stesso, anche se approfondito. Le categorie, i modelli culturali di riferimento concettuali utilizzati dalla Chiesa Cattolica per esprimere dogmi o comunque spiegare la verità in cui credere e da trasmettere sono pietre miliari imprescindibili nel percorso della nostra salvezza, a meno di voler tagliare i ponti con il passato per addivenire ad una sorta di rifondazione ex novo della Rivelazione! Non solo le Scritture, non solo la semantica, ma Sacre Scritture e Tradizione, quindi, perché diversamente si diventa protestanti.

La parola letta non si limita ad esprimere il significato del termine originale ma va oltre, perché è parola creatrice, onnipotente, divina, infinita, è Parola di Dio.

Le varie scienze non la esauriscono: un tempo si corse il rischio di spiegare la scienza a partire dalla Scrittura, oggi si tende a fare l'opposto.

Far partecipare tutto il popolo di Dio a corsi di preparazione che diano un quadro generale delle Sacre Scritture con tutte le problematiche e le relative risposte, è cosa ardua ma possibile; utilizzare il Catechismo della Chiesa Cattolica accompagnata a catechesi familiari è cosa praticabile se ad un tempo la Parola di Dio sarà letta e meditata con semplicità, preghiera, disponibilità a chiedere anche spiegazioni al proprio parroco o ai catechisti più qualificati:  i frutti non mancheranno!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GESU’, LA VERA VITE

(Gv 15, 1-17)

 

Il cantico della vigna di Isaia, uno dei più belli della Bibbia, è rimasto intatto in un frammento di pergamena trovato nelle grotte di Qumram.  Questi reperti archeologici sono tuttora un campione di veridicità storica per la S. Scrittura. Il cantico della vigna di Isaia è stato ritrovato così come lo leggiamo noi, laddove si dice "Il Mio diletto aveva una vigna, che farò io per la Mia vigna? Perché, avendo piantato vitigni scelti, preziosi, invece poi ho raccolto dei racimoli?" Già in Gv 10, 1-30 Gesù dice che sarà  Lui a raccoglie le pecorelle identificandosi così con il Buon Pastore di Ezechiele 34,11-22. Ora  in Giovanni 15,1-11 Gesù si identifica con la vite perché in realtà, pur essendo Lui anche il Vignaiolo, tuttavia Egli è la Vite che il Padre sta coltivando nell'umanità,  Vite scelta e privilegiata. Immedesimiamoci, dunque, in questi filari di vitigni scelti della Palestina, che sono la gioia delle colline della Giudea. Immedesimiamoci in questa realtà del contadino che pianta la barbatella, la innesta e poi attende che cresca.

"OGNI TRALCIO CHE IN ME NON PORTA FRUTTO LO TOGLIE".

Qui si parla già di una realtà che è innestata in Cristo, si parla già di cristiani, di gente battezzata, di noi che siamo innestati in Cristo per cui non basta dire: "Io sono innestato in Cristo". Troppo poco. Chi è innestato in Cristo, il battezzato, ha un compito da assolvere: quello di portar frutto. Chi non porta frutto è reciso. Il Signore non porta avanti quelli che si mettono nella condizione di non portar frutto. Direte voi: ma questa è mancanza di Misericordia, è abbandono! "No". C'è il giorno dell'innesto ed il giorno della fine. Quando si mette mano alle forbici per potare? Certamente con la prova, con la tentazione, con la tribolazione, con la sofferenza. Quando si mette mano per amputare e tagliare completamente? Quando si "muore" alla grazia, certamente, anche se Dio pazientemente aspetta che questo o l'altro anno si porti frutto. Un tralcio che è in Gesù ("in Me"), non è un tralcio che sta "fuori di Me", che sta "lontano da Me"; non si tratta di gente pagana, gente di  lontano. Si rivolge a gente che non solo è innestata in Lui,  ma "è in Me" e "Io sono in Lui". Allora vedete che ci vuole anche una certa partecipazione a gemmare e fiorire, a lasciarsi anche impollinare, fecondare e portar frutto, per cui colui che non vuol portare frutto, colui che non gemma, Gesù lo taglia.Come dunque si può rimanere in Gesù? Portando frutti, non stando con le mani in mano. Le anime consacrate che si disimpegnano, si disinteressano, si lavano le mani, sono delle poverette perché il Signore pretende la fecondità'  spirituale e la vita da loro, nello spasimo del travaglio del cuore, come dagli sposati la fecondità' dei figli. Associate a questo pensiero la parabola dei talenti! Nessuno può essere in Cristo senza portare frutto, è Gesù che lo dice: "che il vostro frutto sia abbondante e duri per sempre". C'è un modo di essere con Gesù, di essere inseriti in Gesù -"dai frutti li riconoscerete"-. Se i frutti sono acerbi, asprigni, non danno dolcezza, amore, non riempiono il tino, non danno pregnanza di vino, profumo di mosto, si tratta di un vitigno prossimo a sparire, prossimo ad essere estirpato, tagliato, gettato via! Non basta dire: "Sono in Cristo!" Dai fatti li riconoscerete! Si colgono forse fichi sui rovi o si coglie uva dalle spine? Certamente no! E allora attenti anche a come siamo in Cristo. Dobbiamo essere in Cristo per portare frutti. Quali sono i frutti dello Spirito? Per dirla con San Paolo (cfr. Gal 5) i frutti dello Spirito di Cristo sono: amore, pace, bontà, gioia, misericordia, dominio di sé, fratellanza, amicizia, carità! Quali sono i frutti spinosi, asprigni, aciduli? Invidie, gelosie, superbie, orge, bramosie. E' dai frutti che si riconosce che tipo di spirito ti informa, che tipo di linfa circola in te. Il libro di Isaia, protoevangelo del Signore, annuncia: "Canterò per il Mio diletto il Mio cantico d'amore per la Sua vigna. Il Mio diletto possedeva una vigna, sopra un fertile colle. Egli l'aveva vangata, sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino. Egli aspettava che producesse uva, ma essa fece uva selvatica"(Is 5,1-2). E' un padrone, questo, che si è fidato delle barbatelle, così come sono state prese. "Or dunque  voi che Mi ascoltate, siate voi giudici tra Me e la vigna, che cosa dovevo fare ancora alla Mia vigna  che Io non abbia fatto? Perché', mentre attendevo che producesse uva, essa mi ha dato uva selvatica? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d'Israele" (Is 5,3-7). Oggi quella vigna siamo noi. "Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi" (Is 5,7).

La vigna siamo noi, la vigna è ciascuno di noi. Il cantico di Jahvè è per ciascuno di noi: quali frutti stiamo portando? Interroghiamoci!

Cosa fa il Signore a coloro che si ribellano come questa vigna? Li dà in balia degli animali selvatici. Come il sale della terra che, se non dà più sapore, viene preso e calpestato dagli uomini.

"E OGNI TRALCIO CHE PORTA FRUTTO, LO POTA PERCHE' PORTI PIU' FRUTTO"

"Ma io porto frutto!" e allora il Signore ti pota: toglie ciò che è superfluo, toglie ciò che tu porti con te come ricchezza e su cui pensi di contare. La vite dev'essere sempre fresca, giovane, pronta ad emettere nuova frutta, per nuove stagioni, in novità di vita, affondare le radici nell'umiltà, nelle profondità della terra. Il Signore non ci vuole sterili, vuole tralci che portino frutti. Maria ha portato il frutto del grembo, Gesù, concepito già prima nell'anima. Gesù ha portato frutto dall'albero della croce, gli apostoli hanno portato frutti con la predicazione ed il martirio; anche noi dobbiamo portare i nostri frutti: "come alberi piantati lungo il fiume, noi aspettiamo la nostra primavera, daremo i nostri frutti",  ci fa dire una nota canzone. "Io vi ho mandato affinché' il vostro frutto sia abbondante e il vostro frutto rimanga". Il frutto che Gesù vuole da noi  lo vuole copioso e duraturo. Non vuole frutti caduchi, mortali, passeggeri, vuole frutti eterni. "Chi rimane in Me ed Io in Lui porta molto frutto". Qual è la stagione spirituale per portare i frutti? E' certamente quella pentecostale, vale a dire la stagione crismale, quando il cristiano riceve la presenza dello Spirito soprattutto nella pienezza della Cresima. Ci sono poi vari motivi per cui un cristiano non porta frutto. Certi tralci non mettono gemme oppure producono solo foglie e il fiore nemmeno si lascia fecondare. Sembra che sia uno stato riduttivo quello che il Signore compie su un'anima con la potatura. Un tralcio si può estendere, trovare spazi nuovi, arrampicarsi da qualche parte, e invece sul più bello glielo si impedisce perché tranciato su quella che è la sua personale iniziativa. Di fronte a tanto, il tralcio geme. Tutto questo sembra che sia una rovina per il tralcio, per la vite stessa, ma non è così, perché la potatura è in relazione al fatto che si porti più frutto.

"RIMANETE IN ME E IO IN VOI"

Come si fa a rimanere in Lui, nel Suo amore? E' Gesù che ce lo insegna quando dice: "Accogliendo le Mie parole ed osservando i Miei comandamenti" (cfr. Gv 15,10).

Rimanere significa che possiamo anche andarcene o restare anche quando vorremmo andarcene. "Rimani con noi ormai si fa sera". Lo dissero i discepoli di Emmaus a Gesù. Nel rimanere c'è questa caparbia costanza e capacità dell'uomo di voler restare innestato in Dio, dire sì al Suo invito, far scorrere in lui la Sua grazia. L'innesto è una gemma di un'altra vite o di un altro albero che viene immesso in quel ceppo, in quell'altra vite e bisogna che rimanga ben stretto, ben serrato, avvinto di modo che il succo della vite possa entrare in quel rametto. Noi siamo stati innestati in Cristo Gesù con il battesimo e la Sua linfa vitale, il Suo Spirito, devono penetrare in noi. Rimanere in Gesù è questione essenziale per portare frutto. Il frutto della vite è l'uva, il mosto, il vino, la gioia. Meglio essere potati che tagliati, meglio essere disciplinati che tagliati. A che ci gioverà tutto il mondo se non siamo uniti e innestati in Lui? Al pianto della potatura succede il frutto della gioia (Gv 15,11).

"Chi non rimane in Me viene gettato via come il tralcio e si secca e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in Me e le Mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà dato". Qui la linfa pare che sia proprio lo Spirito. Se le Sue Parole "rimangono", significa che sono state accolte come faceva Maria che le accoglieva e le meditava nel Suo cuore. Non dobbiamo essere dimentichi della Parola del Signore, del Suo insegnamento, come ascoltatori smemorati. Come possono rimanere in noi le Parole di Dio? Come faceva Maria, che accoglieva quelle Parole  e le meditava nel Suo Cuore. Maria ha germinato il frutto più bello, Gesù . Anche  noi siamo chiamati a portare frutti di vita eterna,  a far nascere Gesù nelle anime facendoLo crescere mediante l'assimilazione quotidiana del Vangelo. La stessa Parola farà generare e germinare il Cristo Gesù, il Bambin Gesù nel cuore delle mamme, nel cuore dei bambini, nel cuore della famiglia, nel cuore stesso della società, perché la famiglia è il cuore della società. Se S. Teresina del Bambin Gesù diceva che aveva trovato ormai la sua dimensione, quella cioè di essere il cuore del corpo mistico, noi abbiamo scelto di essere nel cuore di Cristo, nel cuore della società (ossia nella famiglia) e lì impegnarci nel cuore stesso della Chiesa, dove Cristo vuole la consacrazione al Suo Cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL “GUSTO” DELLA SAPIENZA CELESTE

 

La sapienza è il gusto, il diletto delle cose di Dio. Contattare la sapienza stessa che è Cristo, lo spirito della sapienza che è lo Spirito di Gesù, è un dono tutto particolare che permette di gustare le cose di Dio, di sentire il sapore della Sua presenza.

Ricevendo questo dono troviamo gioia nelle cose che manifestano la divinità, la Sua Volontà, il Suo modo di essere, di agire. In caso contrario siamo come persone raffreddate, possiamo cioè mangiare cibi sofisticati e finezze culinarie senza però apprezzarli perché, a causa del raffreddore, non ne percepiamo il gusto. A nulla serviranno lo sforzo, il lavoro e le attenzioni di chi ci prepara il pranzo, non proveremo alcun gusto né gioia nel mangiare.

La sapienza stessa di Dio è il gusto, la gioia che Dio prova interiormente nel generare, nel confrontarsi e nel riflettersi nell'immagine che è il Figlio Suo.

Per mezzo dello Spirito Santo anche noi possiamo rifletterci nell'immagine di Cristo, come fa il Padre, e provarne diletto.

Quando l'uomo conosce questo gusto non l'abbandona più perché si crea quasi una santa necessità. Come il gusto peccaminoso crea il vizio che porta alla condanna e, quindi, alla morte, così il gusto delle cose spirituali spinge sempre più alla ricerca delle cose celesti. Stiamo attenti però a non confondere il gusto, il diletto spirituale con quella specie di "amorino" che si sente nel cuore e che è sentimento.

Il gusto spirituale è una luce che illumina il profondo dell'uomo e lo fa gioire di un gaudio spirituale per aver trovato la verità e con essa la convinzione del suo agire. L'uomo allora si lascia vincere, soggiogare, abbracciare, amare da questa verità che è Cristo Signore.

In questo modo tutta la giornata viene illuminata, tutto il nostro pregare, pensare, agire, offrire, sopportare, reagire per contrastare il male, assume una connotazione diversa che fa dire: "Nessuno mi sottragga la gioia della croce di Cristo, perché una cosa sola desidero: conoscere Gesù, desiderare, amare, contattare Lui soltanto".

La sapienza quindi, pur rimanendo in se stessa, rinnova tutte le cose, dà una specie di ricambio, di rinnovamento spirituale e da creature contaminate dal peccato, ci rende creature nuove. La vita intera subisce un cambiamento, acquista una nuova fisionomia. Si lavora e si cammina verso una meta che non è un miraggio, una ideologia, una mentalità umana, ma è Cristo. E possiamo dire che tanti l'hanno raggiunta e ne danno testimonianza.

Il gusto delle cose spirituali deve portarci sempre più a vivere una vita spirituale: anche se viviamo da cittadini di questo mondo, dobbiamo esprimere la cittadinanza celeste perché i nostri obiettivi, i nostri interessi, i nostri desideri e le nostre mete sono ben al di là dei miseri traguardi umani destinati alla corruzione.

La sapienza ci rende amici di Dio. Dio infatti ama solo chi vive con la sapienza, chi vive in questa gioia, in questa conoscenza della sua volontà.

Esaminiamo la nostra vita: chi non ha lo spirito della sapienza, dice S. Giacomo, lo chieda senza tentennamenti perché Dio dà a chi chiede. Il Signore dona lo spirito di sapienza, la sapienza del cuore, quella sapienza cioè che permette lo sviluppo della persona, che mette in evidenza, anche a costo di lacrime e di sacrifici, quello che non va e non deve essere sviluppato, ma tagliato, purificato, sottratto.

...E allora, se ci sentiamo potati dal Signore, se ci sentiamo sollecitati un po' nella nostra coscienza, nei nostri difetti, se ci sentiamo spronare nelle virtù, non lamentiamoci ma accettiamo, perché è così che lo spirito di sapienza educa i suoi figli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’INCONTRO CON LA VERITA’ : GESU’ E LA SAMARITANA

 

"Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno". Un povero viandante stanco siede sitibondo vicino ad un pozzo,  guarda l'acqua che sta lì ma non la può attingere: che sofferenza! Gesù in questo momento rappresenta tutte le anime che hanno sete ma,  pur avendo l'acqua accanto, non hanno nessuno che gliela possa dare. Spesso abbiamo accanto l'acqua della salvezza ma non c'è nessuno che ce la dia. Dio, invece,  vuole che ciascuno di noi sia ministro di salvezza per l'altro perché, come ha detto il Papa, siamo stati affidati gli uni agli altri. Dio si serve di tutti, anche dei peccatori.

"Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua". Gesù non teme di rivolgersi ad una donna,  per di più peccatrice, e le chiede umilmente di darGli da bere. Vedete che l'iniziativa parte da Gesù, la prima  provocazione all'amore è sempre di Dio. Giovanni dice infatti che in questo sta l'amore: non siamo stati noi a scegliere Lui ma Lui per primo è venuto incontro a noi e per primo ci ha amati.

Gesù chiede da bere. "Ho sete" è un'espressione che Gesù  ripeterà sulla Croce. E' il Verbo di Dio che parla, perciò questo desiderio di dissetarsi ha una risonanza infinita, quanto è infinito il mare e l'oceano di Dio stesso. Gesù, stanco e sitibondo, su questa terra desolata, ancora oggi dice a noi : "Ho sete". Egli si rivolge ancora ad un popolo di peccatori, a donne e uomini peccatori. La sete di Gesù è il desiderio di amore, Dio vuole essere amato dalle sue creature.

"I Suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi". Gesù non si sottraeva al quotidiano. Non dobbiamo pensare ad un Gesù sempre pronto con la bacchetta magica ad esaudire ogni bisogno. Ci può essere qualcuno che dica: "Ma come, io prego e non ottengo". Andare da Gesù non è come andare da un distributore automatico nel quale metti il gettone e ricevi quello che desideri. Gesù è l'Onnipotente che si incarna nella realtà quotidiana, Egli come uomo si commisurava con i problemi  quotidiani: mangiare, bere, dormire, camminare, stancarsi. Aveva gli stessi nostri  problemi. Come dice il Concilio Vaticano II: agì, parlò con bocca d'uomo, amò con cuore d'uomo, lavorò con mani d'uomo, proprio perché Lui, l'Onnipotente, sposò incondizionatamente, eccetto il peccato, tutta la natura umana. I miracoli che Egli compiva, sempre in piena sottomissione al Padre, servivano a manifestare la gloria e la potenza di Dio. Questi però non giovano a nulla se non ci lasciamo trasformare dal Verbo di Dio, se non ci apriamo alla luce della verità e dell'amore.

La Samaritana risponde a Gesù : "Come mai Tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una samaritana?". Il primo ostacolo: Tu sei giudeo, io sono samaritana. In altre parole: noi siamo nemici. Il primo ostacolo è quindi  una questione religiosa, politica.

Gesù parte da una necessità: "ho sete", e da uno stato di debolezza  lancia un ponte ad una donna, ad una peccatrice: "dammi da bere". Cosa fa l'umanità? Pone i suoi ostacoli, i suoi impedimenti. Al ponte gettato da Gesù la donna risponde con un primo impedimento: siamo di origini diverse, di nazioni diverse, quasi ad esprimere la volontà  di  interrompere il dialogo che Gesù ha iniziato.

"I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani". E' una postilla di S.Giovanni per spiegare il perché di quella risposta.

"Gesù le rispose: Se conoscessi il dono di Dio e Chi è Colui che ti dice: Dammi da bere, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva". Gesù non si ferma di fronte alla prima difficoltà di questa donna ma le risponde offrendole la possibilità di un dono. "Se tu sapessi"(in questo modo  quasi ne carpisce la curiosità,  perché la donna e  l'uomo si lasciano attrarre dal mistero), "se tu sapessi chi è Colui che ti dice: Dammi da bere, tu stessa -ecco pronto il dono- gliene chiederesti e ti darebbe dell'acqua viva". Mette la donna in uno stato di attrazione, di ricerca: vado avanti  perché voglio sapere. La maggior parte dei Testi antichi, anche del libro dei Proverbi, della Sapienza, ma anche gli insegnamenti dell'antico Egitto e  degli Ebrei, sono tutti sotto forma di indovinelli, di quesiti: questo è il modo degli orientali di insegnare e fare catechesi. Gesù adotta questo metodo, porta avanti questo tipo di discorso.

La donna risponde: "Signore, Tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest'acqua viva?".

Ecco l'interesse per l'acqua viva. Suscitare l'interesse, l'attenzione negli allievi,  nella gente, mettere in condizione chi ci sta di fronte di capire che si tratta di un insegnamento nuovo, diverso, che va al di là delle proprie possibilità: questo è il modo di insegnare. Non si tratta di inventare le cose ma di approfondire la conoscenza alla luce dello Spirito e di far  suscitare il desiderio in chi ascolta gli insegnamenti di Gesù, che probabilmente tante e tante volte sono stati letti senza che suscitassero nulla nel cuore. Non si deve mai leggere il Vangelo come si legge un romanzetto o un libro di letteratura.  Se approfondissimo le stesse parole, gli stessi concetti, quante risonanze scopriremmo da un solo versetto!

Continua il brano del vangelo: "Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete".

Gesù per catechizzare parte dal segno reale, da un'esigenza concreta, da una realtà di bisogno e sposta il Suo insegnamento su un'esigenza, un bisogno spirituale, una realtà spirituale: ricordati, figlia, che se tu hai sete c'è dentro di te una sete più grande; se tu hai bisogno di acqua, c'è un'acqua zampillante di vita e di vita eterna; se tu sei una che vuole attingere alla sorgente o al pozzo, ricordati che c'è un pozzo e una sorgente di ordine spirituale che non finiscono mai. Per mezzo di simboli trasporta il suo interlocutore da un piano prettamente naturale a un piano soprannaturale. Ed è questa l'azione del catecheta, del catechista, del padre spirituale: portare da un piano naturale ad uno soprannaturale. Gesù non si arrende di fronte agli ostacoli che pone la donna, non lascia, non cede; la donna  pone ostacoli al dialogo perché  vuol mettere in crisi il suo interlocutore, ma Gesù accetta la sfida e la porta fino in fondo. "Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete, ma chi beve dell'acqua che Io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che Io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna".

Tu bevi quest'acqua, figlia mia? Tornerai ad avere sete! Questa donna  ha cercato di dissetarsi a non so quanti pozzi: ha avuto cinque mariti; ha cercato la felicità, ha cercato di saziarsi a delle sorgenti umane, si è appoggiata a degli uomini per avere godimento, per saziare la sete delle passioni. Gesù vuole invitarla a saziare la sua sete con acqua soprannaturale.

Quanti oggi puntano sulle piccole o grandi passioni, sui piccoli o grandi soddisfacimenti. La nostra è una civiltà dell'edonismo, del piacere, del consumismo: Bevi questo e  sarà un piacere per te!  prendi questo dentifricio,  prendi questa saponetta, sarai felicissimo e giungerai al terzo cielo. E l'uomo sitibondo corre dietro a queste cose senza saziarsi mai; anzi, la sua sete aumenta sempre più fino a perdere la vita pur bevendo.  Gesù  invita a bere un'acqua tutta particolare che non solo disseta, ma disseta per la vita eterna e produce in chi la riceve un fattore strano: anziché finire quest'acqua produce in chi la riceve una trasformazione perché diventa in lui sorgente che zampilla per la vita eterna, diventa lui stesso una fontana. Per cui, portandosela dentro di sé, si disseta quotidianamente, continuamente.

Quando Gesù parla di questa sorgente che è Lui stesso, dirà (Gv 7, 37-38): "Chi ha sete venga a Me e beva, dall'intimo di colui che crede in Me ci saranno sorgenti di acqua che zampillano per la vita eterna". E' Lui il pozzo, è Lui la sorgente, la vita eterna che dà la possibilità a chi si accosta a Lui di diventare o di provocare pozzi nuovi, sorgenti nuove, fonti e acque vive,  acque che porti con te e che irrobustiscono sempre più fino a dissetare anche gli altri. "Ora questo lo diceva -dice Gv 7, 39- parlando dello Spirito che avrebbero ricevuto coloro che avrebbero creduto in Gesù Cristo".

