“Chi non Perdona rompe il ponte su cui egli stesso deve passare”

 

 
 

 

 

 


La vendetta potrà anche essere dolce, ma il perdono alla lunga è molto meglio. Se ne sta accorgendo anche la scienza, che dedica sempre più studi ai benefici psicologici e fisici che si innescano quando si smette di provare risentimento, rancore, rabbia, sostituendoli invece con sentimenti positivi.

Perdonare, arrivando ad augurarsi il bene di chi ci ha fatto soffrire è un balsamo non solo per l'anima ma anche per il corpo. Ne è convinta la nuova "scienza del perdono". Nell’ Università del Wisconsin i ricercatori hanno ammassato una discreta mole di dati sugli effetti terapeutici di quella che finora è stata considerata più che altro come una virtù insegnata dalla religione.
Per chi ha subito un vero e proprio trauma - compresi casi estremi come la violenza fisica, l'assassinio di un familiare, le mutilazioni dei conflitti etnici - pensare di andare oltre, superare il dolore augurandosi la felicità del proprio aguzzino, può suonare improbabile o essere vissuto come una provocazione. Eppure, sostengono gli scienziati, è questa la chiave per diminuire il rischio di sviluppare malattie cardiache e disturbi mentali scatenati dal ricordo ossessivo di cosa ci ha fatto male. Sempre gli scienziati ritengono che il perdono è qualcosa che si può imparare allenandosi: ci sono corsi specifici, in cui si comincia a stare meglio anche dopo poche sedute (Luther University di Decorah, in Iowa).
Gli scatti d'ira aumentano il rischio di aritmie, attacchi cardiaci e causano un aumento della pressione sanguigna, spiega al Los Angeles Times il dottor Douglas Russell, cardiologo, che in uno studio del 2003 ha documentato come dopo sole 10 ore di "corso di perdono" le funzionalità coronariche dei pazienti già migliorassero.

"Il rancore, la ruminazione mentale è uno degli aspetti chiave in questo tipo di disturbi" chiarisce Stefano Pallanti, neuropsichiatria e direttore dell'Istituto di neuroscienze dell'Università di Firenze. "Ora ci si sta occupando sempre di più di questo aspetto. L'obiettivo è rompere questo meccanismo, spesso autodistruttivo, sia intervenendo con un approccio psicologico che farmacologico". Si può quindi imparare a guarire; l'importante è "partire dalla consapevolezza che c'è un problema di fondo e affrontarlo. Altrimenti, l'allenamento in sé vale poco", conclude Pallanti.

Il campo è in evoluzione ed ha suscitato molto entusiasmo; qualcuno fa anche notare che se il perdono arriva troppo facilmente, potrebbe nascondere ben altro, come un senso di colpa che porta la vittima ad assolvere gli altri prendendo su di sé la responsabilità di una violenza: atteggiamento tutt'altro che terapeutico.

Chiunque sia stato vittima di qualcosa (crimini, incidenti, abusi, tradimenti e così via) si trova prima o poi a chiedersi se concedere o meno il perdono. Il perdono infatti è un mezzo attraverso il quale una persona, offesa da un torto subito, cessa di provare risentimento e ostilità verso un'altra persona, che ha perpetrato il torto. Perdonare infatti molto spesso produce una sensazione di sollievo, annullando quella tensione e quel legame esclusivo che lega vittima e offensore e che li rende parte separata del contesto sociale. Il perdono può essere concesso, anche se non è stato richiesto e può riguardare anche persone che non si incontrano più nella propria vita, anche perché potrebbero essere decedute.

Sono state le religioni ad insegnare per prime la pratica del perdono, sull’esempio del perdono che Dio (o chi per lui) riserva agli esseri umani. Anche Freud aveva affrontato l’argomento, mostrandosi anch’egli contrario al perdono.
Lo riteneva infatti “una pretesa assurda e incomprensibile, dannosa per la salute psichica dell’individuo, perché avrebbe fatto toccare il limite di sopportazione dell’Io rispetto alle pressioni pulsionali interne, producendo o una rivolta o la nevrosi” (Freud S., Il disagio della civiltà). Perdonare, secondo il padre della psicoanalisi, può aver senso solo in due casi: come prova di sottomissione alla legge del più forte, in modo da lenire la sua aggressività, o come accettazione del predominio del SuperIo, per ricavarne una soddisfazione narcisistica nel ritenersi superiori agli altri.Oggi la moderna psicologia la pensa diversamente da Freud perché si è visto che nella pratica clinica, una terapia riuscita spesso porta il paziente a perdonare le offese ricevute. Questo atto, producendo una diminuzione di amarezza e risentimento, ha un effetto di liberazione, perché è capace di eliminare o attenuare i sentimenti di rabbia, di vendetta, di vergogna e di risentimento, liberando delle energie, che possono essere dunque meglio spese su altri fronti.