Noi cerchiamo la felicità di qua e di là, essa non è lontana da noi. La serenità e la gioia si trovano nel momento in cui accettiamo con abbandono di aprirci, di donarci a Dio e ai fratelli, di fare qualcosa di bello, di buono e di grande della nostra vita, di non fermarci ai particolari che a volte fanno impazzire, di non andare dietro le vanità di questo mondo.

Vediamo come risponde la samaritana che è legata al materialismo, che pensa ci sia qualche stratagemma magico che la liberi dal fastidio della sete. Questa tentazione  la ritroviamo già nell'esodo del popolo ebreo  e in Giovanni al capitolo 6 dove la gente chiedeva: "Dacci di questo pane così non abbiamo più fame".

L'uomo da che cosa è oppresso? Dagli antichi bisogni: mangiare, bere, dormire. Come se non esistesse altro!

Gesù  riconosce questi bisogni umani, terreni.  Lui stesso ne è soggetto. Però vuole che a partire da questi un uomo, per essere autenticamente tale, dica: "non di solo pane vive l'uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio". Non di sola acqua di fontana vive l'uomo ma dello Spirito Santo vivo di Dio! Se queste cose non le diciamo apertamente, con chiarezza, noi tradiamo il Vangelo. Ecco perché sbagliano quelli che vogliono fare il mini Vangelo, perché Gesù non si lascia irridere: o Lo si sposa completamente o è meglio andarsene da qualche altra parte. Non si possono servire due padroni!

"Signore, -gli disse la donna-, dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingerne". Gesù parla ma i due non si capiscono né si capiranno fino a che Gesù non scoprirà le carte e metterà in crisi la donna.

La Chiesa e il mondo, il cristianesimo e l'umanesimo parlano due lingue che sembrano coincidere ma in verità si differenziano tra loro, non si incontreranno mai se l'umanità non si riconosce bisognosa di salvezza. Il peccato più grande che commette l'uomo è di non riconoscere il suo peccato, e questo a causa della superbia! Sa, infatti, che se riconosce il proprio peccato è costretto a riconoscere Dio, a chiedergli perdono, ad umiliarsi dinanzi a Lui. Ma l'uomo da sempre non vuole sottomettersi a causa dell'antica tentazione: "Sarete come Dio"

"Le disse: "Va' a chiamare tuo marito e poi ritorna qui". Pur parlando due lingue diverse, Gesù vuole donare alla donna l'acqua dello Spirito ma prima le fa toccare con mano la sua situazione, perché riconosca il suo peccato.

Rispose la donna: "Non ho marito". Il serpente non poté trovare alleata migliore che nella donna la quale, se decide di fingere, lo sa fare benissimo. Non c'è niente di più bestiale di una donna legata al serpente e non c'è niente di più angelico di una donna legata a Dio: in Maria e in Eva troviamo gli antipodi di tutto il travaglio dell'umanità. Da Eva nasce una umanità peccatrice, da Maria una umanità redenta. Ecco perché  nella nostra Opera di Maria Vergine e Madre abbiamo come riferimento Maria e se la donna si conformerà a Lei, chi potrà fermare l'opera di santificazione delle famiglie e dell'umanità?

"Le disse Gesù: "Hai detto bene". Notare la finezza di Gesù! Nonostante il dialogo stia rasentando il limite della rottura, Egli non spegne il lucignolo fumigante, non spezza la canna incrinata ma coglie quel velo di verità con cui la donna cerca di coprirsi.

"Infatti -continua Gesù- hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero". Anziché farle pesare il cinque più uno, quasi la premia! Gesù sa cogliere quel "minimum", quel poco di buona volontà o di apertura che c'è ancora in questa donna per rivalutarla, per riabbracciarla, per promuoverla nella sua dignità di donna. Noi, invece, avremmo troncato il dialogo, l'avremmo fiaccata incolpandola di menzogna. Ma Gesù, proprio perché è venuto A SALVARE CIO' CHE ERA PERDUTO, A DARE LUCE A CIO' CHE STA PER SPEGNERSI, sa cogliere anche quest'aspetto appena appena superficiale ma veritiero: "Hai detto bene".

Anche noi, sull'esempio di Gesù, pur di fronte alle resistenze dei fratelli, non dobbiamo disarmare ma sempre dobbiamo trovare anche nel più piccolo spiraglio di verità la possibilità di riprendere il dialogo sulla base di ciò che c'è di positivo. In questo oggi ci è di grande esempio ed edificazione il Santo Padre, Giovanni Paolo II.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA PACE DI GESU’ NELL’OBBEDIENZA ALLA VOLONTA’ DEL PADRE

(Gv 14,27)

 

In cosa consiste la pace di Cristo?

Quando Gesù risorge, il primo annuncio, il primo dono che porta, è proprio questo: "Pace a voi" (Gv 20,19)

La pace è frutto di resurrezione e di vita, nel suo significato più profondo, ossia vita vissuta come Gesù l'ha vissuta, perché Lui aveva la pace. Da dove deriva la pace? La pace è il frutto dell'autentica comunione con la Volontà del Padre, assenza di contrasto tra la volontà di Cristo e la volontà del Padre. Quando Gesù dona la Sua pace agli Apostoli, lascia loro proprio questa unità di comunione tra la Sua volontà e la volontà del Padre, e allora pace significa risposta alla volontà del Padre, assenso alla Sua volontà: in altri termini "sia fatta la Tua Volontà!".

La pace quindi non è un fatto formale, o un fatto decisionale, ma continua esplicazione della adesione alla volontà del Padre.

La pace di Cristo è conformità goduta per Cristo, con Cristo e in Cristo alla volontà del Padre, per cui una persona può essere tribolata da tutte le parti e tuttavia vivere nella pace del Signore, appunto come è accaduto a Gesù sulla croce.

"Vi lascio la pace, vi do la mia pace". Questa consegna della pace si concretizza anche plasticamente nella consegna che Cristo fa di tutto Se Stesso alla Chiesa nell'Eucaristia.

E quando noi riceviamo l'Eucaristia, nell'adesione alla volontà di Dio, entriamo in quella pace, gustiamo e apprezziamo quella pace che viene dal Cielo.

Dunque Cristo è la nostra pace e si dona a noi avendo Egli fatto pienamente la volontà del Padre.

Noi abbiamo bisogno della pace che è Cristo, perché nessuno mai ha fatto la volontà del Padre come l'ha fatta Lui, consegnando Se Stesso alla morte e alla morte di croce per tutti e ciascuno di noi uomini e per la nostra salvezza.

Nessun uomo, nessuna donna ha mai fatto questo nella Sua misura; solo Maria Santissima l'ha fatto in Gesù Cristo e quindi insieme con noi e con tutta la Chiesa.

La pace è adempimento perfetto della volontà del Padre, perfetta adesione al Padre. Allora chi di noi può dire di aver questa pace, dal momento che nessuno di noi è in perfetta adesione con la volontà di Dio? Grazie al Cristo, al Suo Sangue, alla Sua morte, alla Sua Resurrezione, noi riceviamo in dono questa pace. Accogliendo Cristo accogliamo la pace, vivendo in Cristo, viviamo nella pace perché Cristo è la nostra pace.

Senza di Cristo non possiamo avere la pace, "senza di Me non potete far nulla", perché l'uomo inficiato dal peccato originale, per sua libera scelta, per sua volontà, è incline al peccato sin dalla giovinezza. E' incline a fare non la volontà del Padre, ma la volontà propria, mentre Gesù fino all'ultimo e fino in fondo ha detto: "Non la mia, ma la Tua volontà si compia". Allora la pace oltre che desiderata deve essere ricercata. La pace dell'anima dipende molto dalla volontà di ottenere questo bene prezioso. Se da un lato l'intelligenza coglie l'idea della pace come bene, dall'altro essa deve muovere la volontà a pregare Dio per ricevere quel dono.

L'intelligenza dell'anima coglie, capta quelle sensazioni, certamente spirituali, di pace che derivano anche da un ricordo ancestrale di Dio. Comprende, in qualche modo, che la pace è un bene prezioso da raggiungere non solo a livello individuale, ma anche a livello sociale. Si deve adoperare la volontà per raggiungere questa pace e spingere alla preghiera. "Pregate" è l'invito costante che rivolge Maria nelle sue apparizioni.

Anche la pace dei sensi si raggiunge con la preghiera. I sensi accesi portano al turbamento, portano al soffocamento e alla perdita di pace, quando non sono sottomessi alla volontà del Signore. Gesù, primariamente nella Sua Passione, con la Sua sofferenza e il Suo dolore, concede a noi di poter riposare nelle sue membra tormentate dall'infierire dei colpi degli accaniti flagellatori. Con la Sua sofferenza ripara e concede che i sensi siano, per così dire, messi a tacere con la forza della Sua Passione.

La pace quindi è frutto della Sua Passione, è dono di resurrezione. Giungere alla resurrezione significa attraversare con Gesù la via crucis, spasimare, penare, gemere con Lui per rimanere fedeli alla volontà del Padre.

"...Non come la dà il mondo, Io la do a voi": c'è quindi una pace che dà il mondo e una pace che dà Cristo.

La pace del mondo è una pseudopace, che sa molto di appagamento delle voluttà o di cedimento. Un esempio: "basta! non ce la faccio più: siccome questa passione mi tormenta e mi tortura, ora cedo così trovo la mia pace finalmente"; o ancora: "basta, siccome questa situazione è diventata insostenibile, allora cedo, cerco la mia pace mandando tutto in aria" o peggio ancora "mi tolgo la vita così avrò la pace". Quella del mondo è una pace falsa, che non conduce minimamente a riempire il cuore, anzi lo turba sempre più, sempre più lo fa cadere in contraddizione. La pace del mondo scambia la grande sete dello spirito con la sete del corpo e porta come frutto una schiavitù, causa di guerra interiore, che fa scendere sempre più nell'abisso. Si tratta di una specie di inganno che induce al cedimento nella speranza di trovare quello che si desidera.

La pace di Cristo, invece, è quella che aiuta a combattere per non cedere, cioè che invita a continuare a soffrire anche per amor Suo, per amore della legge di Dio, per amore della fedeltà. Sembra una guerra che toglie la pace, ma se di fatto ci si impegna, se si soffre per adempire alla volontà del Padre, dopo non molto si ottiene la vera pace.

Il Signore ci fa gustare gradatamente questa pace, dà una gioia incommensurabile che proviene dalla vittoria di Cristo e Cristo aiuta in tutto questo.

La pace che Cristo dà è frutto di questo cammino con Lui, con la croce, sulla croce, per la croce, di fedeltà al Signore.

Fare la volontà di Dio accogliendo la Passione, la croce di Cristo, significa resistere al peccato, al maligno, fare il buon combattimento della fede e dire "no" agli allettamenti per raggiungere la pace, frutto della Passione, frutto della celebrazione del passaggio attraverso la croce.

Il mondo dà la pace così come dà l'amore, la gioia, le glorie, le ricchezze cioè in maniera apparente e passeggera; Dio, invece, vuole donarle per sempre. Quindi la differenza non sta nelle cose, perché la bellezza, l'amore, la gioia, gli onori, le ricchezze sono cose che il Signore vuole per noi, ma vuole le vere ricchezze, i veri onori, le vere gioie, cioè quelle eterne. Il demonio propone cose concrete, reali, ma le assolutizza. Ad esempio: propone un briciolo d'amore facendo cadere nell'inganno che si tratti di amore eterno; un briciolo di ricchezza facendo credere che sia la vera, l'unica ricchezza; un briciolo di gloria facendo credere che sia eterna: niente di più falso perché sono gioie di un momento. Allora la differenza non sta tanto nella figura, che pure diciamo appartiene a Dio, ma sta nella valenza, nel peso di queste realtà. La tentazione del demonio sta nel voler assolutizzare queste cose staccandole dai valori eterni; Gesù relativizza le cose del mondo, riferendole alla grandezza di Dio che le ha messe quaggiù come riflesso dei beni eterni, di lassù. Gesù dà la pace attraverso la croce, il mondo la vuole raggiungere attraverso i piacere, assaporando così un dono che sarà perso per sempre.

A volte il Signore permette che un'anima sia tribolata per molto tempo perché impari ad apprezzare e a riconoscere il grande dono e il grande bene che Dio vuol farle: quello di entrare nella Sua pace, di ricevere la Sua pace. Gesù dice "voi nel mondo avrete tribolazioni, ma fatevi coraggio, Io ho vinto il mondo". Si tribola certo, ma il Signore difficilmente lascia i Suoi senza il gusto, il dono della pace, senza la caparra dello Spirito che fa gridare "Abbà, Padre" e che dà pace. Allora lotta alle fazioni, ai disagi provocati dalle divisioni e dalle discordie, lotta all'impurità, ai pensieri cattivi, lotta a tutto quello che concerne il mondo del male per adoperarsi fin dal mattino a far nascere, a far crescere e ad innaffiare i sentimenti buoni, i sentimenti d'amore, di bontà, di fraternità, di cordialità, di perdono, di sopportazione, di pazienza, di gioia. Miglioriamo noi stessi ogni giorno e non peggioriamo: questa è la regola di Gesù che dobbiamo fare nostra.

Se così faremo, nel profondo del nostro cuore, nel profondo del nostro essere sperimenteremo la pace, anche se in superficie continueranno a imperversare le tempeste della vita.

Questa è la pace che Cristo dà a tutti quelli che vogliono seguirLo, che Lo seguono di fatto e si impegnano nella battaglia.

L'anima in pace è in sintonia con Dio, è nella grazia del Suo Signore.

Il seme della pace è nascosto nella buona volontà: "pace in terra agli uomini di buona volontà". Nel momento in cui ci si applica con buona volontà, la pace di Cristo entra, dimora in noi, anche se ci troviamo in pieno combattimento. Se nel profondo del cuore non c'è ancora pace, è perché non si è ancora deciso da che parte stare, se con il mondo o con Dio.

La pace è dono di Dio; perdere la pace è indice di qualcosa che non va, che non è in regola con il Signore, di qualcosa che va contro la salute dell'anima. E allora è buona regola compiere azioni che lascino in pace, che diano pace nel profondo dell'essere, anche se in superficie si scatena il putiferio. Diversamente se compiamo azioni che non sono in sintonia col Vangelo, con il Signore, proveremo turbamento, segno che qualcosa non va.

La pace spirituale, la pace che Gesù dà è rilevabile dalle tre facoltà dell'anima: intelligenza, volontà, affetto.

Se l'intelligenza vede chiaramente quello che sta facendo e l'oggetto della conoscenza, Cristo; se la volontà vuole la comunione e l'amore, l'intimità con Cristo e verso questa si muove; se l'affetto, comunione d'amore, amplesso d'amore, liberamente cerca Cristo e vuol riposare in Lui; l'anima sperimenta allora la pace come continuo riposo dello spirito.

E' come un bimbo portato dalla madre che, anche in mezzo alla bufera, vive fiducioso tra le sue braccia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AMARE NELLA VERITA’

 

Amare nella verità è conoscere la verità, praticare e camminare nella verità, significa essenzialmente essere in sintonia con la pienezza dell’esistenza e dell’essere.

Chi cammina nella verità o, meglio ancora, chi si uniforma ad essa, diventando egli stesso verità, si conforma sempre di più all’Assoluto e riconosce poi ciò che gli è affine. Pertanto, subito si accorge della menzogna: si affina, per così dire, un senso che fa intuire tutto ciò che non è verità o non corrisponde ad essa, come quando un bravo maestro di sinfonia ascolta colui che si cimenta con l’arte della musica e subito ne percepisce le stonature. Amare nella verità significa cercare di conformarsi all’altro e fare comunione con l’altro in tutto ciò che non contrasta con la verità. Come dice S. Paolo a Timoteo: “Tutto ciò che è vero, giusto, onesto, puro e merita lode sia l’oggetto dei vostri pensieri”.

Prendiamo il caso di due giovani che dicono di amarsi e fanno comunione sulla base di ciò che non costituisce la verità, per esempio atti licenziosi, dicendo: “Noi ci vogliamo bene e quindi mettiamo in comunione anche la propensione fisica che spinge all’unità”. Di primo acchito sembrerebbe un fatto di verità, ma non lo è perché questa propensione ha come verità la procreazione in seno alla famiglia. Verità è anche la vita scaturita da questa unione e che non deve essere abortita.

Dall’amore nella verità deriva anche un principio ecumenico: piuttosto che guardare le cose che differenziano, guardare quelle che accomunano. Per esempio, i musulmani hanno un grande amore per la Madonna e credono che alla fine sarà il Cristo a giudicare il mondo e non Maometto o Allah. Ecco punti su cui instaurare il dialogo e costruire una comunione nella verità.

Anche nei rapporti interpersonali dobbiamo sforzarci di trovare sempre tutti quei punti di comunione nella verità e di cercare ciò che in essa ci unisce, avendo il coraggio di dire di sì su quelle cose che sono vere e giuste.

L’obbedienza alla verità è fondamentale nella vita del cristiano, e ancor più in quella dei presbiteri "consacrati nella verità". Se non c’è obbedienza, non esiste neanche Comunione  Eucaristica perché questa può sussistere solo se i preti intendono fare ciò che la Chiesa fa, sempre “in comunione con il Vescovo”, come dice la liturgia.

 

“TUTTI QUELLI CHE HANNO CONOSCIUTO LA VERITA’, A CAUSA DELLA VERITA’ CHE DIMORA IN NOI E DIMORERA’ CON NOI IN ETERNO” (1Gv 1,1)

 

L’amore procede dalla conoscenza della verità. Non si può amare una persona che non si conosce, né si può amare una realtà che si ignora; quello che si conosce, poi, va conosciuto nella verità. L’intelligenza vede, analizza, penetra, ma come fa a capire se una cosa è vera o falsa? Come fa a capire che il Vangelo è vero e che Gesù è la verità? Perché l’uomo, che è scaturito dalle mani di Dio, ha in sé una specie di “serratura di cofanetto” che può essere aperta solamente da chi ama veramente e da colui di cui ci si fida veramente. Il cofanetto è il nostro cuore e Cristo è la chiave che apre quel cuore pieno di aspirazioni e di desideri, che nascono con la persona: sono i semi di eternità che Dio ha messo in ciascuno di noi quando ha creato l’anima. Ha ancora il profumo dell’eternità, delle "mani di Dio", l’anima creata e questi germi di eternità hanno sete di cose eterne, di amore infinito, per cui tutto quello che abbiamo non ci basta mai. Amore infinito, felicità infinita, gioia infinita, pace infinita: tutti questi bisogni il mondo li sollecita e li provoca dal di fuori dando una soddisfazione episodica che lascia l’amaro in bocca. E questo perché le realtà che il mondo propone sono limitate nel tempo e nello spazio. Una cosa sola, però, l’uomo si accorge che non intristisce e non perde di vigore, anzi, si rafforza sempre di più nonostante le difficoltà: è l’esperienza della visione di fede della vita. L’uomo si accorge che le parole e le promesse di Gesù, la storia di Gesù, hanno in sé la stessa dimensione di eternità che risiede  nel profondo del suo cuore. "Nessuno ha mai parlato come quest'uomo": Gesù ha testimoniato le parole con i fatti e ha dato imperativo ai fatti con la parola; anzi, ha testimoniato con la sua stessa vita fatti e parole; inoltre, la testimonianza che era già nell’Antico Testamento su di Lui, si è compiuta sulla croce sino alla pienezza della sua testimonianza di amore nella verità. Noi abbiamo una testimonianza ben superiore a quella dei Profeti, in quanto Gesù ha ripercorso tutta la storia sacra ed ha testimoniato la verità della Parola di Dio con i fatti e gli eventi di Dio.

E' indiscusso, sono parole di vita eterna, come disse San Pietro: “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna!” La Parola di Gesù riconosciuta dal nostro cuore e intercettata dalla nostra intelligenza, viene riconosciuta come parola di Verità; riconoscendo la Verità, noi andiamo verso l’Amore e amiamo ciò che il nostro cuore desidera e ambisce.

Chiaramente questa conoscenza ci spinge all’unità, a cercare la comunione in Spirito e verità, la comunione eucaristica, la comunione con i fratelli: “…non olocausti né sacrifici Io voglio, ma comunione con Me", dice il Signore.

Per fare questo bisogna conoscere il Vangelo che è la sua Parola: è nella Parola di Dio che noi conosciamo Colui che ci parla e lo amiamo sin sul talamo della croce  per conformarci alla perfezione dell'Amore.

Perfezione dell’amore, dunque, è la croce: il disegno sapiente di Dio invita le spose e gli sposi alla perfezione dell’amore sulla croce. Nella sofferenza e sulla croce la verità si manifesta in tutta la sua pienezza, illumina di splendore e trasfigura i corpi perché ciò che è menzogna, amore mendace, non trova posto sul letto della sofferenza e della croce. Ecco perché il demonio, padre della menzogna, fugge la croce! “Ecco la Croce di Cristo: fuggite, potenze nemiche! Vinse il Leone della tribù di Giuda”. Si comprende così come la conoscenza della pienezza della verità passi attraverso la Croce di Cristo. Per questo i Santi nella croce di Cristo hanno trovato e trovano tuttora la conoscenza dell’Amore. San Paolo, quando ha voluto mostrare al mondo l’amore, ha gridato: “Noi non conosciamo altro che Cristo, e Cristo crocifisso!”.

Sulla Croce si compie l’atto d’amore e di comunione, lo splendore della verità! Il massimo della luce di Dio si manifesta nelle tenebre del Golgota: è il paradosso, il massimo del paradosso. Cristo Gesù, nel buio delle tenebre del Golgota, ha illuminato il mondo! ”Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a  Me “ (Gv 12, 32); la luce si pone sul lucerniere. Cosa attira di più della luce?  E’ la luce che splende, illumina e attira a sé; attira nella verità, e fa ardere nel fuoco dell’Amore!

Come crescere nell’amore di Dio? Mediante la conoscenza della verità: Gesù crocifisso d’Amore, Dio che ci ama e muore d’Amore per te, per me. E sulla Croce, in quel talamo matrimoniale, non c’è posto per nessuna menzogna, né tantomeno per gli idoli. Sulla Croce solo Dio e l’amore regnano!

Che significa tutto questo per noi? L’amore si manifesta nel sacrificio, nella nostra croce quotidiana, in ogni piccolo e grande gesto di donazione. Con Gesù sulla croce vivremo la comunione d’amore. Chiediamo un cuore aperto come quello di Cristo squarciato sulla croce, un cuore capace anche di versare sangue per amore e che mai si chiude.

In Paradiso non ci ricorderemo altro se non ciò che appartiene già al nuovo mondo, ossia  le cinque Piaghe di nostro Signore Gesù Cristo, testimonianza dell’Amore infinito con cui Dio ci ha amati, nel tempo e nello spazio, dall’eternità e per l’eternità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AMARE NELLA CARITA’

 

“Io, il presbitero, alla signora eletta e ai suoi figli che amo nella verità, e non io soltanto, ma tutti quelli che hanno conosciuto la verità, a causa della verità che dimora in noi e dimorerà con noi in eterno: grazia, misericordia e pace siano con noi da parte di Dio Padre e da parte di Gesù Cristo, Figlio del Padre, nella verità e nell’amore.

Mi sono molto rallegrato di aver trovato alcuni tuoi figli che camminano nella verità, secondo il comandamento che abbiamo ricevuto dal Padre. E ora prego te, signora, non per darti un comandamento nuovo, ma quello che abbiamo avuto fin dal principio, che ci amiamo gli uni gli altri. E in questo sta l’amore: nel camminare secondo i suoi comandamenti. Questo è il comandamento che avete appreso fin dal principio; camminate in esso”. (2 Gv, 1-6)

 

E’ un invito ad amare nella verità. Amare cioè non con un cuore condizionato da passioni, da istintualità, da bramosie, da egoismi che spingono a porre il proprio io al centro di tutto e di tutti e poi a pretendere che, come satelliti, gli altri girino intorno, ma con un amore che riconosce la verità su di noi, sul nostro spirito, sulla nostra corporeità, sui nostri atti, sulla nostra psicologia, che riconosce il proprio nulla davanti al Creatore e che c’è distinzione tra il creato e il Suo Creatore, così come c’è differenza tra il vaso e il vasaio, tra il quadro e l’autore, tra il costruttore e la casa. Giungono a questo “tutti quelli che hanno conosciuto la verità, a causa della verità che dimora in noi e dimorerà con noi in eterno”.

Ma cos’è questa verità che dimora in noi e dimorerà con noi se non Gesù, che illumina la nostra vita, la nostra mente, il nostro sentiero, che dice pane al pane, vino al vino, che dice chiaramente quello che dobbiamo fare; che ci dà tutti gli aiuti e i mezzi necessari per camminare sulla strada da Lui tracciata?

Quindi quest’amore nella verità proviene dal fatto che Gesù Cristo dimora in noi.

Come Cristo dimora in noi?

Mediante la Sua Parola, il Suo Vangelo. Non si ha abitazione di Gesù in noi senza questa comunione, questa assimilazione, questo cibarci di quello che Gesù è: il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità; quello che Gesù ci ha dato in eredità: il Corpo, il Sangue della purificazione e della penitenza, lo Spirito della santificazione. Non si ha santificazione se non riceviamo lo Spirito Santo, lo Spirito che è nella Parola, nei Sacramenti. Quindi, senza questa penetrazione incessante dello Spirito Santo in noi non si ha presenza di Gesù in noi. Egli è presente nella misura in cui il Suo Spirito è in noi e lo Spirito di Gesù rimane in noi con la Parola, accolta e vissuta, e con i Sacramenti. Comunione con tutto ciò che tende ad un rinnovamento della nostra mentalità per trasformarci in Lui.

L’amante tende ad assimilare, ad inglobare in sé l’amato o anche a trasformarsi nell’amato. E’ una reciproca azione dinamica: chi ama tende a trasformarsi nell’altro, tende a far suoi gli atteggiamenti, il modo di fare dell’altro sino ad assumere la stessa fisionomia materiale, psicologica dell’altro. Cosa ci porta questo vivere nella verità?

“Grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre, da parte di Gesù Cristo, figlio del Padre nella verità e nell’amore”.

E allora vedete che le linee di tutto il Vangelo sono due: verità e carità. L’una si esprime nell’altra, non c’è verità senza carità, non c’è carità senza verità, come non c’è il Padre senza il Figlio e senza lo Spirito d’Amore, senza Spirito Santo; come non c’è sole senza luce e senza calore, così non c’è Divinità senza verità e amore. La verità illumina, l’amore riscalda, matura, la verità dà luce, calore e colore al frutto.

“Mi sono molto rallegrato di aver trovato alcuni tuoi figli che camminano nella verità, secondo il comandamento che abbiamo ricevuto dal Padre. E ora prego te, signora, non per darti un comandamento nuovo, ma quello che abbiamo ricevuto fin dal principio, che ci amiamo gli uni gli altri”.

Dunque se tu vuoi essere cristiano, se tu vuoi vivere in una comunità d’amore, non trovi altro modo se non quello di camminare secondo i comandamenti del Signore, camminare secondo il comandamento che abbiamo avuto fin dal principio e cioè quello di amarci gli uni gli altri. Quando scopriamo che non amiamo qualcuno, che troviamo difficoltà a rapportarci con l'altro, stiamo certi che abbiamo aderito al male che istiga alla divisione, all'odio, all'interesse personale, al proprio piacere egoistico, piuttosto che all'amore vero. E spesso troviamo giustificazioni al nostro comportamento, facendo ricadere sugli altri le nostre incapacità relazionali.

Quando vengono queste sollecitazioni, non bisogna assolutamente acconsentire e aderire.

L’amore sta nel camminare secondo il comandamento che ha detto Gesù: ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, l’anima, la mente e le forze e ama il prossimo tuo come te stesso.

Il comandamento dell’amore è il compendio di tutti i comandamenti, per cui se tu sei uno che ruba è perché non ami; se tu sei un impuro è perché non ami; se tu sei uno che desidera e brama è perché non ami; se tu sei uno che uccide nel suo cuore è perché non ami.

“In questo sta l’amore: nel camminare secondo i suoi comandamenti. Questo è il comandamento che avete appreso fin dal principio; camminate in esso”.

Riassumendo, San Giovanni ci ricorda il binario su cui ciascuno di noi deve camminare: verità e carità. Se vedete che qualcosa manca di carità o di verità, mettetela da parte. Verità e amore vanno di pari passo, insieme: se una persona è veramente nella verità, è veramente nell’amore e se dice di amare, deve amare nella verità ossia non deve scambiare la creatura per il Creatore. Non deve amare egoisticamente o idolatrare, cioè non deve anteporre a Dio nulla, nemmeno il marito, la moglie, i figli, la sua stessa vita. Naturalmente per arrivare a questo c’è molto lavoro da fare in noi e negli altri. Dunque cerchiamo di rivedere la nostra vita, la nostra esistenza alla luce di queste parole, perché se la carità viene meno solo perché uno spillo o una penna non si trova più o perché un fermaglio non è più al suo posto o perché un bottone è stato messo male, significa allora che abbiamo scambiato il regno di Dio e le sue promesse con il vestito, il cibo, la vita. Ma la vita eterna vale più della vita terrena!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AMARE NELL’UMILTA’

(Gv 7,16-17)

 

Chi vuole fare la volontà di Dio, riconosce la sua Parola perché Dio ha stampato nel cuore di ciascuno di noi la sua legge e i suoi precetti. Un'opera porta sempre scritto il nome di chi l'ha fatta e un effetto porta sempre in sé un ricordo della causa. Se Dio è la causa prima della nostra esistenza perché Lui ci ha creati, non poteva farci difformi da quello che Lui è.

Con S. Paolo possiamo affermare che portiamo in noi stessi la sintesi di tutta la creazione e che tutta la creazione, anche una pietra, porta in sé una manifestazione di Dio, una sua perfezione. Uno dei nomi con cui Dio è chiamato nell'Antico Testamento, per esempio, è "El Shaddai", Dio Roccia, e l'apostolo Simone fu chiamato da Gesù Pietro, Chefas, roccia perché su quella roccia avrebbe costruito la sua Chiesa.

Se, dunque, portiamo in noi questa somiglianza e il ricordo di Colui che ci ha fatto sbocciare dalla sua volontà, dobbiamo dire con Gesù: chi vuol fare il bene riconosce se le parole del vangelo vengono da Dio o da un uomo. Il nostro cuore vibra ascoltando la Parola come il diapason vibra solo se si suona la nota la. Nei profeti è scritto: "Saranno tutti ammaestrati da Dio" e Gesù dirà: "Nessuno viene a me se non gli è concesso dal Padre mio"; o ancora: "Chiunque ascolta il Padre viene a me".

C'è una voce divina impressa nella nostra coscienza, ma c'è anche una voce impressa nella natura, ed entrambe sono un messaggio di Dio. Se uno sa apprezzare la bellezza e il cantico silenzioso di un fiore, il cinguettio di un passerotto o il canto d'amore degli occhi e del sorriso di un bambino, è impossibile che, ascoltando la predicazione del vangelo, non riconosca la stessa sintonia e risonanza, la stessa voce che ascolta con il creato e con la coscienza. E' costretto a dire: "Che bella giornata!", "Che bella novella!", e apre le porte a Cristo!

Certo occorre l'umiltà, che è il fondamento e la base di un cammino di fede, occorre saper riconoscere e accettare il mistero. Questo creato così bello e ordinato, questo bambino, da dove vengono? Solo nell'umiltà s'incontra il primo libro, quello della natura, e l'altro libro, la voce interiore della coscienza che entra in risonanza con la natura. Quando si diventa capaci, nell'umiltà, di riconoscere questi due libri, si riconosce e si accoglie il Libro, la Parola di Dio. Non bisogna infatti dimenticare che il peccato adamico consiste proprio in una mancanza di umiltà, in seguito al quale il nostro io diventa egocentrico al punto da diventare come un black hole, un buco nero che attira su di sé tutto e tutti. Il peccato sta nel mettere il nostro io al posto di Dio, mentre non è peccato desiderare d'essere come la Causa prima, perfetti come perfetto è il Padre, santi come Egli è santo, riconoscendo che siamo partecipi della sua verità, della sua misericordia e del suo infinito amore.

Se c'è una rispondenza tra noi e Colui che ci ha creato, il canale di risonanza che ci permette di sintonizzarci con Lui è la preghiera. In ogni uomo, infatti, è inscritta la capacità d'incontro e di dialogo con Dio, perché l'uomo è la manifestazione massima di Dio, è risonanza stessa di Dio. L'uomo vivente, per dirla con S. Ireneo, è gloria di Dio e la gloria dell'uomo vivente è Gesù Crocifisso. Incontrando Dio nella preghiera e accogliendo la sua Parola si diventa come Maria, si accoglie il Verbo diventando come il Figlio. Il cristiano, in ultima istanza, è chiamato a rispecchiare il Cristo diventando conforme alla sua immagine. E' lì che ci spinge il Signore, a diventare cristiani, "alter Christus", un altro Cristo.

Nel diventare conformi all'immagine di Dio, non dobbiamo dimenticare che Dio creò l'uomo maschio e femmina, e quindi la conformità con la sua immagine sta nella complementarità tra l'uomo e la donna. Ecco perché nella famiglia, nelle comunità religiose, nella vita di gruppo, si deve riflettere quest'unità dell'immagine di Dio. Noi che siamo chiamati all'evangelizzazione, non possiamo andare incontro alle famiglie in modo univoco, separando gli uomini dalle donne; bisogna dare un'immagine completa di Dio e del suo amore. Non è un caso che Dio si sia fatto uomo nella persona maschile di Gesù nel grembo di una donna, Maria. In Gesù, Nuovo Adamo, e in Maria, Nuova Eva, Dio ha voluto riportare al mondo la sua immagine e nel grembo di Maria ha dato all'uomo la possibilità d'incontro con Lui e la capacità di diventare egli stesso Dio.

In conclusione, umiltà e preghiera: questo è il cammino; se muoveremo in questo senso i primi passi inizieremo a sperimentare la meravigliosa corrispondenza tra quello che è dentro di noi e quello che ci è annunciato con il Vangelo. Da questa corrispondenza fiorirà la fede, la fiducia nel Signore, e la nostra fede diventerà la forza che sconfigge il mondo.

Dobbiamo tener presenti queste cose quando portiamo l'annuncio del Vangelo perché gli altri possano riconoscere che la Parola che portiamo non è nostra ma viene da Dio. Anche con le persone lontane dalla fede, non credenti, dobbiamo puntare all'interiorità facendo riflettere sulle aspirazioni profonde che sono dentro ogni uomo. Noi possiamo dire e fare grandi azioni, ma riflettiamo solo su questa piccola cosa: quando siamo in una situazione di necessità e sofferenza, dal nostro cuore sale un lamento con un solo nome pronunciato: "Mamma". Quando stiamo male, tutti, professori, dottori, ingegneri, credenti e non, invochiamo la mamma, ossia, senza saperlo, preghiamo e riconosciamo la nostra condizione di fragili creature; ci mettiamo, cioè, in una posizione di umiltà e di preghiera, che è la condizione propria di tutti gli uomini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AMARE NELL’AMICIZIA

(Gv 15,15)

 

 

Il servo è colui che non entra nell’intimità del suo signore. Svolge il suo servizio, riceve il suo salario e se ne va. Se è un servo domestico, dopo aver svolto le sue attività ritorna nel suo ambito, tra i servi, non fa parte della famiglia. Il servo è per un servizio materiale, è a pagamento.

Il servizio che il Signore invece chiede da noi è un altro, è un servizio d’amore e nell’amore scatta una novità: l’amicizia. Un servo, dunque, può diventare amico.

L’amico è colui che fa parte integrante della nostra vita, all’amico si dice tutto, ci si confida pienamente. Chi nella propria vita, anche in tenera età, non ha fatto esperienza di questo affetto che superava anche quello dei genitori? Ebbene, il Signore Gesù ci chiama a questo tipo d’amore: l’amore di amicizia che è superlativo, spirituale, che prescinde dalle stesse componenti di mascolinità e femminilità e supera la componente della sessualità. Un esempio di amicizia ci viene dato nell'Antico Testamento da Davide e Gionata: erano più che fratelli e Davide alla morte di Gionata dice: "la tua amicizia era per me preziosa più che amore di donna" (2Sam 1, 26).

Agli amici Gesù fa conoscere tutto ciò che ha udito dal Padre. Questa conoscenza non è semplicemente dottrinale ma è anche metodologica, pratica. Infatti in Matteo (28, 19-20) leggiamo che Gesù dice agli apostoli: “Ammaestrate tutte le nazioni battezzandole e insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato”. Cioè insegnando a fare, a praticare.

Dall’amore di amicizia si passa ad un altro gradiente: l’amore sponsale. L’amico non è ancora lo sposo o la sposa che ti sta accanto giorno e notte, che ti dà figli, che partecipa intimamente e totalmente alla tua vita. Tra lo sposo e la sposa l’intimità è tale che i due diventano una sola cosa. A chi è concesso questo? Tutti siamo chiamati ad una perfetta adesione con il Signore. Però molti rimangono servi, restano fuori.

Nella vita coniugale i due diventano una sola cosa per generare. Nel coniugio vi è un amore di donazione totale per partecipare alla salvezza e nell’unità con Cristo c’è la partecipazione anche alla croce, alle sofferenze. Gesù, promettendo lo Spirito Santo, fa sì che gli apostoli superino l’amore di amicizia nella perfetta donazione al Cristo anche nella croce.

L’anima che vive l’amore sponsale con il Cristo si abbandona alla croce che è il talamo nuziale; abbandonandosi completamente allo Sposo, dimentica di tutto e di tutti, accoglie la sofferenza, accoglie i disprezzi, gli insulti, accetta d’essere messa da parte perché è la sposa di chi accolse e amò la croce e la sofferenza. La sposa, innamorata, ambisce, desidera e brama le cose dello Sposo. Non ambisce i primi posti né d’essere considerata; ama e desidera fare i lavori più umili, ama e desidera essere sottomessa a tutti e a tutto, ama essere calpestata, umiliata perché ama ciò che ama Gesù. Vi è un totale capovolgimento rispetto alla logica del mondo.

Alla sposa Dio dirà: non ti chiamo più “amica mia” ma “mia tutta bella”, “entra nella stanza di mia madre” per unirmti a Me. E il letto coniugale per Cristo è essere crocifissi, desiderare le cose che Lui desidera: la croce. La sposa si trasfigura nello Sposo tanto che in certi Santi trasmigrano pure le Piaghe dello Sposo, come è stato per Padre Pio.

Dunque c’è da fare un cammino. Il primo passo è da estranei, da pagani, da peccatori a servi; poi da servi ad amici per arrivare allo sposalizio.

“NON VOI AVETE SCELTO ME MA IO HO SCELTO VOI E VI HO COSTITUITI PERCHE’ ANDIATE E PORTIATE FRUTTO E IL VOSTRO FRUTTO RIMANGA” (Gv 15,16).

Questo portare frutto è anche il frutto lavorativo, operativo, un frutto che rimanga per la vita eterna. Però nell’ambito della coniugalità, laddove l’amore diventa sponsale, questo frutto diventa salvezza di anime.

L’espressione dell’amore coniugale con il Signore non sono solamente le opere, non sono solo i frutti di apostolato ma qualcosa di più: diventa maternità e paternità spirituale. Come nell’unione coniugale  il frutto si concretizza nei figli, nella unione sponsale con il Cristo il frutto si concretizza nella figliolanza spirituale. E il Signore vuole che questi frutti, questi figli e i figli dei figli rimangano.

Chiediamoci a quale livello è il nostro rapporto con il Cristo. Forse siamo servi o al massimo amici,  ma quasi certamente non siamo ancora madri e padri, spose e sposi del Cristo perché non desideriamo ancora le cose che Lui desidera. “Chi ama il mondo e le cose che sono nel mondo non può piacere a Dio”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL SERVIZIO DELLA CARITA’

(Eb 6,10)

 

 

Per santi l'autore intende gli apostoli, i profeti, i sacerdoti, tutti coloro che vivevano nella sua pienezza la Grazia di Dio, perché  "santi e immacolati al suo cospetto nell’amore". Questa lettera è diretta agli Ebrei, l'antico popolo di Dio, e, in particolare, ai convertiti al Cristianesimo, i quali, anche a rischio di essere  radiati dai loro correligionari  e connazionali, aiutavano gli altri cristiani con le loro sostanze. Così avevano fatto lo stesso San Paolo ed anche gli altri Apostoli, che  ordinarono la colletta per quelli di Gerusalemme.

Il Signore Dio - dice san Paolo- non si scorda dei beni e dei servizi che voi avete fatto al Suo nome. La carità che avete dimostrato e che avete reso ai cristiani, il Signore non la dimentica. Qui emerge un concetto fondamentale: i servizi che si compiono per i fratelli, se fatti nel nome del Signore, Iddio non li dimentica. Tutto è scritto nell’esistenza di Dio, nell’Essere di Dio: anche un sol bicchiere d'acqua fresca dato per amore.

Dobbiamo imparare a vivere per Dio, a servirLo nel quotidiano non come un datore di lavoro. Si rischia infatti di deformare il concetto di ministerio trasformandolo in mestiere, e  quando il ministerio, cioè il servizio fatto per amore, gratuitamente, per mandato divino, per vocazione, diventa mestiere, cambia connotati. Si arriva ad aspettare qualcosa in contraccambio e non si agisce più con spirito di servizio gratuito all’Amore di Dio “gratis et amore Dei”,  ma lo si fa per un riscontro personale, per un contraccambio; e si sta male perché non ci si sente  appagati. Il Signore ci mostra due modi di accedere a questa strada del servizio di carità e di amore verso i fratello

1. Quando fai la tua elemosina non sappia la tua destra ciò che fa la tua sinistra. Quando fai qualcosa, falla in maniera distaccata, senza attaccamento, senza alcuna pretesa da parte tua. “Destra” e “sinistra” stanno per “persona”, per individuo. Non è qui che devi puntare o attaccarti. L'elemosina deve essere  un modo di dare gloria a Dio, perché tu dai al Signore e non ricevi nessun contraccambio né da destra, né da sinistra. Qui viene esclusa completamente  la tua personale partecipazione a quel gesto di bontà e di carità, come se quello che tu fai lo fai perché dovuto, non perché tu sei più bravo del fratello a cui elargisci qualcosa. Tu doni ciò che non ti appartiene, perché il Signore ti ha donato tutto gratuitamente, e tu a tua volta devi donare  senza attaccamenti e ringraziare Dio che ti ha messo in condizioni di poter fare del bene.

2. Affinché vedano le vostre buone opere e diano gloria al Padre Vostro che è nei cieli. Le opere buone fanno parte della persona, diventano nostre. Come mai? Le opere buone diventano nostre perché noi le abbiamo affidate senza risparmio a Colui che è la bontà assoluta, cioè abbiamo riconosciuto che quell’opera, quel bene è di Dio. Ecco perché diventa tuo. Diventa tuo perché il Signore Dio ti dice “bene, bravo servo buono e fedele,  prendi parte al gaudio del tuo Signore”. Diventa tua proprietà perché tu hai riconosciuto che quello che hai avuto non è tuo,  ma ti è stato dato dal Signore; hai fatto fruttificare quello che non ti appartiene e che appartiene al Signore. Pertanto e’ bontà di Dio restituirti ciò che tu hai donato a Cristo nei fratelli e ricompensarti con il merito, la gloria e quant'altro di beni quaggiù, insieme a persecuzioni.

Così tutti possono vedere le buone opere dal momento che tu hai riconosciuto che  “servi inutili siamo”, e che il Signore è stato così buono da moltiplicare il seme.

Così un maggior numero di persone darà gloria a Dio.

In un modo o nell’altro il fine da salvaguardare è la gloria di Dio e che tutti diano lode  al Signore .

Di fronte a ciò vedete che fine fanno le meschine rivendicazioni salariali rivolte al Signore:  “ho fatto questo e neanche un grazie". Dio non dimentica il vostro lavoro e la carità che avete dimostrato verso il Suo nome per i servizi che avete reso e che rendete tuttora non ai santi, ma nei fratelli al Santo dei Santi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA FEDE A SERVIZIO DELLA VERITA’ NELLA CARITA’

(Eb 11,1-2)

 

 

"La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”. Nella fede incominci a vedere le cose che di solito non vedi. Una delle cose che di solito non vedi è il fratello che ti sta accanto, il prossimo. La preghiera del Padre nostro ti consegna il fratello. Quindi non si tratta di pensare subito e solo, come è nostro solito, a cose come gli angeli, i santi ecc. Certamente anche questa è importante, ma il Signore che si fece visitare nella figura del samaritano per far capire, mediante la fede, chi sia quell'individuo che è lì per terra:  è tuo fratello, il prossimo, Gesù.

"Prova di quelle cose che non si vedono": la prova è qualcosa che puoi far vedere agli altri, qualcosa di ripetitivo.  Il metodo scientifico consiste proprio in questo, nel dimostrare che si possono riprovare in laboratorio le formulazioni teoriche ed ipotetiche.

La prova della fede sei tu, il tuo modo di fare, di comportarti, perché sei una fede incarnata, una fede che si é fatta persona, presenza. La fede non la trovi né sfusa, né confezionata; la trovi realizzata. La fede ti spinge ad operare; la fede non è una cianfrusaglia cattolica che ti metti addosso sotto forma di immaginetta; non è il certificato accatastato nell'archivio parrocchiale, né quello che ti trasmettono soltanto papà e mamma: segno di croce, bacetto alla Madonna ecc. La fede è Cristo in te, è certezza di comunione con Dio, "Cristo in voi certezza di comunione con Dio", "Cristo in voi certezza della speranza", dice San Paolo, fino a raggiungere il pleroma, la pienezza nella misura che compete a te. Non ti si chiede di oltrepassare i tuoi limiti, ti si chiede di essere completamente te stesso con Cristo inabitante in te nella pienezza di vita. Dunque la prova delle cose che non si vedono sono gli uomini, le donne di fede, cioè i santi. Dirà San Giacomo: "Mostrami se puoi la tua fede senza le opere ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede".

Quindi la vita di una persona fedele è prova delle cose invisibili che professa: Gesù, Maria, i Santi. Se chiedi a Teresa di Calcutta perché si prodighi così per il prossimo ti risponde: per Cristo. La tentazione più grande dei nostri tempi è quella di servire l'uomo in quanto uomo; di qui il socialismo o l'antropologismo, un generico fare del bene per saziare il bisogno di solidarietà che è dentro l'uomo. Ma sempre San Paolo ci avverte che se anche dessimo noi stessi alle fiamme ma non avessimo l'Amore di Dio, la "Charitas Cristi", il nostro sacrificio non ci gioverebbe a niente. Questo non significa non amare l'uomo ma amarlo nella verità, in Cristo Gesù che è la verità. Amare l'uomo nella verità significa non spostare l'attenzione dal Creatore alla creatura perché altrimenti si cade nell'idolatria. La creatura è creatura come te e ha bisogno come te di Cristo e se tu sei uno che aiuta veramente sai che il bene primo di cui ha bisogno la creatura è Dio.