Perché ci sia vero perdono devono essere coinvolti tutti i sistemi: cognitivo, emotivo e comportamentale. Dal punto di vista cognitivo ed emotivo, il perdono richiede tempo: infatti può avvenire solo dopo che vi sia stato un processo mentale capace di far tacere il risentimento, la rabbia, il desiderio di vendetta o di punizione della persona che ha perpetrato l’offesa. Il gesto del perdono è solo l’ultimo atto che riguarda questo lungo processo.

Il perdono richiede dunque un grande sforzo, emotivo ed intellettuale e non dovrebbe dunque essere confuso con la timidezza o la debolezza morale. Chi perdona non è chi non vuole assumersi la responsabilità di punire, correggere, non è chi vuole necessariamente chiudere un occhio sulla realtà che lo fa soffrire, lasciando correre e guardando oltre: perdonare non significa cercare di dimenticare l’offesa ricevuta, ma solo fare in modo che essa, pur permanendosi nel ricordo, non provochi più dolore. La dimenticanza infatti non equivale al perdono.

Il perdono implica la propria liberazione da un nemico interno, costituito dall’odio. L’odio, come l’amore, è un sentimento molto forte, che può legare indissolubilmente ad una persona e che dunque fa sì che l’offensore sia sempre nei pensieri dell’offeso, nei suoi ricordi, nei suoi progetti. L’odio crea una dipendenza. Per questo, dal punto di vista psicologico, il perdono viene considerato un valido strumento terapeutico: permette di lenire la sofferenza, di riguadagnare la fiducia in sé stessi, e spesso di ristabilire relazioni interrotte fra due persone, attraverso una rinegoziazione delle regole del rapporto.

Il perdono tuttavia non implica la riconciliazione: vi possono essere valide ragioni per scegliere di non vedere più il proprio offensore (che tra l’altro potrebbe anche non essere più in vita), sebbene si sia concesso il perdono. Al contrario, non può esservi una vera riconciliazione senza perdono.

Dal punto di vista etimologico perdonare significa concedere un dono. Non sono molte le persone predisposte all’atto di donare, ed anche se dal punto di vista etico o religioso si può essere d’accordo sul principio, metterlo in pratica è tutt’altra cosa.

Un atto offensivo subito ingiustamente del resto suscita nella vittima una sofferenza psicologica, che si esprime poi in reazioni di tipo aggressivo, etero o auto-dirette. L’aggressività nei confronti dell’offensore può esprimersi nella rabbia, nel desiderio di vendetta o di punizione dell’altro, mentre l’autoaggressività si riscontra nei sensi di insicurezza di sé e di vergogna per l’umiliazione subita, nelle costanti ruminazioni del pensiero relative al ricordo dell’offesa.

Il desiderio di giustizia potrebbe essere una razionalizzazione, un modo per canalizzare le proprie emozioni verso consolazioni più socialmente accettate, ma esso non implica automaticamente il perdono.

Per perdonare occorre sapersi spogliare dei propri panni e sapersi mettere in quelli dell’offensore, cercando di vivere e reinterpretare la realtà guardandola da un’altra prospettiva, giustificando e comprendendo quelle che possono essere state le motivazioni o le pulsioni delle quali possa essere stato, a sua volta, vittima chi ha offeso.

Quando si riceve un’offesa per prima cosa si sperimenta uno stato generale di smarrimento, di perdita momentanea dell’equilibrio, anche a causa dell’effetto-sorpresa e della mancanza di adeguate strategie difensive. Questo è ancor più vero quando fra vittima e offensore c’è un legame profondo di affetto o di amore, come può avvenire fra parenti, coniugi, amici o affini. Dal momento in cui si riceve l’offesa viene messo in crisi tutto un sistema di attribuzioni e di aspettative riguardo ad una certa persona, il tutto abbinato ad emozioni fortemente negative e distruttive, difficili da contenere, come accade quando si sperimentano dolore, rabbia, delusione, depressione, vergogna. La vergogna soprattutto è ciò che influisce particolarmente nella stima di sé stessi: - “come ho fatto a lasciarmi ingannare dalla persona che amo?”; “Come ho fatto ad essere così debole e stupido di fronte agli inganni del mio amico?”
A volte si reagisce cercando di colmare tutti i vuoti di attenzione che si ritiene di aver avuto nei confronti della persona che ci ha offeso. Questa ricerca e considerazione ossessiva dei dettagli che hanno reso possibile l’offesa può portare ad accrescere ulteriormente la diffidenza ed il sospetto verso l’altro, rinforzando i pensieri negativi e rimuginativi.