Ecco perché la prima cosa che devi fare è evangelizzare, dare Dio agli uomini, operando così il vero bene della persona umana perché l'anima ha sete di Dio, del Dio vivente. Il vuoto che si crea nella gente non è vuoto di beni, di cui siamo ormai sazi. Verrà tempo, dice Ezechiele, in cui la gente sentirà fame e sete non di pane né di acqua, ma della Parola di Dio. E chi gliela porterà, dirà San Paolo, se non c'è chi la annuncerà?

Oggi pare che anche gli stessi sacerdoti si siano adagiati in un atteggiamento di pigrizia. Si chiede San Leone Magno se il ministro, che è stato chiamato a parlare, non parla, che deve fare? E perché non parla, si chiede S.Agostino? O per colpa delle pecore che gli impediscono di parlare o per colpa propria perché evidentemente compromesso.

"Per mezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza". Perché non solo nel momento in cui ti abbandoni a Dio operi da credente, ma anche quando ricevi la testimonianza da Dio e dallo spirito del Signore che è con te. La fede  si moltiplica, e tu  ricevi la testimonianza dal cielo proprio come Gesù: "Questo è il mio Figlio prediletto, ascoltatelo". Cioè è Dio stesso che testimonia, come dice San Paolo negli “Atti degli Apostoli” a proposito del primo Concilio di Gerusalemme: "noi e lo Spirito Santo abbiamo deciso", oppure nella lettera ai Corinzi: "siamo venuti in mezzo a voi non con la predicazione soltanto, ma anche con la potenza e l'opera dello spirito".

Nel momento in cui ti comporti da uomo fedele lo Spirito testimonia su di te e sconcerta gli animi degli altri perché la potenza della Parola e l'esercizio della fede sconvolgono la gente, che si sente colpita da qualcosa che non rimane lettura morta, ma agisce in profondità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL SERVIZIO EVANGELICO ALLA VITA

(Col 3,23-24)

 

 

Nei versetti oggetto della nostra riflessione si parla di servizio. Tutta la vita deve essere un servizio e il primo servizio che l'uomo deve rendere è proprio quello di servire la vita. Il servizio non è un mestiere ma un ministerio. Il ministro della vita è innanzi tutto Dio che ci dà e ci serve la vita: - Io sono in mezzo a voi come uno che serve.

Ma cosa significa servire la vita? Significa dare alla vita una risposta adeguata, una risposta di vita che assecondi la vita stessa. Ma cosa pretende questa vita? Altro non pretende che lodare, ringraziare e servire Colui che l'ha creata: da Dio veniamo e a Dio ritorniamo, siamo stati creati per servire, lodare la vita. La vita eterna altro non sarà che gustare, lodare, servire l'Eterna Vita.

Ora il servizio alla Vita su questa terra costa, costa la vita: " Nessuno ha un amore più grande di questo: - dice Gesù - dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13). Il servizio, quello vero e totale, che largheggia e promuove la vita, altro non è che donare e offrire se stessi per gli altri. Non c'è amore più grande di quello di dare con la propria vita un servizio d'amore alla vita degli altri.

Esiste contrasto tra la mentalità del mondo e quella di Gesù Cristo. La mentalità del mondo porta a salvare la propria vita, quella di Cristo a perderla per amore di Cristo e del Vangelo. Nel mondo c' è  un egoismo esasperato, Cristo invece per il Suo Regno e per i Suoi vuole un altruismo "esasperato" a tal punto da perdere se stessi.

Nella misura in cui noi salviamo la nostra vita la perdiamo, mentre nella misura in cui perdiamo la nostra vita per Cristo e per il Vangelo,  la salviamo eternamente. Il servizio più grande che l'uomo può fare all'umanità  è quello di offrire se stesso agli altri. Tutti i grandi nella storia della santità della Chiesa hanno donato totalmente  se stessi per gli altri e hanno tenuto per sé solamente le tribolazioni, le amarezze, le incomprensioni da parte anche dei loro cari. Una mamma che porta avanti una gravidanza non fa altro che donare se stessa fino all'inverosimile pur di salvare la vita del proprio bimbo e  la santità di tante mamme consiste proprio nell'aver preferito la morte per sé piuttosto che per il proprio bimbo. Gianna Beretta Molla ne è un esempio. Il servizio più grande per l'umanità è dunque servire la vita.

Ma S. Paolo avverte che anche se io dessi la mia vita, bruciassi il mio corpo, consegnassi me stesso ma non avessi la carità non mi gioverebbe a nulla. Il servizio alla vita, il dono della nostra vita deve essere fatto per Cristo, con Cristo e in Cristo, solo così acquista un significato eterno, di salvezza. Qualunque cosa facciamo, e in modo particolare il servizio alla vita, qualunque esso sia, dobbiamo farla per amore di Cristo. Se pensiamo di operare  per amore dell'uomo cadiamo in una specie di idolatria perché l'uomo in sé per sé, pur rappresentando l'immagine di Dio, non è Dio e sappiamo anche che ogni azione deve trovare da Dio il suo inizio e in Dio il suo sviluppo, la sua meta. Quando si serve l'uomo per l'uomo possiamo fare del socialismo, della filantropia. Un'opera di bene, materiale o spirituale che sia, deve essere rivolta a fini superiori, ossia fatta e colta per amore di Dio: "qualunque cosa facciate, fatela per il Signore". Al rabbi che chiese al Maestro chi fosse il suo prossimo da amare come se stesso, secondo il comandamento del Signore, Gesù racconta la parabola del buon Samaritano e invita il rabbi stesso a dare la risposta esatta e termina dicendogli : - Va' e anche tu fa' lo stesso! Al levita, al sacerdote della parabola mancava la concretizzazione dell'amore che provava per il Signore. L'amore, il servizio a Dio non è un amore campato in aria, è un servizio rivolto anche ai fratelli, ossia ti insegna a vedere  nel tuo prossimo, anche se nemico, il Signore, fino a raggiungere il mandato di Gesù :- qualunque cosa fate al più piccolo dei miei fratelli l'avete fatta a Me. Comprendiamo quindi  che in questi versetti 23 - 24 del capitolo 3 della lettera di S.Paolo ai Colossesi c'è il frutto genuino di tutta la catechesi di Cristo che poi S.Paolo diffonderà. Non è un mescolare favoritismi, un "do ut des", un dare per avere;  non è un appofittarsi delle situazioni, un percepire un salario per il bene fatto, ma è semplicemente un grande amore per il Signore un amore che riempie di luce gli occhi, la mente e il cuore  per vedere i bisogni dei fratelli e spinge ad andare incontro ai fratelli in modo tale da vedere il Cristo, il volto, la gloria del Dio vivente, come dirà S.Ireneo: l'uomo è la gloria del Dio vivente. Impegnamoci quindi  ad accettare e a  sottolineare maggiormente questo aspetto del servizio nella nostra Opera e il Signore provvederà a noi. Innamoriamoci di Dio e dei  fratelli donandoci ad essi, facciamo qualsiasi cosa, anche la più semplice,  per amore del Signore e non per motivi o interessi personali. Non deve fermarci nel servizio la persecuzione, l'abbattimento, l'angoscia, la tribolazione, anzi devono spronarci di più, devono darci una maggior spinta: più si accanisce il male contro il bene, più la risposta del bene deve essere esemplare, amorosa, forte, coraggiosa, gloriosa perché nella prova si riconosce il buon combattente e potremo dire:  bandiera bucata ad onor del capitano.

Come S.Paolo  manifestiamo nelle tribolazioni, nelle angosce, nelle persecuzioni, nei dolori, nei sacrifici le nostre piaghe, le nostre stimmate di servizio per il servizio. La risposta d'amore al servizio d'amore deve essere quella di pascere il gregge affidato, un servizio non facile e di pertinenza  non solo del vescovo o del sacerdote ma anche del papà, della mamma. Pascere significa che il Signore ti rende partecipe della Sua pastorale, del Suo ministero di datore della vita e tu devi pascolare, devi cioè distribuire il cibo, far bere acqua pura,  portare le pecorelle ai verdi pascoli della Parola di Dio, non abbandonare mai il posto di sentinella.

Il servizio d'amore prevede la fedeltà ma anche la debolezza umana e la fragilità della nostra natura; Gesù costruisce su di esse il suo Regno. Pascoliamo quindi il gregge affidatoci dal Signore con il buon esempio, la parola, la preghiera, il sacrificio, non " lavandoci le mani". Siamo chiamati a grandi responsabilità nel nostro tempo nel quale c'è la voglia di rinnegare l'essere padre o madre, di  non avere figli per tema di perdere la propria vita per gli altri. C'è bisogno più che mai di educare, aiutare,  preparare i giovani, le coppie, le famiglie, i medici, i politici a questa responsabilità del servizio alla vita.

La nostra Opera tra l'altro prevede la protezione medica, giuridica e legale della maternità e infanzia abbandonate, e perchè le esortazioni del Maestro non siano disattese, si occupa anche della formazione di elementi da immettere in campo medico, politico e sociale. L'Opera inoltre con la consacrazione  al Cuore Immacolato di Maria delle famiglie visitate offre un valido mezzo affinchè il servizio d'amore sia sostenuto dalla incomparabile presenza della Vergine Madre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL VERO SENSO DEL VOLONTARIATO CRISTIANO

(Col 3,1)

 

Compiere le opere nel nome del Signore Gesù significa autenticarle e avvalorarle con il  carisma della verità. Qualunque azione conforme alla verità è conforme a Cristo Gesù. Ecco perché anche i pagani, pur non conoscendo Cristo, quando operano o con azioni concordi allo spirito di verità o allo spirito di ragione, operano ed agiscono in conformità con lo Spirito di Gesù. E quelle opere vengono accreditate a giustizia fintanto che essi giacciono nella cecità, non per colpa loro ma a causa della loro ignoranza, non colpevole certamente, ma dovuta a mille fattori tra cui le inadempienze o lo scandalo di coloro che sono preposti all'autentica testimonianza evangelica, come dice il Vaticano II.

Dovremmo quindi esercitarci in questa meravigliosa e costante realizzazione di opere nella verità e nella carità.

Non è dato certo allo spontaneismo di esercitare opere di questo tipo perché lo spontaneismo ha in sé qualcosa che intossica. Esso è di per sé una realtà che trova il tempo di un fuoco di paglia; non ha radici, non ha costanza. E' un fuoco che brucia subito e riscalda ben poco, non puoi farci niente, neanche riscaldare una minestra.

C'è bisogno invece che si eserciti una costante azione dello Spirito che giovi a rivalutare ed educare tutte quelle forze di bene, di bontà, di amore che sono nel cuore dell'uomo, forse coperte, forse ristagnanti.

Lo spontaneismo sa molto di quel seme che, caduto sulla roccia, germogliò, ma poiché la pianticella non aveva radici nella terra né umidità e umiltà, seccò subito. Lo spontaneismo è quel seme che, caduto sulla strada, viene subito raccolto dal demonio.

Dobbiamo dunque operare un distinguo tra spontaneismo e volontariato. Quando c'è quell'"ismo" c'è sempre un'esasperazione, una forma riduttiva del bene. E' una deformazione della spontaneità.

Il bene c'è, bisogna curarlo. Il bene è una pianta delicatissima che necessita di numerose cure e premure. Il Signore ha messo nel cuore il seme, per cui questo seme cresce, ma ricordatevi che ha bisogno di numerose cure.

Bisogna liberare il terreno dalle tante pietre, dalle erbacce, perché solo in un terreno buono il seme può produrre frutti buoni, ora il trenta, ora il quaranta, ora il sessanta per cento.

Guardiamoci dallo spontaneismo! Bisogna esercitare queste azioni in Cristo Gesù con continuità, perseveranza. Lo spontaneismo si arrende di fronte alle difficoltà e alle esigenze perché  vuole "marcare cartellino" sempre, secondo la propria volontà, secondo i propri interessi, secondo quello che si confà al proprio volere. Non si arrende alla volontà di Dio, né tanto meno di fronte alle altre situazioni che la vita propone. L'uomo ha sempre a che fare con la volontà di Dio e con quella dei fratelli.

Allora, come esercitare questo bene in Cristo Gesù e come Cristo Gesù?

"Si compia, Padre, la tua volontà"!

Cessa lo spontaneismo e incomincia finalmente il volontariato quando interviene la volontà. Cessa per così dire l'attrazione esercitata dal diletto, dal piacere, dal "mi piace, lo voglio fare, questo lo faccio volentieri, lo faccio di mia iniziativa, di mio proposito", e comincia il volontariato quando si afferma la volontà, il fermo proposito che va al di là della spontaneità. E' il volere, quindi, da un lato per motivazioni intelligenti, che sono proprie della persona umana, dall'altro per ragioni soprannaturali. A questo punto il volontariato fa già un passo che poggia su una base più sicura, perché la volontà, il deontologico, non è ispirata a spontaneismo.

Il volontariato è indipendente dal diletto e dalla disposizione d'animo ed obbedisce all'imperativo interiore che è giusto, è doveroso ed è bene farlo.

Il volontariato religioso assume poi una dignità tutta particolare: trascurando tutte le ambivalenze ed ipocrisie, mettendole da parte e rinnegandole perfettamente, fa le cose con volontà, ma con la volontà di Cristo. "Sia fatta la tua volontà, o Dio", cioè non come voglio io, ma come vuoi tu che io faccia; non il mio volontariato ma il tuo. Nel volontariato religioso si mette la volontà nelle mani di un altro che rappresenta Dio, rinunciando così, come Gesù, alla propria volontà. E allora, da una parte si fanno le cose con volontà, perché c'è un imperativo interiore che dice che è giusto e doveroso farlo; dall'altra si fa tutto per Cristo e secondo la Sua volontà.

Questo volontariato assume la connotazione di consacrazione, cioè di offerta totale della propria vita per questo impegno, quando non riconosce altro fine, fosse anche remunerativo, se non quello di far del bene ed aiutare i fratelli. E non per spontaneità, che è sicuramente volontariato perché si collega alla buona volontà dell'uomo che riconosce la giustizia, il merito e l'onestà di fare del bene, ma collocandosi nella sfera cristiana, per una elevazione che, superate le ragioni filantropiche, consacra la sua volontà a Dio. Il volontario religioso attende dal Signore la ricompensa, il cibo, il premio, il vestito; attende dal Signore anche gli aiuti necessari per aiutare i fratelli perché non è più lui che vive ma è Cristo che vive in lui, è Cristo che opera il bene attraverso lui.

Di tutto questo volontariato, di tutto questo lavoro immane che è da profondere all'interno della società, noi facciamo una cernita molto selettiva.

La prima carità che noi ci proponiamo è quella di portare il lieto annuncio ai poveri, di spezzare il pane della Parola ancor prima che il pane della mensa; il pane della carità che è riconciliazione con Dio e con i fratelli. Dare prima il corrispettivo del pane della mensa che è il pane del cielo: condurre gli uomini alla comunione con il Padre e con i fratelli.

E' questa la nostra meta, questo il livello che vogliamo raggiungere: una vita tutta dedita al servizio di Dio e dei fratelli all'insegna di un volontariato religioso consacrato, per cui tutto quello che facciamo, tutto quello che diciamo è, come diceva suor Maria Teresa di Calcutta, "per amore di Gesù".

Ecco la ragione di ogni nostra azione: Cristo Gesù! Tutto quindi abbia origine in Dio e termini in Lui, in Cristo Gesù, l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine di ogni nostra azione. Dunque gli onori, i meriti, le glorie da Lui vengono e a Lui devono ritornare; da Lui veniamo e a Lui dobbiamo ritornare.

Leggendo la Lettera ai Filippesi (cfr. 2, 6-7) si vede il coinvolgimento dello stesso Figlio di Dio in questa azione di volontariato: "Chi manderò?" "Ecco -rispose- manda me".

Il volontariato è una forma di annichilimento, di rinuncia alla gloria. "Tu lasci il bel gioire del divin seno per venire a penare su poco fieno", per condividere e per assumere la condizione di servo e non quella di principe o principessa, o altro grado nobiliare.

Qui vedete come il volontariato religioso rinunci ad una gloria propria, ad una propria pseudo realizzazione socio-politico-culturale per accedere a una gloria che passa per l'annichilimento come per Cristo Gesù nostro Signore. Una gloria che sarà manifesta il giorno del Suo apparire sulle nubi del cielo quando Egli dirà: "bene, bravo, sei stato fedele nel poco, ricevi in eredità la vita eterna"; o meglio ancora: "hai rinunciato alla gloria tua, come Gesù, per un momento, adesso la riprendi, prendi potere ed entra nel gaudio del tuo Signore". Questo tipo di volontariato somiglia tanto a quello di Gesù Cristo, che lascia gli onori, le cariche, le glorie.

Si lasceranno momentaneamente forse gli studi ma per ritrovarli o offrirli al Signore; si lasceranno case, parenti, amici, terreni, forse anche lo stesso fidanzato; si lasceranno gli affetti terreni per questa causa. E' una risposta ad una chiamata superiore e in essa si riconosce il significato vero della propria esistenza, della propria vita.

E' Gesù ha fatto tutto questo divenendo simile agli uomini, facendosi servo, Lui che è Dio. Egli è apparso in forma umana facendosi carico della nostra umanità per sacralizzarla, elevarla e divinizzarla.

Così anche noi siamo partecipi di una umanità che non va lasciata ai piedi della croce ma elevata alle ragioni e regioni celesti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL DECORO DELLA VERITA’

( Gn 3,9-11 )

 

Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli chiese: “Dove sei”?

L’espressione “Dove sei” indica non solamente una ricerca ansiosa da parte del Padre nei riguardi del figlio che si è allontanato, ma anche un richiamo alla consapevolezza per il figlio, per fargli capire dove è andato a finire, che cosa sta combinando, in quale situazione e disastro si è cacciato.

Adamo rispose: “ho udito il Tuo passo nel giardino; ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto”.

E’ la solita favoletta delle origini, dirà qualcuno, ma in questo racconto è racchiusa la verità sull’uomo, il mistero dell’umanità, il senso totale della storia della salvezza dell’umanità, il significato stesso non solo di come sono andate le cose ma di come vanno ancora le cose oggi, non nel modo e nelle forme ma nei contenuti, nei significati e nella realtà.

Ha udito la presenza del Signore, il passo di Dio. Chi ha imparato a vivere con una persona amata per tanto tempo ne riconosce anche il passo. Adamo conosceva il modo di essere, di fare, di volere di Dio ed era in tale armonia col Signore da riconoscere anche la Sua presenza.

“Ho avuto paura”. Perché ha avuto paura? Chi si allontana da Dio o chi non è ben innestato in Dio risente della paura. Coloro che si innestano pienamente in Dio non hanno più paura, non li può fermare niente e nessuno. Ma qui c’è una motivazione di fondo: ha avuto paura perché era nudo. La nudità che prima non lo sorprendeva, che anzi faceva lodare ancora di più Dio, la nudità che era motivo di esultanza e di gioia, diventa adesso motivo di vergogna perché il piano e la visione di Adamo si sono abbassati.

Ha perso i doni preternaturali e soprannaturali, ha perso doni che lo oltrepassavano nella sua natura ed è sceso ad un livello più basso, ad un livello naturale, anche se ancora ricolmo della ragione. Ma proprio la ragione, proprio l’anima, l’intelletto, gli intimano lo sbaglio che ha fatto; la coscienza gli è testimone dello sbaglio: è cosciente dell’errore che ha commesso. La memoria l’ha registrato, la ragione glielo appella e la volontà gli incute timore. E adesso che farà, dove poggiare, dove far leva nella volontà? Sulla natura? Ormai è stata inficiata! “Non totaliter corrupta est”, non è totalmente corrotta, ma certamente ha ricevuto una ferita, quella del peccato originale, del peccato mortale.

Si è spogliato di quei doni soprannaturali che lo rivestivano, di quella visione anche soprannaturale; è rivestito solamente di una visione naturale che gli fa abbassare lo sguardo su una realtà meramente, o quasi, animale. E si vergogna perché era rivestito di ricche vesti mentre adesso si ritrova semplicemente spoglio. Adamo era nudo della grazia di Dio. In lui prevaleva la conoscenza della corporeità che offuscava la conoscenza del suo destino eterno. Di qui un prevalere delle tensioni e delle pulsioni creaturali naturali, istintuali su quelle razionali, spirituali, intellettive.

La nudità naturale è aver perso un vestito, un vestimento, un habitus. Habitus sappiamo che sono anche le virtù. La pregnanza delle virtù riveste l’uomo: quando si  perdono le virtù, la carità soprattutto, quella dell’amore di Dio –perché il peccato, quando lede, lede la principale virtù, l’abito principale che è la carità – si interrompono i collegamenti con Dio e con gli uomini e ci si isola. La nudità ha dunque collegamento con la mancanza di carità, di amore per Dio e per il prossimo. Tolto questo habitus, rimane essenzialmente il fatto naturale dell’attrazione, della concupiscenza della carne; tolti l’amore di Dio, il timore di Dio, la charitas, la comunione con il Signore, rimane l’attrazione naturale. Il fatto naturale non fa altro che emanare richiami, emettere segnali, lanciare messaggi di comunione e di concupiscenze, destare e suscitare anche negli altri desideri di unione di forze naturali, istintuali, buone di per sé ma che, spogliate e prive di quella charitas che deve unire tutte le cose, dell’amore vero che viene da Dio e che riveste questi atti realizzandoli secondo la finalità propria e autentica, diventano atti di falso amore. La nudità è trasmissione di segnali che devono sottostare alla grazia di Dio, al Suo amore, alla Sua legge perché solo così la persona può donare totalmente se stessa in comunione d’amore. Tolto il vestimento della carità, ecco che l’uomo e la donna si ritrovano nudi, si trovano spinti, attratti l’un verso l’altra da una forza naturale ma passionale, istintuale brutale. Come quando si scaglia un sasso in alto e per forza di gravità precipita, e guai se così non fosse, così queste forze naturali una volta scatenate non possono più essere controllate se non con l'impiego della ragione che ancora rimane e con il comando superiore di Dio che, rivestendo Adamo ed Eva di pelli di animali (cfr Gn 5), fa sì che la scaturigine di questi segnali naturali, impulsivi e istintuali venga coperta. Con questa decenza di vestito, con questa attenuazione dei segnali naturali istintuali, con la forza della buona volontà si raggiunge un’etica, un comportamento affine alla volontà di Dio. Il Signore fa delle tuniche ad Adamo ed Eva per rivestirli corporalmente, proprio per impedire che la trasmissione di questi segnali di concupiscenza suscitassero a catena, anche in seno alla famiglia stessa di Adamo, forze di connubio smodate e fuori posto.

Possiamo parlare di una fenomenologia antropologica, un fenomeno che si ripercuote nell’uomo di tutti i tempi. In tutto il globo terracqueo c’è questa esigenza di vestimento della corporeità onde impedire ai messaggi di suscitare automaticamente reazioni naturali, istintuali. Questa esigenza viene chiamata costume e parte dall’etica naturale. Sono svariati i modi di fare, diversi i comportamenti per esigenze climatiche varie, ma il concetto di base essenziale resta: lo svelamento della persona, di tutta la corporeità implica di fatto un richiamo alla comunione totale. Allora una buona moda, una sana decenza anche nel vestire, nei movimenti, nel procedere, nel fare, aiuta moltissimo anche a livello comunitario affinché il rispetto delle persone, le provocazioni, non superino certi livelli. Un conto è venire in Chiesa vestiti decorosamente, un conto è venire come se si fosse all’equatore! Ecco perché all’ingresso delle Chiese trovate scritto: “Vi raccomando di entrare in Chiesa decentemente vestiti”, perché chi sta in confessionale sa la ragione di questo invito! Il vestito come mezzo vela l’intimità della persona e impedisce che determinati messaggi di tipo naturale e impulsivo, buoni perché creati dal Creatore, degenerino.

“Ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”: d’altro canto la paura deriva proprio dall’assenza della charitas causata dal peccato, dall’assenza dell’amore di grazia che li congiungeva a Dio. L’assenza della charitas, di questo rivestimento,  di questa virtù soprannaturale meravigliosa che lo congiungeva a Dio, alla donna e alla natura, gli incute un senso di paura perché privo delle difese: Dio non è più l’amico, lo sposo, il confidente, il padre, ma diventa il giudice per lui, per tutti noi, colui che giudica e chiede conto dell’assenza di questa virtù. Ecco perché la virtù della carità è importantissima e quando si pecca gravemente contro la carità bisogna confessarsi. Voi conoscete le esigenze della carità: la carità tutto crede, tutto spera, tutto sopporta, non si gonfia, non si cura del male ricevuto. Quindi una delle condizioni per fare bene la Santa Comunione con il Signore è quella di essere in comunione anche con i fratelli. Non si può essere in comunione con Dio e screditare i fratelli con critiche o con accuse frutto di invidie e gelosie; non si può mantenere astio verso i fratelli. La "charitas Christi" prevede che noi amiamo il Signore Iddio con tutto il cuore, con tutta l’anima, la mente e le forze e il prossimo come se stessi.

“Ho avuto paura e mi sono nascosto”: il nascondimento, il dire: “mi faccio i fatti miei, mi chiudo, me la vedo io” è frutto di questa separazione da Dio e dagli uomini, è frutto del peccato.

Riprese: “Chi ti ha fatto sapere che eri nudo?”

Lo eri anche prima ma non lo sapevi, non ne avevi coscienza, non ne avevi cognizione; eri anche prima nudo nel corpo ma un’altra nudità ti ha colpito. Quindi lo stato della nudità non è un fatto di per sé semplicemente fisico, viene anche dal conoscere e dal rendersi conto che abbiamo perso la Charitas, un grande valore, la comunione con Dio e con il prossimo.

Comprendiamo come la nudità non sia solo un fattore esterno ma rivesta anche un carattere spirituale soprannaturale che interessa il cuore stesso dell’uomo. Ecco perché San Paolo dice: “tutto è puro per i puri di cuore”, “omnia munda mundis”. Perché la purezza è purezza di cuore. Il Signore infatti dice “beati i puri di cuore”. Quindi non è un fatto formale, una questione di centimetri, in modo che la ragazza o la suora che portano il vestito lungo sono più decenti di una mamma di casa che è affaccendata o di una donna che assiste un’inferma e si solleva il vestito! Non è questione di misura, ma è questione che parte dall’interno verso l’esterno. Né qualcuno può giustificarsi dicendo: “Siccome io sono pura di cuore e tutto è puro per i puri di cuore, io mi vesto in decolté, peggio per chi mi guarda!” No, perché la carità tiene conto dell’informazione data anche agli altri, è un modo di porsi nei riguardi dei fratelli.

 

 

 

PRONTI ALL’ASCOLTO E LENTI A PARLARE

(Gc 1, 19b-20)

 

 

"Ognuno sia pronto ad ascoltare": nel senso biblico non si tratta solo di porgere l'orecchio esternamente, ma di dare piena adesione internamente, con il silenzio interiore, con l'animo aperto e sensibile al soffio dello Spirito Santo.

"Lento a parlare": la lentezza non è un elemento negativo, ma costituisce "un limite di velocità"; lento perché la parola che esce da noi non deve fare strage (ricordate il detto "uccide più la lingua che la spada!"). Lento, perché la parola deve rispettare i tempi d'ascolto dell'altro. Inoltre la parola espressa deve rispecchiare quanto più possibile il significato interiore che noi le attribuiamo, diversamente diventa menzogna, un aborto della verità. Quindi, quando ci esprimiamo dobbiamo essere leali con noi stessi per evitare di dire una cosa che non è. Dobbiamo perciò vigilare  su noi stessi per non adulterare le parole che esprimiamo. Proprio per evitare tutto questo, Gesù ci dice: "Il vostro parlare sia sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5,37).

E' richiesta, cioè, una chiarezza di significato: il sì deve corrispondere a un sì interiore, e il no a un no interiore. Quello che è di più, quell'alone alla verità, quella maschera, quel camuffamento appartiene al demonio.

Pronti nell'ascolto ma lenti nel parlare, dobbiamo dare un certo tempo affinché la parola possa esprimersi in noi. Quindi prima di parlare riflettiamo, soprattutto se la parola ha funzioni catechetiche o analitiche. Però la parola che viene generata e partorita non viene generata e partorita in quel momento soltanto, ma presuppone un continuo e attento esercizio di riflessione e di comunione con la Parola di Dio.

Pronti ad accoglierla, ma lenti a pronunciarla perché nessuno è in grado di portare l'annuncio della Parola se prima non l'ha fatta propria, se prima non ha dato un tempo lungo alla meditazione, alla riflessione, alla contemplazione della Parola di Dio. Solo se quella Parola che devo dire risuona dentro di me, è stata detta prima a me stesso, incarnata fino a che non abbia prodotto in me il suo beneficio, potrà dare effetto sul prossimo, sui fratelli. Più che parlare bisogna educarsi ed educare all'ascolto dell'altro e gestire il tempo, lo spazio che l'altro lascia per poter dare, con pienezza di spirito, delle giuste risposte. Poche parole, poche espressioni ma che delineino un sentiero, un cammino. Dio è di poche parole; anzi, di una sola parola: il Figlio Suo, nel quale ha detto tutte le cose che aveva da dirci.

"Lento a parlare, lento all'ira": esiste, quindi, un certo parallelo tra l'ira e una loquacità spregiudicata che va ad offendere, a tiranneggiare l'altro. Infatti, quando si prende la strada dell'ira non si misurano più le parole, il linguaggio diventa il riflesso di uno stato d'animo concitato, offuscato da una forza di volontà lasciata al suo libero arbitrio, non controllata più dalla ragione, dalla fede; in altre parole, si diventa stolti. Lo stolto parla senza dare più peso alle parole, come una macchina che, uscendo all'impazzata, uccide la folla. Una parola che esce da un cuore esagitato non riflette mai pienamente la persona, ma la sua stoltezza. Quindi non lasciamoci prendere dall'ira non solo perché questa alberga nel cuore dello stolto, ma perché non ci fa compiere ciò che è giusto davanti a Dio, togliendoci anche il vero senso religioso. "Religio" è colloquiare con Dio: io Gli parlo con la preghiera, Lui mi risponde con la Sua Parola; Dio parla a me con la Sua Parola e io Gli rispondo con la preghiera non fatta di parole, ma della Parola, come riverbero di quella eterna che è il Figlio Suo. La nostra preghiera è il riflesso di quello che è in noi e se in noi abita Gesù, perché l'abbiamo accolto, noi risponderemo come l'alunno al professore. E come il professore gioisce internamente quando l'alunno ripete egregiamente e gioiosamente le lezioni, non per la lezione in sé per sé, ma perché sente riecheggiare nel cuore dell'alunno quello che lui ha detto, così fa Dio con noi. Non ha bisogno di sentire le cose nostre, di sentire che abbiamo imparato la lezione, ma Lui gioisce di ciascuno di noi perché vede rispecchiare in ciascuno di noi e in tutti noi Suo Figlio, quasi una moltiplicazione di paternità, guardando ciascun figlio nel Figlio Suo.

Gli animali hanno vari mezzi di comunicazione, ma tutti sono basati sull'uso dei sensi: i fischi, i richiami, gli odori. Anche per l'uomo è così, ma la parte sublime della comunicazione sta nell'esercizio della Parola. Grazie ad essa l'uomo si è elevato da terra per raggiungere vette concettuali e spirituali che lo fanno simile a Dio. Quindi la religione non consiste in tantissime preghiere, in tante pratiche di pietà, ma in una prontezza nell'ascolto, in una lentezza nel parlare e in una parola che sia il riflesso di quella Eterna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ENTRARE NEL RIPOSO DI DIO

(Eb 4, 1-16)

 

Attenti a non farsi escludere e a rimanere fuori del riposo. L’esclusione è una regola di condanna del Signore "perciò ho giurato nel mio sdegno: non entreranno nel luogo del mio riposo" (Salmo 91). Nella Chiesa l'esclusione si manifesta con la scomunica per i casi più gravi. Le anime che non sono nel riposo sono agitate, non riposano, non hanno la pace e la tolgono anche agli altri. Nella vita quotidiana un punto di riferimento che può farci comprendere se siamo nell’inclusione o nell’esclusione è proprio questo: avere pace e o no. La pace deriva dal rimanere in comunione di Spirito, di fede, d’amore, d’intenti con coloro che ci hanno annunciato il vangelo.

La radice dell’esclusione sta nella ribellione e la radice della separazione sta nella disobbedienza. "Obbedire = ob audire": sottostare all’ascolto; ascoltare, ubbidendo, coloro che ci annunciano la Parola, restando in comunione con loro. Ti ribelli? Ti escludi! Non il Signore ti esclude, sei tu che te ne vai con i piedi tuoi. Sei tu che prendi le tue decisioni, nessuno può sostituirsi a te, nessuno può assumersi le tue responsabilità. Colui che giudica chiede da te una risposta, se la tua risposta è un no, il no sarà tuo e non di altri. E stai pur certo: senza di te si continua, solo Dio è indispensabile!

“Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori” (4,7) La lettera agli Ebrei ci parla di un “oggi”: fintanto che dura quell’oggi c’è la possibilità di rientrare, di chiedere perdono al Signore. Mai rimandare a domani, ascoltare la Parola nell’“oggi”! Mai dire: non ho ascoltato, mi sono ribellato, sono senza comunione, cosa mi è successo? Questo porta all’indurimento del cuore che viene dal saltare l’oggi e rimandare al domani. Che ne sai cosa succederà domani? E’ oggi l’istante che Dio ha messo nelle tue mani perché tu possa dire: amore e pietà. Guai a coloro che dicono: “Domani”! Se si prende a modello lo stesso modello di disobbedienza di coloro di cui ci parla la Lettera agli Ebrei, partiamo già in fumo, ci vuole l’estintore! Affrettiamoci dunque ad entrare in quel riposo perché il riposo è già una caparra del Signore: in pace mi corico e subito mi addormento. Il Signore ti dà questa caparra con la possibilità di ritrovarti con Dio e con i fratelli. Il riposo e la pace si ottiene con il Sangue di Cristo, ossia con una buona confessione! Se riemergono le vecchie avvisaglie, gli spettri del passato, quello che siamo stati e abbiamo fatto; se emergono i cadaveri della vecchia donna e del vecchio uomo, è bene prenderne coscienza, non farli rivivere, anzi, distruggerli rivestendoci dell’Uomo Nuovo e della Donna Nuova, Gesù e Maria. Se l’anima non è in pace con se stessa è perché è malata di arrivismo, vuol dominare e possedere e non può, vuole fare la sua volontà e invece deve fare quella di Dio e così si arrabbia con se stessa, non sta bene né con se stessa né con gli altri. E questo perché c’è tanta superbia e tanto orgoglio. Se quello che dovrebbe essere un incontro con i fratelli diventa uno scontro, non attribuire la colpa al tuo carattere, guarda piuttosto se hai messo al primo posto il Signore! Qualcuno pensa di nascondersi dietro gli altri, ma nessuno può nascondersi davanti a Dio, dinanzi a Lui tutto è nudo. Dio vede e a Lui dobbiamo rendere conto. Tu affermi che ti fa male ascoltare queste cose. La Parola di Dio è posta alle radici e taglia ciò che non va, e se è la persona a non andare, la Parola taglia via nella  persona ciò che è psichico e lo esclude. Se scegli di essere una persona psichica, Dio scende dove è la tua psiche, nel punto di divisione tra la tua parte spirituale e quella carnale, e taglia ciò che non appartiene allo Spirito. La Parola di Dio ti dice ciò che appartiene allo Spirito, alla vita eterna, alla salvezza, e ciò che invece è carnale. Le tue ragioni saranno anche razionali, ma non soprannaturali perché la tua mente è colpita dalla superbia, dal materialismo, dall’egoismo, dall’ateismo. L’essere umano o sceglie e razionalizza il bene o sceglie e razionalizza il male. Da queste scelte, portate all’estremo, nascono i santi ed i peccatori. Nella vita dello spirito o ci si fa santi o si diventa diavoli, o comunque si fanno compromessi con il nemico di Dio. Attenti a costruire nel bene e a non fare scelte ambigue, attenti a non demolire ciò che si è costruito con tanta pazienza e tanto lavoro, sarebbe da folli!

Con questo non voglio dire che non ci possono essere scivoloni, perché mentre si costruisce qualche mattone può sempre rompersi. “Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità”, dice la Lettera agli Ebrei (4,15), e rendiamo grazie per questo, lodando Dio anche perché nel confessionale non troviamo angeli (saremmo polverizzati!) ma piuttosto uomini che come noi fanno esperienza della fragilità umana e del peccato. “Accostiamoci – perciò - al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno” (4,16): il nostro aiuto è nel nome del Signore che ha fatto cielo e terra!

Facciamoci piccoli, obbedienti, mettiamoci in comunione, senza ribellarci, con coloro che ci hanno annunciato il vangelo, in primis il Vescovo. Accogliamo con gioia e meditiamo la Parola di Dio, che può salvare le anime nostre, e rifugiamoci, nelle nostre debolezze ed infermità, nel Sangue di Cristo.

 

 

 

 

 

 

LA CONSOLAZIONE DELLO SPIRITO SANTO

 

 

Capita spesso di trovarci in situazioni in cui riesce difficile consolare, restiamo quasi senza parole, sentiamo tutta la nostra incapacità a sollevare un nostro fratello dall’afflizione in cui è caduto.

Ma capita anche di essere incapaci di ricevere consolazione da altri, ci sembra che nessuno capisca fino in fondo il nostro problema, la nostra situazione, il nostro dolore.

L’errore sta nel cercare negli altri, intorno a noi, dentro di noi, fuori di noi consolazioni che non siano nella direzione dello Spirito Santo, dello Spirito Consolatore, che non siano quelle che derivano dallo Spirito del Signore. Possiamo al limite cercare gli strumenti più validi per procacciarci gli aiuti più consoni al nostro bisogno, ma se pensiamo di essere consolati dalla semplice presenza umana, non faremo altro che accrescere la nostra solitudine. Sentiremo sempre nel profondo del nostro essere quel senso di vuoto che non sarà mai saziato se non dalla consolazione che viene da Dio. Questo perché la solidarietà umana, qualunque essa sia, per poter aiutare l’uomo deve solidamente essere unita ad un’esigenza di eternità, di infinito, ad un’esigenza di contatto con Dio. Gesù ci dice infatti: “Senza di Me non potete far nulla”. Non si può consolare se non si conosce la vera consolazione che viene da Dio solo. Lo Spirito Consolatore è unico come consolatore ma molteplice nelle sue realtà assistenziali: Spirito di sapienza, di intelletto, di fortezza, di consiglio, di scienza, di pietà e di timor di Dio. Quindi un unico Spirito deve informare, consolare l’anima dell’uomo e soprattutto l’anima consacrata che, indivisa, è alla sequela di Cristo.

La solitudine spinge l’uomo ad andare incontro agli altri, ma in primis la solitudine deve spingere l’uomo ad andare fuori di sé per incontrare il suo Dio, il Signore e nel Signore ritrovare il suo compagno, la sua compagna, i suoi fratelli. Andare alle creature come si va ad un rubinetto per prendere dell’acqua: un esempio blando ma efficace per dire che non bisogna confondere il mezzo, lo strumento, con la sostanza che è lo Spirito Santo, lo Spirito di consolazione. Infatti non appena l’uomo opta, sceglie la creatura al posto del Creatore ritorna nella solitudine, anche se è vero che nessuno potrà mai essere nella pienezza della consolazione se ama Dio e disprezza i fratelli, poiché  il comandamento dell’amore è unico e abbraccia l'Uno e gli altri. La consolazione, dunque, non è assenza dell’uomo ma l’uomo rende partecipe l’altro uomo dell’azione consolatrice di Dio in lui, diventando strumento dell’unico amore, dell’unica consolazione che è quella divina. La consolazione quindi è immediata e mediata. E’ immediata perché Dio stesso è vicino ad ogni creatura soprattutto nel momento della prova, della tentazione, del dolore. E’ mediata perché Dio si fa prossimo di ogni creatura e nel prossimo c’è Dio stesso che riceve mediatamente: “qualunque cosa avrete fatto al più piccolo di questi miei fratelli l’avrete fatta a Me”. Ed è ancora mediata quando nella provvidenza delle persone scopriamo la bontà del Signore che non fa mancare nulla ai Suoi figli.

Se la consolazione è unica, autenticamente divina, se lo Spirito che informa questa consolazione è unico, dobbiamo sempre ricercare in noi e negli altri, nella compostezza e nella santità, non tanto di essere consolati, quanto di consolare con quella consolazione che ci viene da Dio. Soprattutto noi anime consacrate nell’incontro con i fratelli dobbiamo essere trovati in grado di dare consolazione. Non devono trovarci poveri, afflitti, malandati, bisognosi noi di consolazione perché se così ci rivolgessimo agli increduli, questi sarebbero spinti a non credere più in Dio, nostro sostegno, nostra forza, nostro rifugio; se così ci rivolgessimo ai pusillanimi, questi non avrebbero più il coraggio di buttarsi nelle braccia del Padre buono; se ad atei, avrebbero conferma che siamo solo dei poveri illusi; se a chi è desideroso di mettersi alla sequela di Gesù, questi inizierebbe ad avere sfiducia, ritornerebbe sui propri passi perché sarebbe portato a considerare il cammino troppo arduo; se a buontemponi, sarebbero spinti a godere sempre più della vita presente. Spingeremmo gli altri e forse anche noi stessi a far ricorso a consolazioni mondane come ripiegamento su loro stessi, a cercare consolazioni vane se non peccaminose e tutto questo perché ci si è staccati da Dio, ci si è impoveriti di quella linfa vitale che scorre da Colui che consola veramente, ci si è impoveriti dello Spirito Consolatore, l’unico, vero e autentico compagno di noi, misere creature. Non possiamo attribuire la nostra incapacità a consolare alla nostra miseria, alla nostra povertà, alla nostra debolezza, ma al fatto di non riconoscere la ricchezza incommensurabile che Dio ha messo dentro di noi. Noi che siamo veramente ricchi perché possediamo lo Spirito del Signore, dovremmo arricchire molti, noi che siamo forti perché fortificati dallo Spirito di fortezza, dovremmo fortificare gli altri.

Per poter fare questo è necessario cercare ogni giorno il Volto di Dio, la comunione con Lui. Occorre un’azione di contemplazione che può essere diluita nell’arco della giornata, della settimana, del mese, ma che deve sfociare in un’azione di consolazione, di riempimento, di ricarica; diversamente non potremo dare nulla agli altri. Validi aiuti sono anche la meditazione della Parola di Dio, che deve scendere fin nel profondo del nostro io, e la preghiera del cuore, che spinge il nostro spirito a unirsi strettamente, fiduciosamente e filialmente allo Spirito di Dio. E’ necessario munirsi di molta costanza e perseveranza, ma sappiamo qual è la strada: è Gesù. Egli ci ha anche detto: “Qualunque cosa chiediate al Padre mio nel mio nome, ve la concederà”. Chiediamogli, dunque, lo Spirito Santo ed Egli, che è un Padre buono, ce Lo concederà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTRO LA VERITA’: LA SENSUALITA’ IDOLATRICA

 

"Mi rimane di parlarti del frutto che dà la lacrima gettata con santo desiderio e di quanto essa opera nell'anima. Ma prima comincerò dalla lacrima, di cui feci menzione in principio, cioè di coloro che vivono miserabilmente nel mondo, facendosi Dio delle creature, delle cose create e della loro stessa sensualità, donde viene ogni danno all'anima e al corpo.

Ti dissi che ogni lacrima procede dal cuore, e questa è la verità, perché il cuore tanto si duole, quanto ama. Gli uomini del mondo piangono quando il cuore sente dolore, per essere privato di quella cosa che amava. Ma sono molto diversi i loro pianti. E sai quanto? Quanto è differente e diverso l'amore. Siccome la radice dell'amor proprio sensitivo è corrotta, ne esce corrotta ogni cosa. Esso è un albero, il quale non genera che frutti di morte, fiori putridi, foglie macchiate, rami inchinati fino a terra, percossi da venti diversi; questo è l'albero dell'anima.

Tutti siete alberi d'amore, e perciò non potete vivere senza amore, essendo stati fatti da me per amore. L'anima, che vive virtuosamente, pone la radice del suo albero nella valle della vera umiltà; ma quelli che vivono miserabilmente, l'hanno posta nel monte della superbia; onde, essendo piantato male, l'albero non produce frutto di vita ma di morte. Le loro azioni sono frutti, tutti avvelenati di molti e diversi peccati" (dal "Dialogo della Divina Provvidenza" di Santa Caterina da Siena,(cap. 93)

 

Dalla sensualità deriva ogni danno all'anima e al corpo perché si fa delle creature un dio, cadendo così nella menzogna. E in questo consiste la schiavitù: fare di un essere umano o di un oggetto il proprio dio.

Cos'è la sensualità? L'attaccamento dei sensi, alle cose e alle creature. La sensualità è qualcosa che supera le necessità ed entra nella volontà, che supera la dimestichezza con la croce di Cristo; è l'esagerazione, è la ricerca del piacere, è il fare le cose non secondo lo stile della legge di Dio ma essenzialmente perché se ne ricava qualche interesse egoistico o un beneficio egocentrico, cioè qualcosa che spinga gli altri a servire la nostra volontà e il nostro io per farci piacere. E' una specie di oggettivizzazione, un finalizzare tutto quello che si fa al nostro io.

Prima di mangiare o prima di dormire noi preghiamo. Perché? Se leggete il capitolo 8 del libro di Tobia, Tobia e Sara, prima di unirsi in coniugio, pregano. E' un ricondurre tutte le cose al fine ultimo che è Dio, un guardare a Dio come fine ultimo di tutte le nostre azioni e attività: "Non a noi ma al tuo Nome dà gloria". "Tuo il regno, tua la potenza, tua la gloria", tutte le nostre attività ed opere sono Tue. E' per Te e non per me!

Il cristiano non ha attaccamento alla sensualità, e perciò mangia, beve, dorme, vive, secondo le regole del Signore, avendo come punto di riferimento Dio e non il proprio piacere. Quando mangia, beve, dorme, offre il gusto della vita a Dio. "Sia che mangiate -dirà  San Paolo- sia che beviate, sia che dormiate, fate tutto nel nome del Signore". Anche il divertimento, la gioia, tutto è da riferire al Signore con rendimento di grazie. In questo modo la nostra vita prende slancio, ci liberiamo dalla nostra sensualità, dalla capacità dei sensi di vincolarsi e farci schiavi delle passioni e degli istinti. Offrendo tutto al Signore ci liberiamo perché ci riferiamo a Colui che è il Liberatore della nostra vita e della nostra storia.

Vedete cosa propone oggi la nostra società edonistica: ricercatezza raffinata di tutte le arti culinarie, dei modi di vivere e di fare per soddisfare il proprio piacere. E troverete anche cartelli di questo tipo: "Io piaccio a me stesso", o "Io sono mio"; e ancora: "Mi faccio un regalo": egocentrismo e soggettivismo esasperato.