Del resto, cercare di comprendere è sicuramente necessario, anche per considerare in senso empatico i fattori esterni che possono aver contribuito a creare le condizioni del gesto offensivo, valutando anche eventuali possibili responsabilità nell’aver determinato nell’altro la volontà offensiva. Pur nella asimmetria delle responsabilità, spesso il rendersi conto che in una relazione tutti possono fare errori, avere colpe o essere causa di mancanze, può essere un fattore facilitante nella comunicazione.

Ammettere i propri errori, se ce ne sono, può facilitare infatti l’ammissione del torto da parte dell’offensore e permettere all’offeso una meno traumatica concessione del perdono. Sicuramente questo è un buon punto di partenza per reimpostare la relazione su basi più solide, che prevedano un codice di maggiore rispetto reciproco.

La rabbia logora il cuore, secondo studi recenti, l’adrenalina rilasciata in seguito a scoppi d’ira può essere causa di un aumento del rischio di arresto cardiaco in individui con precedenti episodi di irregolarità del battito. La rabbia quindi danneggia il cuore perché ne altera il ritmo provocando aritmie maligne. Alcuni ricercatori dell’Università di Yale hanno recentemente dichiarato che le aritmie provocate da ostilità sono più pericolose di quelle associate ad emozioni meno instabili. «Le aritmie associate alla rabbia sono più instabili e per questo più letali».
Paragonando le aritmie provocate da rabbia con quelle che non lo erano, Stopper e i suoi colleghi hanno scoperto che le aritmie associate alla rabbia di regola sono introdotte da almeno un extra battito, contrazione ventricolare prematura. In confronto le aritmie non associate all’ira sono anticipate da queste contrazioni extra solo in poco più dei due-terzi dei casi. Viceversa nel 100 percento dei soggetti, all’evento rabbioso era corrisposta l’aritmia.
Basandosi su questa contrazione extra e sull’associazione con la rabbia, il team di Yale ha concluso che le aritmie associate alla rabbia sono più “disorganizzate”, meno stabili, e, pertanto, più innatamente pericolose. Stopper e il suo team hanno ipotizzato che poiché la rabbia provoca un rilascio maggiore di adrenalina – un ormone associato allo stress – esso può risultare l’elemento scatenante dell’arresto cardiaco, quando l’adrenalina, agendo sul cuore, ne modifica l’attività elettrica. Riconoscendo di non poter stabilire in modo certo una connessione adrenalina-aritmia, i ricercatori affermano che tale associazione potrebbe tuttavia spiegare perché arresti cardiaci improvvisi sono più comuni durante periodi di stress personale, o stress legato ad eventi più generici quali guerre e catastrofi naturali.
Anche secondo il dr. Hunter C. Champion di Baltimora «l’adrenalina è il colpevole più probabile nonostante il fatto che non vi siano prove evidenti, motivo per cui la ricerca deve continuare. Questo studio fornisce un ulteriore supporto alla teoria di una connessione esistente tra mente e corpo» Tuttavia in certe situazioni l’adrenalina è un aiuto prezioso. Infatti una piccola quantità di stress è quell’elemento che dà all’uomo la forza di andare avanti, che motiva le sue azioni, una sorta di meccanismo di battaglia. «Ed è un meccanismo buono fintanto che non si presenta sotto forma di dose massiccia e improvvisa di stress, allora si può verificare una sorta di “sovraccarico del circuito” che può portare a conseguenze disastrose».  Al contrario, altri studi hanno dimostrato che ridere e avere un approccio ottimistico verso la vita fa bene al cuore e alla salute del corpo in generale. Il riso provoca la dilatazione dell’endotelio, lo strato di tessuto protettivo che riveste interamente i vasi sanguigni e linfatici e le cavità cardiache. Quando i vasi si dilatano, si accresce anche il flusso sanguigno influenzando positivamente il sistema cardiovascolare nel suo insieme.
Le endorfine, elementi chimici prodotti dalle sensazioni positive (per esempio dopo una risata), vengono rilasciate nel sangue ed attivano i recettori presenti nell’endotelio, causando un’interazione che provoca la dilatazione di quest’ultimo.
Al contrario un forte stress porta al rilascio di ormoni, come il cortisolo, che riducono il rilascio da parte delle cellule endoteliali di ossido di azoto nel sangue, elemento che serve da vasodilatatore. In certi soggetti predisposti, gli sbalzi d’umore, gli attacchi di rabbia e tutti gli altri stati d’animo provocati da situazioni stressanti possono essere causa di gravi malattie cardiache. Per questi motivi è sempre meglio cercare di mantenere la calma anche nelle situazioni più stressanti, mantenendo un approccio positivo verso la vita, cosa che secondo la ricerca aiuta a vivere meglio e a conservare una buona salute.