Il cristiano invece non è più una persona che vive per se stessa, ma con San Paolo dice: "Non vivo più per me ma per Colui che mi ha riscattato e ha dato se stesso per me". Quindi non apparteniamo più a noi stessi ma a Cristo: ogni egocentrismo ed egolatria devono essere cancellati. Anche gli onori, le glorie, i plausi, i meriti, li dobbiamo trasferire sempre a Gesù Cristo e ritenere per noi quello che siamo realmente: fragili creature.

Avere la consapevolezza che siamo nulla, polvere e che, come dice il Qoelet, abbandonato a se stesso l'uomo è peggio di una bestia.

Porre dunque la radice dell'anima nell'umiltà (da "humus", terra), riconoscere il Creatore, riconoscere che tutto viene da Lui, per cui ogni affetto, ogni amore da Dio viene e a Dio ritornerà. Non potranno così prendere un sopravvento idolatrico su di noi gli affetti, perché le radici saranno poste nell'umiltà, e non ci si ergerà contro il Signore.

La santa umiltà demolisce gli idoli. Lo capì bene Maria Santissima che esclamò:  "Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente perché ha guardato l'umiltà della sua serva". E anche Gesù ci insegna: "quando avete fatto tutto quello che dovevate fare dite: ”Sservi inutili siamo, abbiamo fatto il nostro dovere".

Il campanello d'allarme dell'idolatria è accorgersi che stiamo perdendo la pace interiore. L'attaccamento idolatrico a cose e persone fa infatti perdere la pace e fa soffrire perché dalla sensualità deriva ogni danno allo spirito e al corpo in quanto si chiede da cose e creature limitate ciò che esse non posseggono e quindi non possono dare: la soddisfazione di anime assetate di eterna felicità.

Se vediamo che ci sono attaccamenti che ci tolgono la pace dobbiamo eliminarli perché evidentemente non sono secondo lo spirito di Dio, ma secondo lo spirito del mondo. Meglio perdere gli attaccamenti, le cose, certi tipi di rapporti con le persone che perdere la pace!

In questi casi rientriamo in noi stessi, ricostruiamo i rapporti con le cose e le persone in Dio, per Dio, con Dio, così come ci fa dire la liturgia: per Cristo, con Cristo e in Cristo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DUE ESEMPI DI FEDELTA’ ALLA VERITA’: GIUSEPPE FIGLIO DI GIACOBBE E GIUSEPPE SPOSO DI MARIA

 

Di Giuseppe nel Nuovo Testamento si dice ben poco: era un uomo giusto e non volle ripudiare la sua Sposa, Maria Santissima, quando si accorse che era incinta.

Si parla dei sogni che lo guidavano e gli indicavano cosa fare.

Diede il pane a Gesù, per cui è invocato come  padre nutrizio in quanto datore di nutrimento; ma è anche  padre putativo di Gesù, perché padre  legale, in quanto Sposo di Maria Santissima.

Tutti questi elementi si ritrovano anche nel  Giuseppe del Vecchio Testamento (dal cap. 37 in poi del libro della Genesi).

Si tratta di Giuseppe figlio di Giacobbe. Siamo alle origini del disegno di salvezza,  verso il XIX o il XVIII a.C. Giacobbe ha avuto circa dieci figli da due mogli. A quel tempo vigeva la poligamia e suo suocero l’aveva messo in condizioni di sposare prima la figlia grande, Lia, poi la piccola, Rachele. Giuseppe è il primogenito avuto dall’unione con Rachele la moglie legale, quella che lui desiderava. Tutti gli altri fratelli erano invidiosi di Giuseppe e adesso vedremo a quali conseguenze porta l’invidia.

L’invidia è omicidio! L’invidia è, possiamo dire, la scala su cui satana sale per entrare nel cuore della gente. Si parte dall’invidia e si arriva all’omicidio uccidendo nel cuore il proprio fratello, la propria sorella, il padre, la madre, chiunque.

L’invidia uccide, uccide l’amore dentro di noi e l’amore nel prossimo.

Dunque la prima cosa da fare è togliere dal cuore l’invidia e ricordarci che siamo tutti figli di Dio, tutti peccatori, tutti polvere e cenere. Ringraziamo per ciò che ci è stato donato e ciascuno badi a se stesso senza guardare mai all’altro. Guardare l’altro per diventare più buono, questo sì; emulazione ma non invidia. Giuseppe era un sognatore e in particolare ebbe due sogni che non erano piaciuti ai fratelli: una volta sognò la luna, il sole e dodici stelle che si inchinavano davanti a lui; un’altra che,  raccolti dei covoni,  il proprio restava in piedi mentre quelli dei fratelli si inchinavano davanti al suo.

Giacobbe aveva confezionato una tunica per suo figlio Giuseppe e ciò indicava che non gli competevano i lavori pesanti; infatti era un po’ il sovrintendente di casa. Un giorno fu mandato da suo padre a vedere come si comportassero i suoi fratelli a Dotan dove erano a pascolare il gregge.

Era giunto il giorno…di aprire le braccia e di vivere la passione come Nostro Signore Gesù Cristo.

I fratelli, come videro che arrivava, lo afferrarono, lo picchiarono, lo gettarono in una cisterna arida; poi, pensando che il padre non li avrebbe  perdonati, organizzarono tutto come se fosse stato un leone a sbranarlo: scannarono un agnello, versarono il sangue sulla tunica, la strapparono, la impolverarono…

Cosa sono capaci di fare a volte i parenti!

“Mi avesse insultato un nemico l’avrei sopportato, ma sei tu mio amico e confidente”, dice il salmo.

Con il Nuovo Testamento, però, Gesù ci ha insegnato a perdonare. Dobbiamo imparare a farlo.

I fratelli non uccisero Giuseppe, non vollero macchiarsi le mani di sangue, ma lo gettarono in una cisterna. Dopo si sedettero e mangiarono tranquillamente nonostante il misfatto.

Questo succede anche ai nostri giorni, quando per esempio ci sediamo a tavola e critichiamo fino a distruggere totalmente la dignità di qualche nostro parente o amico, comportandoci così da figli delle tenebre.

Poi neanche confessiamo il nostro peccato.

Dio vede ogni cosa!

Dietro consiglio di Giuda, uno dei fratelli, Giuseppe fu venduto per trenta piastre d’argento ad una tribù di Madianiti che andava in Oriente per vendere spezie.

Anche Gesù fu tradito da Giuda per trenta denari!

Giuseppe è dunque immagine di Nostro Signore Gesù Cristo, è il prototipo, l’antesignano, la figura che rimanda a  Gesù Cristo. E fu perseguitato ed invidiato come lo sarà Gesù, crocifisso per invidia dei Giudei.

Giuseppe fu portato in Egitto e venduto al mercato come schiavo.

Un nobile, Potifarre, generale del faraone, lo comprò perché lavorasse nella sua vigna. Ma Giuseppe conquistò con la sua rettitudine Potifarre e diventò il maggiordomo della sua casa, colui cioè al quale si accorda piena fiducia.

Durante le assenze del generale, la moglie di Potifarre tentò più volte il retto maggiordomo. Ma Giuseppe era uomo timorato di Dio e resistette a tali profferte peccaminose.

I giovani dei nostri giorni sorridono per tali esempi di virtù e considerano sciocchezza ciò che è grandezza davanti a Dio e davanti agli uomini.

Un altro glorioso esempio di virtù ci viene da San Giuseppe, uomo giusto, uomo della castità; continuò a stare vicino a Maria S.S.  nel segno della castità, nel segno del rispetto, nel segno del vero e sincero amore, della vera e sincera dedizione alla sua Sposa e al Figlio suo secondo la volontà e i disegni di Dio.

Non tutti siamo chiamati a fare questo. San Giuseppe però accettò questa missione che Dio volle affidargli e la fece sua.

Impariamo anche noi ad accogliere con generosità il piano che Dio ha su ciascuno di noi, in virtù di quella purezza di cuore a cui tutti, anche gli sposati, sono chiamati.

Volersi mantenere integri in questo mondo spesso costa la persecuzione.

Così il nostro Giuseppe subì la persecuzione da parte della moglie di Potifarre, la quale, in un eccesso d’ira tipico del desiderio non corrisposto, lo aggredì, gli strappò un lembo di mantello e lo accusò, al rientro del marito, di aver tentato di violentarla.

Far bene e ricevere male: questo è il destino di tutti i Cristiani. Stolti agli occhi degli uomini, santi al cospetto di Dio!

Giuseppe fu sbattuto nelle prigioni più remote del faraone da cui non si usciva più se non morti.

Ma Dio non abbandona mai coloro che confidano in Lui!

Anche in prigione Giuseppe attirò il benvolere del capo delle guardie. Perché si comportava bene, perché pregava, perché non perdeva la fiducia nel Signore e anche tra i ceppi, anche tra il ferro che gli serrava la gola, lui continuava a lodare il suo Dio, continuava a ricordarsi delle misericordie del Padre.

Quale fedeltà nella tribolazione! E Dio premiò la sua fedeltà.

Divenne l’aiutante del capo delle guardie carceriere, e poteva così muoversi liberamente tra le altre celle per distribuire il cibo.

Capitarono nelle prigioni due uomini nobili, il gran coppiere e il gran panettiere del faraone, coloro che assaggiavano i cibi e le bevande prima che fossero dati al signore. Erano stati condannati a causa di un attentato ed erano in attesa di giudizio. Fecero ciascuno un sogno e Giuseppe lo interpretò profetizzando la morte del gran panettiere e il rientro alle proprie mansioni del gran coppiere dopo tre giorni. Così avvenne.

Giuseppe pregò il gran coppiere di non dimenticarsi di lui quando si sarebbe trovato alla corte del faraone. Ma questi si ricordò di lui solo dopo qualche anno, in occasione di un sogno avuto dal faraone che né sapienti, né indovini e maghi di tutto l’ Egitto furono in grado di interpretare.

Dietro consiglio del gran coppiere, il faraone mandò a chiamare Giuseppe dalle prigioni. Fu ripulito, vestito con abiti eleganti e presentato al faraone.

Dirà il salmo:

il re dei popoli lo andò a prendere,

gli serrava il ferro la gola,

i ceppi gli fermavano i piedi

ma il re dei popoli lo andò a prendere.

Giuseppe interpretò il sogno del faraone e profetizzò sette anni di abbondanza seguiti immediatamente da sette anni di carestia. Poi, da uomo saggio qual era, consigliò al faraone di prendere un uomo avveduto che prendesse dal pieno per metterlo nel vacante.

Il faraone pensò bene che non avrebbe trovato uomo più sapiente di Giuseppe in tutto l’Egitto e, togliendosi la collana e il sigillo dal dito, glieli fece indossare dichiarandolo così il più grande dopo di lui.

Giuseppe si impegnò, fece costruire Pitom e Ramses, le città deposito di cui si trovano tuttora le vestigia. Quando sopraggiunse la carestia furono aperti i depositi e distribuito grano a tutto l’Egitto e ai paesi circostanti e Giuseppe divenne veramente il viceré.

Anche San Giuseppe, umile, falegname, rigettato dai suoi fratelli, col bimbo in braccio fugge in Egitto, è perseguitato, ispirato dai sogni, diventa anch’egli viceré; come padre putativo fece le veci qui in terra dell’Eterno Padre.

 

 

 

 

LA MADRE DELLA VERITA’: MARIA SANTISSIMA

(Sap 7,27-28)

 

La cosa più bella che poteva crearsi la Sapienza era una mamma, e se l’è fatta! L'ha creata così come l’ha voluta: bella, grande, santa e ha racchiuso in lei tutte le meraviglie del creato.

Questa immagine più bella e rappresentativa di tutto il creato è  la Madonna. La Madonna è l’icona perfetta di tutta la creazione. In Maria Santissima c’è il marchio, il simbolo, il sigillo di tutta quanta la perfezione che Dio ha immesso nella creazione e più ancora l'immagine e somiglianza di Dio che è anche madre. La Sapienza di Dio si modellò una casa, la Sua Arca, dove abitare, il Suo tempio dove dimorare, il Suo universo dove incarnarsi, e Maria S.S. è tutto questo, è accoglienza, è arca, è maternità, è perfezione, non è idolatria. Ella sempre si reputa l’umile ancella del Signore, l’umile serva di Dio, non si esalta, non si eleva al di sopra della sua condizione creaturale, non fa di se stessa una dea, nonostante le sue infinite perfezioni, ma sempre dichiara di essere l’umile ancella del Signore, in ascolto della Parola di Dio, sotto lo sguardo del Padre. Dunque Maria non è un’esaltata, ma è l’icona perfetta della sapienza creata, è  la concretizzazione plastica di ogni perfezione creaturale, in quanto in Lei il creato ha raggiunto il suo massimo splendore.  E’ il fiore più bello collocato sull’altare di Dio. Se nulla ama Dio se non chi vive con la Sapienza, il massimo amore, e quindi la pienezza dello Spirito Santo, dimora in Lei, perché in Lei dimora niente di meno che il Logos stesso, il Verbo stesso di Dio, il Verbo eterno di Dio. Dove trova spazio il logos infinito di Dio? Nell’INFINITA UMILTA’ DI MARIA. Tanto è grande l’umiltà di Maria, da contenere la pienezza della Divinità! Maria è piena di Dio perché è infinitamente umile, infinitamente vuota di sé! Ecco perché lo spazio che Ella colloca e dona alla Divinità è un infinito spazio di umiltà. Dio riempie l’umiltà della Sua Serva. La profondità della infinita umiltà di Maria è colmata dalla pienezza dell’onnipotenza di Dio. Maria si fa spazio e accoglienza di Dio, e diventa un abisso di umiltà colmato dalla infinita pienezza di Dio! In ciò sta quindi la sua grandezza: “perché ha guardato l’umiltà della Sua serva, tutte le generazioni mi chiameranno beata”. Non c’è egolatria in Maria, non c’è la presunzione di Eva, non c’è quell’arroganza, quella superbia, quel dichiarare sé al di sopra delle genti, se non giustificato dalla sua pienezza di umiltà. Questa sapienza, che è perfezione profonda, che è accoglienza della perfezione infinita che è Dio stesso, la Sapienza increata, ben si colloca di fronte a Dio come il contenitore, come il vaso di elezione, il vaso spirituale che accoglie niente di meno che la maestà infinita di Dio. Dio supplisce all’infinita bassezza e all’umiltà di una Sua serva, che continua a  considerarsi tale ancora oggi, a distanza di venti secoli, quando tutte le genti la proclamano beata.  Quando ha già conseguito la sua regalità e il suo trionfo in cielo, pure si definisce ancora: serva del Signore! Quanto abbiamo da imparare da questa sapienza perfetta creata che si fa vaso umile di accoglienza dell’infinita maestà e gloria di Dio, quanto abbiamo da imparare tutti quanti! Quanta superbia, quanta presunzione, quanto io nelle nostre miserie, nelle nostre cosette da nulla!

L’umiltà di Maria è esemplare, modellata pienamente su quell’umiltà che Gesù stesso ha insegnato: “Prendete esempio da Me, che sono umile e mite di cuore”. Maria accoglieva nel suo cuore tutte quelle parole. Ma  come fare spazio dentro di noi? Cercando di liberarci sempre più di noi stessi, dalla nostra superbia, non per distruggerci ma per arricchirci, non per cadere in una nullità, in un vuoto, ma per riempirci di Lui.

La Sapienza forma amici di Dio e profeti. E’ la Parola di Dio che dà forma a tutte le cose, è la Parola di Dio che crea e forma. Già nella Genesi il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono presenti. C’è il Padre Onnipotente con la Sua Parola e c’è lo Spirito che aleggia sulle acque: sono tutti e tre presenti. Anche nella creazione dell’uomo è presente il Padre, che con la Sua Parola dice “Facciamo" e poi soffia lo Spirito, "Ruah", sul volto dell’uomo per creare una nefesh, un’anima, nel fantoccio uomo, nell’uomo “adamà” fatto di polvere. E questa realtà è ancora presente perché è ancora la Parola di Dio che forma. Non basta questa creazione, questo volere, questo ordinare, questo cosmos, questo ordine universale, perché è Dio che dà forma d'Amore a questo pathos generale, a questa ingarbugliata e indistricata situazione dove confluiscono tutte le potenzialità della materia, primordiale e creata. Dare forma secondo il gusto intimo della sapienza di Dio è l'impronta di Dio, il so gustare ("sapere") la creazione, il suo "stile". Egli forma amici e profeti ma come? CON LA SUA PAROLA, LA PAROLA DI VITA ETERNA. Forma amici e profeti e li intaglia così, come un maestro con un'arte meravigliosa, con martello e scalpello, dà forma all’informe, e "stampa" sul marmo candido l’immagine che Egli vuole che ci sia. Dà forma, e gli amici e i profeti sono formati così dalla Parola di Dio, dal Logos eterno, da una Parola che risuona in quanti vogliono l’AMICIZIA DI DIO. Vogliamo essere AMICI DI DIO? Se vogliamo essere amici di Dio ci dobbiamo lasciar formare, dobbiamo accettare questa formazione: l’azione di farci dare la forma che Lui vuole. E questa forma è  L'IMMAGINE DEL FIGLIO SUO INCARNATO, secondo quella Sapienza increata che si è fatta carne. In Maria, forma creaturale perfetta e modello di Santità, entra la Sapienza increata per prendere una forma umana, una forma reale. Anche noi dobbiamo entrare in questa forma, lasciarci modellare e plasmare dalla Madonna. La Madonna dunque diventa il nostro “habitat”, deve diventare il contenitore della nostra umanità. In Maria, con Maria, per Maria: dentro di Lei, come il Figlio Suo unigenito.

E' in Lei che troviamo quella forma perfetta da cui nascono il Figlio Suo e gli amici e i profeti di Dio.

Oggi non ci sono più i profeti: il profetismo ha lasciato il posto all’apostolato. Oggi il Nuovo Testamento non ha più bisogno di profeti, ma di annunciatori. Non c’è più bisogno di profeti nel senso classico perché tutto quello che doveva dire Dio l’ha detto e l’ha detto nel Figlio Suo, Gesù Cristo! Non c’è altro da sapere, non c’è altro da cercare altrove, non c’è bisogno di correre in capo al mondo, al di sopra dei cieli per sapere quel che Dio vuole, né nelle profondità dei mari o degli abissi. Se tu vuoi, Dio può parlarti ora “tolle et lege”, apri, prendi e leggi. E’ questa la parola che Dio dice a te oggi nel Vangelo e lo dice sempre ormai. Non c’è più bisogno di profeti! C’è bisogno di apostoli. Gesù, salendo al cielo, ha detto: “andate, predicate, annunziate questo Vangelo”.

Se c’è un profetismo nel regno di Dio e nella Chiesa – e ciascun cristiano è sacerdote, re e profeta- questo profetismo riguarda la Parola di Dio e riguarda un apostolato: il profeta deve essere un “Christi fidelis”, un apostolo! E’ uno formato nel modello che è Maria, che Cristo ci ha dato in Maria. Deve essere un uomo, una donna che ha preso la forma e le sembianze di Maria umile ancella del Signore per andare incontro al mondo d’oggi. Dopo un periodo di formazione, alla scuola di Maria, il cristiano deve vedere il mondo con gli occhi di Lei, amare il mondo col Cuore di Lei, visitare il mondo con i piedi di Lei, dare al mondo e partorire al mondo il Cristo con le stesse modalità di verginità e di maternità di Lei. Ecco come la Sapienza forma i nuovi amici di Dio e i nuovi profeti che sono gli apostoli, i "Christi fideles laici", i nuovi inviati nel mondo perché il regno cresca e si diffonda.

 

 

 

 

VITA FAMILIARE

 

E

 

VOCAZIONE DELLA

 

DONNA

 

 

 

 

 

 

 

 

LA FAMIGLIA, CHIESA DOMESTICA

 

L’amore di Dio, di Cristo per noi è un amore come quello dello sposo verso la sposa, come quello presente nella famiglia, tra i coniugi, tra un padre, una madre e i figli.

E questo amore di Dio, tenace, forte, potente, è quello che si riversa nel cuore dei coniugi, nel cuore stesso della Chiesa, è quello che si riversa nel cuore di ciascuno di noi.

Se abbiamo dentro di noi quest’amore viviamo come il tralcio unito alla vite che riceve la linfa vitale, o come il fiume unito alla sorgente che riceve acqua. Diversamente siamo dei tralci secchi, che non portano frutto, dei canali aridi che non possono dissetare ed irrigare.

L’amore di Dio deve vincere le resistenze interiori di ciascuno di noi, frutto di menzogna, di errore, di ideologie, di culture che sono entrate anche in seno alla famiglia, nonostante i millenni di cristianità.

Da sempre la famiglia è stata nucleo, centro, attività d’amore, di comunione.

Essa è riflesso innanzitutto della famiglia divina, di quell’amore che vive e si instaura tra il Padre e il Figlio nello Spirito Santo, è riflesso trinitario. La famiglia in sé sboccia, fiorisce, matura e porta frutto proprio perché è fatta ad immagine e somiglianza stessa della Divinità.

Se già ciascuno di noi è immagine e riflesso di Dio, l’uomo e la donna sono riflesso dell’attività di paternità e maternità divine, perché la famiglia come Chiesa pone le sue origini in Dio stesso, che, come ci ha rivelato Gesù, non è solo unità, ma è Trinità: è Padre, è Figlio, è Spirito Santo, è comunione d’amore, è famiglia di persone nell’unità. Così dovrebbe essere, dice il santo Padre, ogni famiglia. Essa dovrebbe essere espressione d’amore e di comunione.

Ogni famiglia deve vivere, con i suoi membri, nel dono totale e sincero di sé. Ogni persona non può essere egoista, soprattutto in seno alla famiglia. Tra le culture che stanno prendendo pian piano possesso delle menti e dei cuori, anche dei giovani, vi è quella che si riferisce non alla persona in quanto tale, ma all’individuo. Una persona è tale in quanto si relaziona ed è in rapporto con altre persone.

Dio è Padre perché ha un Figlio; se non avesse un Figlio non sarebbe Padre. Noi non siamo figli naturali di Dio, siamo creature. Dio è Padre in riferimento all’Unigenito Figlio Suo; Dio è anche Figlio, quindi Padre e Figlio sono persone in quanto relazionano tra di loro.

L’uomo e la donna sono persone in quanto relazionano tra di loro e con gli altri.

L’individualista invece è un “unum” che si riferisce solo a se stesso, non agli altri. La differenza tra una persona e un individualista è la stessa che intercorre tra una stella come il sole, che dà luce e calore, e collassi di stelle che si chiamano buchi neri: “black holl”. Il black holl ruota intorno a sé, attira e risucchia tutto ciò che entra nella sua orbita, lo rende estremamente piccolo; se la terra fosse attratta nella sua orbita potrebbe essere ridotta a una piccola palla.

L’individualista è uno che accentra tutto intorno a sé, guarda gli interessi propri. Egli dice: “Sto bene con me stesso, mi gestisco io, mi faccio i fatti miei, non mi interessa nulla degli altri, prendo solo quello che serve a me”.

Egli entra in relazione con gli altri solamente per ridurli ad oggetto, è un utilitarista, è uno che usa e getta, usa la persona fintanto che gli serve, e quando non gli serve più, quando l’ha utilizzata, la degrada, la squalifica, passa ad un’altra, perché il suo amore è un amore egoistico, è un amore privo di verità, è un amore dissociato dalla verità sulla persona. E’ un accaparratore di beni e quando viene a contatto con essi, cerca di sottrarli, e pur di raggiungere i suoi obiettivi, non si fa scrupolo di passare sulla testa di qualcuno, per non dire sul cadavere di qualcuno. Questa mentalità individualistica è entrata anche nella famiglia cristiana cattolica. Si sentono dire frasi come queste: “Io sto bene con me stessa”. "Avere un bambino crea difficoltà nel mio lavoro. Io sono una donna che lavora, non posso portare avanti questa gravidanza”; o ancora “La donna che ho preso in moglie è malata, non mi soddisfa più, non posso continuare così, per cui passo ad un’altra” o ancora “Mio marito non è più quello di una volta, sarà la malattia. Non lo sopporto più; mi trovo un altro”.

L’individualismo è una delle vie che conducono all’inferno.

La famiglia cristiana si basa sulla persona e sui rapporti interpersonali.

I rapporti interpersonali sono rapporti qualificati da due realtà molto importanti: l’amore e la verità.

L’amore passa attraverso il ciclo della Santissima Trinità, attraverso il cuore di Dio che si manifesta nel Figlio e che opera nello Spirito Santo nei nostri cuori illuminati dalla verità sulla persona, infatti, solo Cristo manifesta l’uomo a se stesso.

Nel matrimonio l’amore raggiunge l’altra persona per costruire e fare di un uomo un padre e di una donna una madre, per fare dei due un compimento di unità nella famiglia.

La luce della verità, che illumina l’uomo e la donna, manifesta chiaramente ai nostri occhi che le cose sono fatte così naturalmente e che hanno un loro movimento naturale stabilito da Dio nel cuore stesso dell’umanità perché si raggiungano quei fini legati all’eternità, in quanto rapportati a Dio.

La verità sulla persona come l’amore sono oggi alquanto calpestati.

La verità come realtà viene confusa con i sentimenti.

I sentimenti, si dice, sono delle realtà di cui non possiamo non tener conto. “Se è nato un sentimento nuovo, un sentimento diverso, un sentimento per un’altra persona, perché non si deve seguire questa verità sentimentale?” E qui vedete come la cultura delle telenovelas, una cultura di liberi amori basata sui liberi sentimenti, è entrata nelle nostre case; una mentalità nuova, diversa, che non ci appartiene come cultura cristiana.

Si fa strada tra di noi la cultura del tradimento del coniuge.

Un po’ per ridere, un po’ sul serio, quotidianamente in tante trasmissioni, in tanti fenomeni che vediamo intorno a noi, tutto concorre a denigrare, abbattere, demolire il matrimonio, che è un vincolo inviolabile, è un sacramento, una realtà commisurata ad immagine e somiglianza del Creatore e che trova le sue radici in un'azione risalente a migliaia di anni, quando il Signore ha creato l’uomo: “maschio e femmina Dio li creò, per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una cosa sola”. Una cosa sola, capite, non cinquanta cose insieme!

Oggi più che mai si sta attentando, minando alla base della società, della nazione, dell’umanità stessa, della vita dell’uomo sulla terra, perché si sta attentando alla cellula primaria della società che è la famiglia.

La famiglia, abbiamo detto, è il riflesso, il riverbero trinitario. Deve vivere non di relazioni false ma di relazioni veraci, autentiche, deve vivere in conformità alla verità.

Se i sentimenti prevalgono sulla ragione e sulla fede, si finisce, anche se ci diciamo cattolici, con l’accettare l’aborto per una ragazza che ha sbagliato e non può “rovinarsi per tutta la vita”, con l’approvare il divorzio per i coniugi che non si sopportano più o l’eutanasia per l’anziano che “soffre da mattina a sera”.

Questo modo di pensare e di fare è riprovevole agli occhi del Signore, perché si basa sui sentimenti, frutto del nostro egoismo, perché ancora una volta cerchiamo di rinchiuderci nel nostro guscio, pensando a noi stessi e disinteressandoci degli altri. Stiamo perdendo il senso e il significato di essere persona, di essere persone cristiane.

L’uomo e la donna devono certamente sentirsi incitati anche dai sentimenti a stare insieme, ma da sentimenti di bontà, di misericordia, di amore, di umiltà, di mansuetudine, di collaborazione, di comunione, da sentimenti buoni che non devono essere disgiunti dalla verità sulla persona umana.

L’uomo è fatto per donarsi. Ogni persona si realizza nella misura in cui si fa dono per l’altro. L’amore è un essere, un esistere per l’altro, è voler cercare il vero bene dell’altro.

Alla base di ogni nostro comportamento deve starci il binomio amore-verità. Se alla base dei rapporti interpersonali c’è un amore disgiunto dalla verità sull’uomo e sulla donna, un amore egoistico perché impostato sul criterio non della persona ma dell’individuo, portato a soddisfare i propri bisogni, occorre cambiare rotta, cercare di purificare il nostro amore, fare e dire ogni cosa in funzione del bene dell’altro e non per il suo male.

Qual è la verità tra marito e moglie? La verità coniugale è che i due sono ormai una cosa sola, i due sono sempre legati nella figura e nella realtà dei figli. I due diventano inseparabili: “non divida l’uomo ciò che Dio ha unito”.

Se si va contro questo principio, ne vediamo purtroppo i frutti: quante di quelle famiglie con il divorzio, con le separazioni vanno allo sbando, quante ragazze madri ci sono in giro! E purtroppo, queste situazioni quasi sempre degenerano andando a sfasciare, come mine vaganti,  altre famiglie. Tutto questo capita per lo più perché ci si basa su sentimenti che, pur trovandosi nell’uomo devono essere posti sotto la luce della verità e dell’amore, supportati dalla responsabilità personale, visti alla luce del rispetto della persona umana, della dignità umana.

La nascita di un nuovo figlio è per tante famiglie una specie di aggressione alla privacy di due che si vogliono godere la vita.

Ma voi dite: “Le cose stanno così, cosa possiamo farci?”

Dimentichiamo la legge e il giudizio di Dio sulla famiglia? Dio giudicherà le nostre azioni, giudicherà le mamme, i papà, i figli, le comunità per quello che hanno fatto, per come ci si è comportati in seno alla famiglia.

C’è bisogno, dice il Santo Padre, per il raggiungimento della civiltà dell’amore, della famiglia basata sull’amore, di un lavorio, di un impegno veramente notevole. Nessuno di noi, a partire dalla nonna per finire al nipotino più piccolo, può lavarsene le mani. Siamo chiamati tutti quanti a puntare sul vero amore inteso come donazione della persona, come abolizione dell’individualismo, per instaurare relazioni d’amore, d’affetto vero, sincero, del padre verso la madre, della moglie verso il marito, dei figli verso i genitori e viceversa, basando le relazioni e i rapporti interpersonali sul vero amore, che è cercare il bene dell’altro, e sulla verità, raggiungendo il profondo del cuore della persona.

Non ce la fa quella famiglia? Dobbiamo aiutarla. Essa deve camminare e marciare con degli aiuti, dei coadiutori dati proprio da altre famiglie che hanno capito. Ecco la nostra Opera che forma famiglie che siano di supporto e di aiuto ad altre famiglie; ragazzi, ragazze che vivono la castità, che vivono i valori della verità e dell’amore.

C’è un gran bisogno oggi di verità e di amore in seno alla società tutta, ma in modo particolare nella famiglia. Cosa si deve fare? Cominciare a vivere questa regola del vero amore e dell’autentica verità applicata al campo delle relazioni interpersonali: vivere in famiglia relazioni altruistiche, ossia saper accettare il nonnino con tutti i suoi problemi, il bambino che strilla e che non fa dormire la notte...

La carità tutto sopporta e proprio questa molto spesso viene a mancare in seno alle famiglie! Non ci si sopporta più, facilmente si lascia la famiglia, si sbatte la porta e si va via, cioè non siamo più "addomesticati" alla sopportazione, non ci si vuole nemmeno sforzare, eppure siamo chiamati alla croce! Quando poi giungeremo all’ora della nostra morte, egoisticamente pretenderemo per noi ciò che abbiamo negato agli altri.

Si sta facendo strada una triste catena di assenza di solidarietà in seno alla famiglia. Come il Signore può abitare in una famiglia i cui membri hanno chiuso le porte del cuore all’amore?

E’ un richiamo a riconsiderare il quarto comandamento, “onora tuo padre e tua madre”, in una forma interattiva. Oggi, se è vero che il comportamento resta tale e quale da parte dei figli nei riguardi dei genitori, è pur vero che ci vuole una conversione dei genitori nei riguardi dei figli. Come fa un figlio ad onorare un padre e una madre chiusi alla vita? Quale onore potranno ricevere da un figlio considerato frutto di uno sbaglio? Quali relazioni potranno esserci? Quel bimbo crescendo un giorno o l’altro cercherà di togliersi la vita perché si sentirà non accettato, non accolto, rifiutato. In quei momenti sarà determinante l'aiuto della Chiesa, innanzitutto, e della scuola, dei buoni amici... Egli potrà così dire: "mio padre e mia madre non mi hanno voluto, ma voi mi avete accolto, siete miei amici!"

L'amore è esigente, fa rima con dolore. L'amore, quello vero, è più forte e tenace della morte e degli inferi perché è l'amore stesso di Dio che scende dall'alto dei cieli, colomba pura, santa, piena di fortezza, di sapienza, di intelletto, di consiglio, di pietà, di timor di Dio, di scienza. E' il fuoco santo che scende dal cielo e che corrobora i coniugi nella donazione vicendevole nel momento del sì nuziale quando dovrebbe trasparire tutta la volontà di dedicarsi totalmente e per sempre a quell'unico amore, non per interesse ma semplicemente per il bene dell'altro: "ti amo perché ti amo, perché voglio il tuo bene".

L'educazione dei piccoli nella famiglia deve essere educazione a questo tipo di amore, perché se i figli vedono che il papà si lava le mani quando la mamma è malata o che la mamma dedica tutto il tempo a sé e li "parcheggia" dai nonni o dagli zii, viene meno il rispetto nei riguardi dei genitori stessi e si può instaurare una certa sfiducia nei confronti del matrimonio, per cui veramente i figli di divorziati corrono verso il divorzio o temono di finire come la mamma ed il papà: è un terrore che si radica nel cuore!

Occorre quindi una capacità di educarsi all'amore, cominciando in famiglia nell'accogliere le richieste di aiuto, nel rinnegarsi per fare del bene alla sorellina, al fratellino, al papà, alla mamma, nel dedicare più tempo ai figli, alla luce sempre di quella che è la verità sulla famiglia.

E' bene anche che i genitori tengano a mente che i figli non sono loro proprietà, un loro demanio: "mio figlio, mia figlia". Quel "mio" sta ad indicare piuttosto che Dio ha affidato i figli ai genitori: i figli sono dono suo!

Nel giorno del matrimonio, voi coniugi avete giurato di aiutare i figli a sviluppare pienamente le loro risorse, i loro doni, i loro talenti secondo il piano di Dio. Se un domani vi comunicano nell'intimo della comunione familiare di voler dedicare la vita al Signore, non vi è lecito deviarli, fuorviarli;  verreste meno al vostro impegno e pecchereste grandemente contro la verità e l'amore che vuole il vero bene della persona. Quale maggior onore vi potrebbe venire di un figlio che dà veramente gloria a Dio ponendosi totalmente al Suo servizio come ha fatto Gesù?

 

 

 

 

 

FONDAMENTI DI MORALE DOMESTICA

 

Il primo passo per l'educazione e la morale domestica è quello di accostarsi alla Parola di Dio, cosa che la maggior parte di noi cattolici non fa.

La morale domestica è quel modo di pensare, di agire e di vivere in seno alla famiglia.

La prima espressione biblica al riguardo è la sottomissione gli uni agli altri.

Il marito, leggendo superficialmente queste ammonizioni è portato a dire: "Ecco, ho ragione, sono io che devo comandare". Certo, hai ragione, ma la tua ragione si deve configurare in Cristo crocifisso, ossia tu, uomo, devi comportarti come Cristo che é il salvatore della Chiesa, devi cioè morire a te stesso, devi lasciarti mettere in croce dai tuoi figli e da tua moglie.

Ecco cosa per la Bibbia significa essere capo della Chiesa domestica.

Queste parole non fanno presa, perché sono fuori dai discorsi del mondo. Senza Parola di Dio, non c'è educazione all'ascolto interiore dello Spirito Santo. La prima fase, il punto di partenza è quello di ascoltare una pagina del Vangelo.

Il comandamento "Ama il prossimo tuo come te stesso" trova il primo riverbero in chi sta più accanto cioè la moglie, il marito, i figli. Quindi non si può portare aiuto al prossimo che è a tanti chilometri di distanza, se prima non si è imparato ad aiutare i propri familiari.

Come Cristo nutre col Suo corpo e il Suo Sangue, così deve fare il marito con il suo lavoro e il suo martirio quotidiano.

L'educazione da impartire deve essere  amorevole, non impositiva. L'amorevolezza consiste nel manifestare all'esterno con gesti concreti quello che si ha nel cuore, cioè l'amore.

I gesti concreti devono essere conformi alla croce  e non al piacere; dico questo perché il più delle volte la questione dell'amore si appanna con gesti che sono soltanto di piacere, eliminando la testimonianza di croce e di accettazione. Sappiate che i figli ci guardano! I piccoli, in virtù del loro processo di imitazione, si comportano secondo l'esempio appreso. Questo è un metodo pedagogico indiretto. I bimbi ci guardano! Ogni nostro comportamento si riflette, immediatamente, nei loro occhi, nella loro mente e nel loro cuore come in uno specchio.

La prima norma di educazione è quindi "come Cristo fa con la sua Chiesa": i bimbi gioiscono quando i genitori si amano e desiderano anch'essi partecipare di quella gioia. Essi, istintivamente, sentono quando c'è in casa aria di pace e di armonia o quando c'è tensione e ostilità.

I genitori si lamentano se i propri figli non obbediscono, ma se i genitori non obbediscono alle leggi cristiane del Padre che è nei cieli, del quale riflettono la paternità, come possono pretendere l'obbedienza dai figli?

Preghiamo per i nostri figli? Apriamo i tesori del nostro cuore per manifestare nel Signore l'amore per i nostri figli? Da tutto ciò noi siamo lontani anni luce perché non abbiamo imparato a rispettare noi stessi come tempio in cui abita lo Spirito del Signore che non deve essere solo sopra di noi ma anche dentro di noi.

Non un'educazione mondana, ma un'educazione e una disciplina nel Signore è necessaria. Usiamo anche dei buoni mezzi di educazione, che non siano le mani, ma il cuore. Io personalmente ho sperimentato che il far pesare nello spirito il rimprovero di un errore commesso vale più di tante alzate di mano. Ma attenti: non punite ingiustamente e senza aver prima ascoltato lo Spirito di Dio dentro di voi! Se non vi sentite in pace con voi stessi nel rimproverare un vostro figlio, vuol dire che non c'è l'approvazione di Dio, per cui fermatevi!

Concludo, riassumendo i punti che sono emersi fin d'ora:

1. difficoltà che si incontrano nell'educare;

2. impegno nell'applicare il metodo che Dio stesso usa verso di noi, cercando di vincere le proprie negatività e agendo secondo lo Spirito

3. amorevolezza secondo l'insegnamento di San Giovanni Bosco

4. .metodo induttivo indiretto: i figli guardano e traggono le loro conclusioni. Guidiamoli quindi sulla retta via non tanto attraverso lunghi discorsi, grandi scenate, grosse ripicche, quanto con l'esempio, con il nostro modo di essere, con il nostro vissuto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EDUCAZIONE ALLA RESPONSABILITA’

 

Maria e Giuseppe portano al tempio Gesù: il frutto del grembo deve andare al tempio perché il bambino esce da un tempio, il tempio della donna, che deve essere sacro, e deve entrare in un altro tempio, il tempio del Signore. Dove finisce, oggi, il frutto del grembo? Spesso in una bacinella, nella spazzatura, nelle fognature, buttato per strada. Il frutto del grembo non va più nel tempio per dar lode al suo Creatore, ma è orribilmente distrutto. E San Paolo dice: "Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi" (1Cor 3,17). Nell'amore ci vuole responsabilità! Ecco perché, entrando nelle famiglie dovete parlare dei metodi naturali. Occorre applicarsi per apprenderli e per educare i figli e i nipoti. Avere forza e il coraggio di educare i bambini sulla sessualità, perché le stesse cose le apprendono, e male, dagli amici, per le strade, dai mezzi di comunicazione. Voi, mamme e papà, dovete educare i vostri figli alla responsabilità. La presentazione di Gesù al tempio di questo ci parla: condurre i propri figli a Dio con amorevolezza, con comprensione, tornando e ritornando sugli argomenti. E' indiscusso che ciò che rimane nel cuore, anche degli adulti, sono le preghiere insegnate dalla mamma. Anche quelle persone che si sono allontanate da Dio e non vanno in chiesa da venti, trenta anni  ricordano però le preghiere apprese da bambino dalla mamma. Come vedete i primi annunciatori e catechisti sono i genitori, voi mamme in particolare! Le mamme sono al centro di questo cammino, tutti i misteri del Santo Rosario parlano di voi. Non parlano di preti, cardinali e papi, parlano di una Vergine, del Bambino, di una Famiglia Santa, della visita ad un'altra mamma, ad un'altra famiglia. Ogni bimbo che nasce deve andare al tempio del Signore, nella Chiesa di Dio, per lodare e ringraziare il Padre che è nei cieli. Maria e Giuseppe portando Gesù nel tempio, riconoscono che il Padre di questo Bambino è Dio. E noi riconosciamo che i figli sono di Dio e a Dio vanno portati? Dobbiamo cambiare la mentalità secondo cui i figli sono nostri e noi li dobbiamo gestire. I figli sono di Dio, è Lui che ce li dà, è Lui che li fa crescere. Ma noi diciamo che i sacrifici per farli e crescerli sono nostri! Ma questo è e deve essere il nostro impegno, l'uomo e la donna si salvano mediante la paternità e la maternità. Se non vogliamo essere padri e madri, cosa saremo? Degli irresponsabili, dei depravati, degli egoisti! E invece Maria e Giuseppe portano al tempio Gesù, la Luce del mondo, la Vergine saggia e il casto Giuseppe stringono tra le braccia la luce divina che deve illuminare ogni uomo. Così ogni mamma ed ogni papà, accogliendo nei figli l'umanità di Cristo e riconducendo al Padre ogni figlio porteranno salvezza e luce. E questa luce illuminerà i nostri anziani che sono al tramonto della vita come Maria e Giuseppe fecero coi vecchi Simeone e Anna. Gesù, tra le braccia di Maria e Giuseppe splende anche su di loro e parla loro della speranza e salvezza eterna e della gioia di lasciare questo mondo avendo tra le braccia e nel cuore, con il viatico d'Amore, l'Eucaristia, Gesù Cristo nostro Signore.

Che dolcezza abbandonare questo mondo con Gesù nell'anima, abbandonati nel bacio del Signore e illuminati dalla Sua Presenza. "Ora lascia, o Signore che il tuo servo vada in pace, secondo la Tua Parola", diremo insieme al vecchio Simeone! Dunque la Presentazione al tempio ci parla della Luce venuta nel mondo, Gesù Cristo, che illumina la vita d'ogni uomo dal suo nascere fino al suo tramonto, alla sua Pasqua: il passaggio alla vita eterna. Ed è il significato che ha quella candela che abbiamo acceso dal cero pasquale il 2 febbraio, giorno della candelora in cui si festeggia la Presentazione di Gesù al Tempio. Siamo stati riscattati non con le due colombe che presentarono i poveri Giuseppe e Maria. Siamo stati riscattati dal Sangue dell'Agnello per essere tempio consacrato a Dio e la nostra vita da Lui viene e a Lui deve ritornare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA DIGNITA’ DELLA DONNA OGGI

 

Parlare oggi della dignità della donna significa constatare che essa non è ancora giunta a quella dignità che l'umanità tutta, maschile e femminile, dovrebbe avere. Tuttavia è necessario parlarne proprio per recuperare la pienezza della sua dignità. Tutti, chi più chi meno, abbiamo da camminare in questa direzione nel senso cioè di una revisione di mentalità e comportamento. Da dove viene questo retaggio antico di mancanza di dignità della donna? Da una cultura e da un modello di vita improntato piuttosto sulla attività maschile: l’uomo che lavora, l’uomo che fa la guerra, l’uomo che dirige la società. Tutto questo ha creato la mentalità della debolezza della donna dal punto di vista fisico ripercuotendosi poi anche sul piano morale; una specie di soggezione della donna all’uomo.

Si sono sentite e si sentono tutt’ora  espressioni come: “la donna è un uomo mancato”, per dirla con Aristotele o addirittura con qualche padre della Chiesa. E ancora “auguri e figli maschi”, quasi che una donna sia una sciagura.

Gli Ebrei tutti i giorni fanno questa preghiera: “Ti ringrazio o mio Signore perché non mi hai fatto né gentile o pagano e nemmeno donna”, e alla donna non resta che dire “Ti ringrazio Signore perché mi dai la forza di fare la volontà tua”.

Nel Medioevo non potevano testimoniare né donne, né bambini, né dementi. La presenza femminile nella società era paragonata a quella dei bambini e dei dementi! Ciò fa rabbrividire ai nostri giorni pur se, paradossalmente, ancora oggi troviamo situazioni che rispecchiano questa mentalità.

Il femminismo ha impegnato tempo e persone contro quella che veniva chiamata la dittatura del maschilismo; ma in maniera rivoluzionaria. Non è su questo piano che dobbiamo impostare le nostre relazioni. Dobbiamo invece considerare la rivoluzione che è in atto nel cuore dell’umanità e che porta ad una meravigliosa realtà: il riconoscimento della dignità della donna come punto d’arrivo di una cultura che cresce, di una umanità adulta. Se leggiamo il capitolo primo della Genesi, vediamo come l’uomo e la donna sono posti da Dio in egual misura di dignità. Purtroppo però perdura ancora una mentalità di inferiorità della donna. Solo recentemente grazie al documento del Papa “Mulieris Dignitatem”, che invito tutti quanti a studiare e meditare, è stata ribadita l’eguale dignità dell’uomo e della donna su ogni piano, morale, etico e religioso. Ogni uomo ed ogni donna sono umanità, sono l’umanità; sono persone che rispecchiano in modo diverso i doni di Dio. In modo diverso, non differente. Il passo suddetto della Genesi dichiara che l’uomo e la donna sono fatti singolarmente a immagine e somiglianza di Dio. Su questo sono d’accordo tutti i Padri della Chiesa. E se questi ultimi accolgono una certa sudditanza della donna nei confronti dell’uomo lo fanno solo accogliendola come un ordine naturale stabilito da Dio. Nel senso che occorre un capo, uno che diriga. Uno dà e l’altra riceve, ma non passivamente; riceve per poi arricchire a sua volta l’altro. E’ il caso della maternità, per esempio.

La donna non è povertà dell’uomo ma ricchezza dell’uomo. E in un certo senso, nella misura in cui l’uomo scopre il valore e la dignità della donna, scopre e arricchisce se stesso, il valore della sua stessa dignità. L’uomo senza la donna non può essere dignitoso.

Nel capitolo secondo della Genesi leggiamo poi che l’uomo cerca subito in tutto il creato un’amica, un amico. Non lo trova tra le bestie. Quindi l’uomo non si riscopre una bestia e non trova complemento nella bestialità; ha bisogno di qualcuno che scaturisca dal suo stesso genere, che sia come lui. La donna creata dalla costola di Adamo appartiene intimamente all’uomo.

L’uomo e la donna si sentiranno sempre soli e a disagio qualora non vivano insieme questa comunione d’amore.

La dignità della donna viene quindi misurata dall’ordine dell’amore, rispecchia l’amore e il Cuore stesso di Dio.

L’uomo però riconosce la dignità della donna, la riconosce amica, sua costola, osso delle sue ossa, solo quando prende coscienza del suo peccato.

Infatti nella Genesi leggiamo che a causa del peccato originale la donna sarà sottomessa all’uomo, il quale la dominerà.