 Dopotutto, sempre secondo la ricerca, la mente influisce sulle condizioni di salute del corpo, per cui una mente serena giova sicuramente alla salute del corpo.
Ognuno poi reagisce allo stress in modo leggermente diverso, infatti alcuni si arrabbiano ed esternano tutto il loro stress, scaricandolo spesso su chi gli sta attorno, altri lo interiorizzano, sviluppando in alcuni casi disturbi alimentari o problemi di abuso da sostanze. Altri ancora, che hanno malattie croniche, possono scoprire che i sintomi di tali malattie aumentano sotto un carico eccessivo di stress.
Per migliorare la propria salute cardiaca, sarebbe consigliabile ad ognuno di noi di rilassarsi, ridere circa 15/20 minuti al giorno, infatti, «le persone con malattie cardiache affrontano la vita di tutti i giorni con meno spirito delle persone sane». Addirittura, secondo alcuni ricercatori di Harvard, un approccio ottimistico alla vita ridurrebbe il rischio di malattie cardiache. D’altra parte, come già detto precedentemente, una vita stressante può essere causa di malattie cardiache.
Un recente studio americano ha riportato che le donne sottoposte ad una vita coniugale stressante sono più soggette a rischio cardiovascolare di quelle che vivono una situazione appagante. Per esempio, il fatto di rimanere in silenzio e decidere di “subire” durante un litigio col marito, che può essere visto come un mezzo per salvare la relazione, può in realtà provocare danni al cuore a causa dello stress che si subisce. «Le donne dovrebbero imparare a gestire meglio la loro rabbia, senza arrivare al punto di rottura», sostengono i ricercatori, poiché, rispetto agli uomini, esse sono più portate a logorarsi.

Anche le donne insoddisfatte della loro condizione lavorativa sono a rischio di malattie cardiache. Secondo una ricerca apparsa qualche tempo fa sul New England Journal of Medicine, anche la cosiddetta broken heart syndrome (sindrome da cuore infranto) può portare ad una temporanea debolezza del muscolo cardiaco, che rispecchia in tutto e per tutto un infarto. I 20 pazienti, per lo più donne, ricoverati in ospedale con tutti i sintomi dell’attacco cardiaco (dolori al petto, respiro corto, liquido nei polmoni e ridotta abilità del cuore di pompare sangue), in realtà presentavano dei problemi solo temporanei. I loro disturbi erano stati causati dal rilascio improvviso e massiccio degli ormoni catecolamminici, detti “ormoni dello stress”, che aveva provocato una sorta di stordimento temporaneo del muscolo cardiaco.

Quando noi odiamo una persona siamo legati a lei da un legame emozionale più forte dell'acciaio. Il perdono è l'unico modo per rompere tale legame e ritornare liberi. La persona odiata diventa, pian, piano, il nostro padrone; ci viene in mente di giorno e di notte; ci toglie sonno e serenità e ci priva della gioia di vivere.

È importante notare che il perdono inizia dalla persona che per prima diventa consapevole che vi è stata un’offesa. È perciò possibile che il perdono venga chiesto da chi ha agito male, o venga concesso da chi ha subito l'azione malvagia. In entrambi i casi il perdono ha un effetto liberatorio per entrambi.

Vi è un vecchio proverbio che dice: "Colui che non riesce a perdonare agli altri rompe il ponte su cui lui stesso deve passare".   Il perdono è un potente magnete da cui nessun bene può evitare di essere attratto.

La mente è vicina al corpo e le emozioni negative sono una sorgente di intossicazione. Può succedere che in noi vi siano odi e risentimenti sepolti da anni, anche se sepolti essi sono pur sempre in noi ed emanano in continuazione delle energie negative che avvelenano la nostra salute.  Pertanto vanno eliminati risentimento, condanna, e il desiderio di fargliela pagare, se desideriamo ritrovare la pace, la serenità e la salute

Oltre a perdonare gli altri noi dobbiamo imparare a perdonare noi stessi l'autocondanna ci priva della salute e ci può causare problemi di tutti i tipi.