Ma in una umanità in grazia di Dio, nell’umanità del nuovo testamento, in una umanità che si colloca sotto il segno dell’amore del Signore il peccato viene distrutto dalla grazia redentiva di Gesù Cristo. In questa umanità non vi è più distinzione tra uomo e donna, come dice San Paolo nella lettera ai Galati.

Cristo si addormenta sulla croce, dopo essere stato ucciso come peccatore, dopo aver pagato il peccato e al suo risveglio nasce dal suo Costato la nuova Eva, la nuova donna. E’ dunque dal riconoscimento del nostro peccato che nasce la nuova donna che si confà all’immagine di Maria con lo spirito unificante di cui Ella è piena.

Quindi ogni donna che si fa portatrice di vita nuova aiuta a risorgere ed ogni uomo che muore al peccato e si risveglia in Cristo, riconosce la donna, la riconosce come la sposa di pari dignità.

Riflettendo sulla creazione della donna dalla costola di Adamo, sono spinto a pensare che, mentre l’uomo è creato dalla polvere (e cioè da qualcosa di informe), la donna parte già da una condizione di perfezione.

La donna è un passo che va al di là dell’uomo, un ulteriore passo nella creazione. Ecco perché troviamo una donna all’origine e una donna alla fine, la donna vestita di sole di cui parla l’Apocalisse nel capitolo 12.

Maria vestita di sole è il segno dell’escatologia dei tempi finali, della pienezza dei tempi, come dice San Paolo ai Galati (4,4-6)

Il segno della pienezza dei tempi è un’umanità, maschile e femminile, che guarda alla donna come mezzo di salvezza, guarda alla donna come punto di sviluppo massimo. I segni dei tempi finali sono consegnati alla donna. Prima della Sua venuta l’umanità è affidata a Maria e, in Maria, a tutte le donne.

Questa è la nostra Opera. Quindi l’Opera di Maria Vergine e Madre si deve collocare come un segno dei tempi, come una lampada che illumina il mondo, in particolare le famiglie.

La giusta valutazione della dignità della donna è dunque un punto di arrivo.

Adamo dorme, Eva è tratta dalla costola: l’umanità maschile al suo risveglio, al risveglio dalle guerre, dalle violenze e dai  soprusi, vedrà una donna di fronte, una madre, una vergine, una Vergine Madre.

Quando Adamo si risveglierà dal suo sonno troverà una donna di fronte che gli indicherà il cammino dell’Amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL SIGNIFICATO AUTENTICO DELLA SOTTOMISSIONE DELLA MOGLIE AL MARITO: 1 Pt 3,1-2 e Col 3,18

 

1Pt 3,1-2

 

“Ugualmente voi, mogli, siate sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano conquistati dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, considerando la vostra condotta casta e rispettosa”.

 

Una condotta casta, rispettosa e fedele coinvolge il marito! Voi forse direte: ma come fare con quei mariti che abbandonano moglie e figli senza dare alcun sostentamento né economico né affettivo? E’ vero: se non si ha una visione soprannaturale del matrimonio e il rispetto della fedeltà al sacramento, diventa difficile accettare certe situazioni e tutto diventa un “occhio per occhio dente per dente”, mandando a monte ogni responsabilità.

Questa società ha bisogno oggi di santi, di martiri, di testimonianze forti che spingano ad allontanarsi da una visione della vita che punta solo sul benessere materiale e ad abbracciare  invece una soprannaturale, in cui l'esistenza è vissuta come dono di sé fino alla croce, per una vita senza fine.

Quando si parla di famiglia si parla dell’origine della società, del primo nucleo sociale. Questo nucleo per quanto fondato sul diritto, nasce fondamentalmente da un atto d’amore, da volontà innamorate l’una dell’altra e decise a servirsi reciprocamente. Se questa donazione non è basata su di una roccia eterna, dopo aver bruciato tutte le esperienze di incontro l’amore si esaurisce ed in questi casi diventa impossibile anche intervenire su una coppia perché manca la base soprannaturale del matrimonio, che è la grazia di Dio.

La forza della sottomissione che la moglie deve avere nei confronti del marito è data dalla grazia di Dio, dalla fede, dall’amore in Cristo.

Laddove questo manchi si punta a salvare “la facciata sociale”, come succede in certe èlite che praticano l'adulterio per poi vivere l’intimità familiare tra il gelo e il vuoto.

La sottomissione di cui parla San Pietro non è stupidità né schiavitù, ma è forza che utilizza le risorse della femminilità che Dio ha messo nelle mani della donna (dolcezza, mansuetudine, delicatezza) per costruire e fare il bene a servizio del bene. Prerogative non di un femminismo ma di una femminilità che è garbo, tatto, sensibilità, apertura d’animo, generosità; che sa adeguarsi, rispondere e corrispondere. Sono queste le caratteristiche a cui nessuna donna deve rinunciare perché sono proprio queste le armi  con cui si vincono l’alterigia, la forza,  la prepotenza che a volte inficiano il carattere maschile.

Maria è il modello esemplare, la donna che si mette a servizio e serve Dio e i fratelli con tutta la dolcezza, la pienezza, la bontà della sua femminilità; che ha fatto innamorare di sé Dio stesso, il Forte per eccellenza, l’Onnipotente.

“Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente perché ha guardato all’umiltà della sua serva” disse Maria. E’ così che va intesa la sottomissione, da intendersi quindi non come sconfitta ma signoria. Donna significa "domina", signora che signoreggia il cuore del marito, dei figli e della casa con la sua bontà e dà successo alle sue opere con una forte prerogativa e carica d’amore.

“Il vostro ornamento non sia quello esteriore –capelli intrecciati, collane d’oro, sfoggio di vestiti-; cercate piuttosto di adornare l’interno del vostro cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio.” (1Pt 3,3-4).

La donna, secondo il modello consumistico dei nostri tempi, pensa di far colpo con l’esteriorità. Così spesso le spose anziché ricorrere al Santo Rosario, alla preghiera, alle virtù per incatenare nell’amore il marito, credono di poter conquistare qualcosa recuperando le antiche bellezze con maquillage e pelli stirate.

Non è sull’apparire ma sull’essere che dobbiamo conquistare un genuino rapporto d’amore. A cosa serve puntare sulla bellezza esteriore se poi, saggiando l’interno, persino il marito resta avvelenato scoprendo dietro un viso d’angelo un cuore chiuso?

La donna deve servire nell’umiltà, nella pace; deve armarsi di virtù, deve arricchirsi interiormente di tutte le grazie di Dio, senza malizie perché l’uomo “sia conquistato dalla condotta della moglie”: di donne, infatti, se ne possono trovare tante, ma la moglie, la sposa, la madre è una sola.

L’uomo, agitato dalle passioni, va cercando il riposo e la pace nel cuore della donna. Se la donna però conduce una vita stressata perché, per il desiderio di emanciparsi, è presa da attività manageriali, come e dove può l’uomo riposare? Non si condanna con questo l’emancipazione della donna, ma il rinnegamento della famiglia diventa peccato contro natura. Se per inseguire una pseudoemancipazione lavorativa la donna rinnega la sua maternità e la sua sponsalità, i compiti più grandi a lei affidati rischia il fallimento prima  di tutto verso il marito e i figli.

E’ bello sentire che dive famose, donne manager, si sono ritirate quando hanno visto che prevaleva la loro attività manageriale sugli interessi di famiglia: hanno fatto una scelta di valori che ha destato scalpore: hanno optato per i valori veri, autentici, che danno loro salvezza, pace, gioia e che al momento della morte, diventeranno motivo di elogio e non di rimprovero.

Nella preparazione dei giovani al matrimonio occorre fare questi discorsi basati sui valori della famiglia, fondandosi sulla Parola di Dio. Spesso anche da parte dei consultori cristiani si tralascia la Parola di Dio, ponendo attenzione sugli impegni e sui ruoli che una donna può assumere e cercando così parità di ruoli piuttosto che di dignità. Con questo non voglio dire che la donna deve solo partorire, ma su questo ruolo naturale si fonda un’etica, una verità su tutta una realtà di valori, che  all’uomo sono naturalmente preclusi,  ma che la donna può infondere, attraverso lo spirito, nell'animo dell’uomo con la sua maternità, con le sue attenzioni ed intuizioni, con la sua delicatezza e femminilità.

Il canale di questa "trasmigrazione" di valori tra mascolinità e femminilità non è il livello sessuale, ma quello spirituale. E’ a questo livello che l’uomo e la donna si completano e si arricchiscono a vicenda, è lì che la psicologia della donna si rinforza stando con l’uomo mentre quella maschile si ingentilisce con la donna.

La famiglia deve così essere sostenuta con leggi che ne garantiscano la naturale funzionalità e favoriscano la genuina vocazione della donna alla maternità.

 

 

 

 

 

 

 

 

Col 3,18

 

"Voi, mogli,state sottomesse ai mariti come si conviene

nel Signore “

 

La sottomissione nel Signore non è una sottomissione dispotica, né fa sentire la donna umiliata perché deve stare sottomessa. E' una questione di ricezione, di interscambio, di accoglienza. Sottomessa, "messa-sotto", non perché oggettivizzata o calpestata, ma perché deve essere protetta, come da una tenda, perché realtà fragile e preziosa, umile e grandiosa. Le antiche tradizioni contadine, come certe saghe oggigiorno, assimilavano la donna alla terra che la pioggia feconda. D'altro canto questa sottomissione dà un significato anche alla vita dell'uomo perché se non c'è questa sottomissione, la vita dell'uomo perde nella sua valenza psico-fisica del dare sostegno, aiuto, protezione come Gesù fa con la sua sposa: la Chiesa. Se la donna, per sua natura fisica, rivela fragilità e delicatezza, non da meno la sua struttura psichica manifesta una più grande sensibilità e dunque vulnerabilità. Quando la donna mostra autonomia, racchiude in sé una più grande instabilità.

Tali assiomi, che trovano fondamento teologico anche nelle pagine sacre, sono evidenziati anche da recenti sondaggi: se una persona non è sottomessa significa che non ha bisogno di niente, neanche dell'amore; se la vede per conto suo e campa per conto suo (single) e noi sappiamo bene cosa dice la Scrittura a proposito: "Guai a chi è solo: se cade non ha nessuno che lo rialzi" (Qo 4,10).

Oggi assistiamo spesso, in nome di un esasperato femminismo, alla ribellione di donne che scambiano i contenuti della diversità con quelli della differenziazione. Uguale dignità non significa per la donna comportarsi da maschio, ma far emergere la pienezza della propria femminilità in risposta all'urgente bisogno dell'uomo di ricercare e trovare valori.

Quando la donna si ribella, certamente spinge l'uomo a non cercarla più quale partner della propria vita ma ad entrare in competizione e questa storia della competizione porta molto lontano, sino ai tribunali. Si assiste pure ad un paradosso: più si fanno leggi per porre la donna in condizioni di parità con l'uomo e più la si affossa in una solitudine, in uno sfruttamento eccezionale, perché le leggi emanate sono spesso rivolte a liberare la donna da ciò che invece la nobilita, come la maternità, la fedeltà coniugale, mentre il look di una fortunosa avventura si profila dietro la menzogna di un'eterna giovinezza! L'oggettivazione diviene sempre più incalzante perché il consumismo richiede sempre di più, mentre le esigenze di amore e sacrificio sono disattese. Alla donna del cap. 12 dell'Apocalisse si contrappone quella del cap. 17 che, sfrontata, cavalca la bestia. La missione della donna è proprio quella di ricevere e donare la vita, la fecondità, l'affetto, l'amore che a sua volta ridistribuisce su tutta quanta la casa, sul marito, sui figli. Allora si comprende che la forza della donna che ammansisce la "vis" dell'uomo risiede proprio nella sua femminilità pur debole, fragile, fatta di cuore, che rese coraggiose donne come S. Lucia, S. Agata, sino a Madre Teresa, sulla scia di Maria S.S.

"Voi, mogli, state sottomesse ai mariti come si conviene nel Signore", perché la sottomissione è nell'ordine del Signore ed è felice, gioiosa, amorevole, instancabile; esaudisce, appaga, stabilisce, remunera.

In Inghilterra sono gli uomini adesso a trovarsi in minoranza, diciamo, dal punto di vista legislativo, di fronte alla donna; la donna ha superato, come diritti, quelli dell'uomo (del marito, in seno alla famiglia), tanto che sono sorte delle associazioni per la salvaguardia dei diritti dei papà e dei mariti.

Una esasperata legislazione di tipo autonomistico sulla donna "single" si riversa altresì sull'uomo, a tal punto che alcuni, inibiti dall'impossibilità di accedere all'ambito femminile, risultano affetti da certe sintomatologie "devianti".

Voi dite che si tratta di casi estremi, ma si dice "col tempo e con la paglia, maturano le nespole" e alcune "primizie" sono già nel paniere!

La sottomissione nel Signore non è una sottomissione pagana, ma è rispettosa, dignitosa, arricchente. La donna si arricchisce della forza dell'uomo e l'uomo si arricchisce della sottomissione della donna, sentendosi spinto all'impegno protettivo, curativo, di responsabilità nei riguardi della famiglia, della moglie, dei deboli, della vita. Oggi più che mai si richiede all'uomo la sua dimensione ministeriale nei confronti della donna ed invece assistiamo ancora alla latitanza della paternità, poiché la donna ha spostato l'assiologia dei valori dall'essere all'apparire e l'uomo spesso non pensa più nemmeno alla propria prole, alla propria donna, ma corre dietro alle nuove possibilità, lasciando la propria donna alla protezione e alla sottomissione vicaria delle leggi dello Stato.

"Dove sei, Adamo?". "Mi sono nascosto". "Dove sei Eva?". "Mi sono nascosta". Si sono separati: è la separazione! E perché? Il serpente aveva suggerito al cuore della donna, della prima Eva, "sarete come Dio", l'ambizione cioè di prevalere, di liberarsi da quella sottomissione psicologica, affettiva, religiosa, in cui è stata calata, insieme con il marito, nei confronti di Dio.

Il vicendevole "ministerio", che è servizio d'amore, si pone dunque quale attuazione del rapporto inscritto e voluto da Dio tra l'uomo e la donna, per cui è chiaro che la sottomissione della moglie al marito non deve trasformarsi in un'azione di repressione, come ad impedire alla donna di fare la donna, alla moglie di fare la moglie, alla figlia di fare la figlia. L'inasprimento è una superlativa, esasperante, forte protezione che nasce anche dalla mancanza di fiducia in Dio, come quando una mamma ha un amore iperprotettivo verso i figli. Ci vuole un sano equilibrio che ci viene dato nel Signore mediante la grazia sacramentale, la preghiera, la meditazione ed un pizzico di buon senso che non guasta mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL “SEGNO DELLA DONNA”

(12,1-18)

 

E’ uno dei segni escatologici finali. Non è un segno che riguarda solo Maria S.S. o la Chiesa, ma è anche il segno della donna in sé: la donna, cioè, deve diventare segno della fine alla fine dei tempi. In questi nostri giorni e verso gli ultimi tempi la donna acquisterà sempre più un ruolo decisivo e importante nella costruzione e nella salvezza dell’umanità.

Il segno che appare è GRANDIOSO e questa donna non è solo un segno di terra, ma anche di cielo, perché in Maria la donna, quale figlia di Dio, diventa la Nuova Eva e garanzia di maternità, il cui riverbero è presente in Dio. Infatti Dio ha creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza e la componente maschile e femminile dell’uomo trova in Dio l’unità, la comunione; in Dio c’è il riverbero della paternità e maternità.

Questo è stato messo in risalto da poco, con Giovanni Paolo I, ed ha anche suscitato scalpore. Nel libro di Isaia è scritto: sono stato per voi come una madre.

La donna che appare è RIVESTITA DI SOLE, cioè della grazia di Dio, di verità, di luce; rivestita, direi, di Dio stesso. Non deve quindi puntare sull’apparire ma sull’essere. E, come dice San Paolo, non deve manifestare tanto una esteriorità, con trecce e sfarzosità (cfr 1Tm 2,9-10), ma deve mostrare virtù a cominciare dalla pazienza, dalla bontà, dalla benevolenza, dall’amore, dalla riservatezza; deve maturare un carattere mite, pacato, capace di accoglienza, di conforto per l’umanità maschile e femminile che viene affidata alla donna. Questa donna rivestita di sole è Maria: "Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te". Di fronte a questo saluto angelico ogni donna deve sentirsi salutata se partecipa con Maria della grazia di nostro Signore Gesù Cristo. E qualora non lo fosse, in virtù della grazia di Maria stessa e della grazia che ci dona Gesù nei sacramenti, ogni donna può acquistare questa beatitudine e quest’ingresso nella grazia che è Maria Santissima.

Alla donna si richiede un carattere luminoso e non tenebroso, che si rivesta di chiarezza e di trasparenza. Un carattere intonato alla verità e non alla menzogna, né con se stessa né con il prossimo; né tantomeno deve vivere quel contrasto menzognero tra l’apparire e l’essere: apparire per esempio un angelo, e nascondere un cuore viperino pieno di rancore e odio. La trasparenza e la luminosità della donna vestita di sole sono una partecipazione allo stesso carattere di nostro Signore.

Oggi più che mai chi vuole partecipare del segno della vittoria di Cristo deve partecipare a questa grazia che parte da Cristo e che deve investire ciascuno di noi, ma in modo particolare ogni donna, ogni madre, ogni vergine, ogni sposa.

HA LA LUNA SOTTO I PIEDI: schiaccia la caducità delle cose di questo mondo, tutto ciò che è volubile e cambia.

Vi è una relazione stretta tra la donna e la luna: la donna in effetti è molto più instabile dell’uomo.

La Madonna calpesta questi cambiamenti e invita la donna a reagire, a calpestare, a non assecondare, a tenere a freno la lunacità, la volubilità perché questa è segno di negatività.

Oggi sono apparse tante malattie nervose, soprattutto tra le donne, perché ci si abbandona a questa volubilità, e tali sono i cambiamenti psicologici che avvengono nella persona che si arriva alla nevrosi e alla schizofrenia.

Maria ci invita ad abbandonare ogni atteggiamento contraddittorio, ogni desiderio di voler essere sempre qualcosa di diverso e di nuovo. Anche la moda è un correre dietro ai cambiamenti. Occorre un dosaggio di buona volontà per raggiungere una maggiore stabilità psicologica.

Il legame che favorisce il vero amore non è quello basato sulle apparenze, ma è la luminosità della grazia che ha fatto sì che Dio, l’Onnipotente, si innamorasse di un’umile fanciulla di uno sperduto paese d’Oriente. Cosa aveva di bello, di grande questa donna se non la capacità, al contrario di Eva, di accogliere la Parola del Signore, di fare la volontà di Dio?

Se il cuore della donna non è illuminato dalla grazia di Gesù ci si comporta come Eva. La donna in Maria ha una chiara visione della fine, della morte e sa cioè che le cose cambiano e sono destinate a perire: oro, argento, denaro, bellezza, tutto passa. Sa che anche il dolore, i figli, il marito non sono un assoluto. Ha la consapevolezza della caducità delle cose, non disprezza, ma impara ad usarle solo per quello che servono, senza attaccamenti. E’ una donna che guarda al Regno: "venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà". Apre il suo cuore, all’eternità ed insegna ai suoi figli questi valori.

SUL CAPO HA UNA CORONA DI DODICI STELLE, cioè i 12 Apostoli, le 12 tribù di Israele, la Chiesa: questi le fanno da corona.

Una donna che è regina. Si richiede quindi alla donna che, in Maria, diventi centro, punto di riferimento di quell’azione apostolica che la Chiesa va esplicando per il rinnovamento della società. Ogni donna in Maria deve essere come Lei regina degli apostoli, ossia, con la preghiera, con la presenza, con la dolcezza, con la volontà, con il bell’esempio, con la luminosità e la verità, e perché no, con la femminilità, deve sollecitare promuovere, curare, come fa la Madonna dal cielo, ogni azione apostolica.

Essere il fiato, la fiamma, l’amore, la gioia degli apostoli. Non a caso patrona delle missioni è Santa Teresina del Bambin Gesù che, pur essendo sempre vissuta nel  monastero di Lisieux, curò tanto le missioni con la preghiera, avvicinando i missionari e gli apostoli di quei tempi e guardando dal cielo gli apostoli dei nostri tempi.

LA DONNA E’ INCINTA: un segno escatologico degli ultimi tempi è la donna che partorisce. La maternità è dunque un segno ambivalente di fronte al quale si deve fare una scelta: o a favore o contro la vita, o a favore o contro la donna. Pur non potendo certamente salvarsi da sé, la donna diventa un segno di scelta per l’umanità. La maternità è anche un segno di continuità e dunque di salvezza per l’umanità perché genera creature per il futuro.

LA DONNA GRIDAVA PER LE DOGLIE E IL TRAVAGLIO DEL PARTO: non si dà paternità e maternità senza sofferenza, senza disagio, sia da parte di chi reca in sé la vita sia di chi l’accoglie e la promuove.

E’ un partorire con dolore come il Cristo che sulla croce dal costato partorisce la Chiesa, la Nuova Eva.

Nel cielo APPARE UN ALTRO SEGNO, UN DRAGO ROSSO che si pone davanti alla donna per divorare il bambino appena nato. E’ il diavolo, l’antico serpente che vuole divorare la vita così come voleva fare Erode con Gesù Bambino.

In fondo l’aborto è un sacrificio offerto a satana! Certo lui non si impossessa di quelle povere anime innocenti che, al contrario, appartengono alla schiera dei martiri di Dio, ma certo prende potere sulla società omicida.

La donna e il figlio furono messi al sicuro mentre si scatena la guerra tra i figli di Dio e i figli della bestia, così come era stato preannunciato nella Genesi: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua e questa ti schiaccerà la testa” (3,15). Per questo una vergine consacrata è l’oltraggio peggiore che si può fare al demonio perché, irridendo il piacere offerto ad Eva dalla concupiscenza del peccato, essa non aderisce alla tentazione e non cede alla immoralità con il rifiuto della vita. Non si vuole in questo modo sminuire il matrimonio, perché questa unione è sacramentale e in essa viene vissuta la maternità ed è possibile anche vivere la castità, come responsabilità e rispetto dei ritmi d’attesa.

La vergine che diventa madre nello spirito di numerose genti e la madre che diventa vergine nello spirito, gridano al mondo con la loro vita l’Amore e il loro sposalizio con Cristo, Sposo delle anime; testimoniano a tutti la verità: Dio è il vero Sposo a cui siamo legati con patto nuziale nel Sangue.

Nella guerra che si scatena tra Michele con i suoi Angeli ed il drago, il diavolo viene sconfitto e precipitato sulla terra, dove evidentemente viene invocato! In questo capitolo dell’Apocalisse leggiamo che “gli resta poco tempo”. Quanto sia questo poco non sappiamo: dinanzi a Dio un giorno vale mille anni. Ma certo è che il segno degli ultimi tempi è la donna incinta. Sappiamo quale guerra si sta scatenando intorno alla vita e alla donna che partorisce. Noi dell’Opera di Maria Vergine e Madre, che proteggiamo e accogliamo la vita, siamo testimoni di questa lotta.

Non meravigliamoci dunque delle persecuzioni che infuriano, non temiamo nulla.

In questa guerra furono date alla donna due ali d’aquila per volare nel deserto. Non sono queste due ali la verginità e la maternità? Queste sollevano, redimono, salvano, santificano la donna!

Le acque che il drago vomita dietro alla donna sono quello spirito di cattiveria, di vanagloria, di superbia, di maschilismo che contaminano la femminilità e la allontanano dai disegni che il Padre ha fatto su di lei.