E’ vitale per noi poter perdonare. Significa recidere i legami, liberarsi dalle catene che ci impediscono di volare verso la gioia.  Se non riusciamo a perdonare, questo ci blocca e facciamo più pensieri del necessario. Per questo ci stanchiamo di più, perdiamo lucidità e commettiamo altri errori che concludono questo circolo vizioso facendoci innervosire.

Una persona fondamentale per la storia dell’umanità, da questo punto di vista, è stato Gesù Cristo. Ha dimostrato che si può perdonare tutto, in qualsiasi situazione. “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno“. Queste parole esprimono la piena compassione per coloro che sono ignoranti e che stanno facendo del male.

Che dire di noi? Dobbiamo prenderLo ad esempio, per capire che possiamo perdonare tutto e liberarci da tutti i legami del nostro passato che ci impediscono di poter cambiare o solamente gioire dell’esistenza.

Perdonare noi stessi è fondamentale per accettare le nostre lacune e i nostri errori. Grazie a questo perdono possiamo liberarci dal senso di colpa che ci degrada e migliorare la nostra vita. La parola perdono deriva dal verbo perdonare che ha origine da condonare, che a sua volta deriva dalla parola donare. Come sappiamo questa è un’azione che deve essere fatta con il cuore, non può essere un mero esercizio mentale o intellettuale. Perdonare è come pensare con il cuore e amare con la nostra mente.

 Anche il Mahatma Gandhi si espresse sul perdono: “La regola d’oro è di essere amici di tutto il mondo e di considerare l’umanità intera come una famiglia. Colui che distingue tra la propria famiglia e quella di un altro, diseduca i membri della sua famiglia e apre la strada alla discordia e alla irreligiosità. Non violenza significa perdonare le offese e non ripagare con la stessa moneta. La non violenza non è un fatto meccanico. Essa è la più bella qualità del cuore e la si conquista con l’esercizio. Quando la si raggiunge appare come naturale, spontanea, e chi la possiede si domanda perché si sia fatta tanta fatica a conquistarla. Seguiamo la nostra coscienza, ossia la“facoltà di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto e di regolare di conseguenza la condotta.”.  Da qui il consiglio di Gandhi:Non giudicare gli altri. Sii giudice di te stesso e sarai veramente felice.”, già dette da Gesù ancor prima!

Quali sono i benefici di perdonare qualcuno?

Pressione sanguigna più bassa , riduzione dello stress, meno ostilità, capacità di gestire meglio la rabbia, più basso ritmo cardiaco, più basso rischio di abuso di droghe e alcol, minori sintomi di depressione, minori sintomi di ansietà , riduzioni di dolori cronici , più amicizie,  relazioni più sane ,maggiore benessere religioso e spirituale, migliorato benessere fisiologico.

Anche la minima offesa può portare a grandi conflitti.

Quando patiamo un’offesa dalle azioni o le parole di qualcuno, sia che sia intenzionale o no, possiamo cominciare a percepire sentimenti negativi come rabbia, confusione o tristezza, specialmente quando è qualcuno vicino a noi. Questi sentimenti possono essere ridotti all’inizio. Ma se non li affrontiamo subito, essi possono diventare più grandi e più potenti. Essi possono pure cominciare a prevaricare sui sentimenti positivi. Rancore nutrito da risentimento, vendetta e ostilità prendono piede quando ci soffermiamo su eventi o situazioni penose, che si ripresentano nella nostra mente molte volte.

Subito, possiamo ritrovarci ingoiati dalla nostra stessa amarezza o senso di ingiustizia. Possiamo sentirci intrappolati e non vedere la via d’uscita. È molto duro lasciar andare i rancori a questo punto e possiamo rimanere pieni di risentimento e incapaci di perdonare.

Quando noi tratteniamo dolori, vecchi rancori, amarezza e persino odio, molte aree della nostra vita possono risentirne. Se noi non perdoniamo, siamo noi stessi a pagarne il prezzo all’infinito. Noi possiamo arrivare a portare la nostra amarezza e la rabbia in ogni relazione e nuova esperienza. Le nostre vite possono essere così inviluppate nel male da impedirci di gioire nel presente.

Il perdono è un impegno per un processo di cambiamento. Esso può essere difficile e può prendere tempo. Ognuno si muove verso il perdono in modo un po’ differente. Un passo è riconoscere il valore del perdono e l’importanza nelle nostre vite ad un dato tempo. Un altro è di riflettere sui fatti della situazione, come abbiamo reagito e come questa combinazione ha condizionato le nostre vite, la nostra salute e il nostro benessere.

Perdonare anche significa che noi cambiamo vecchi schemi di credo e azione che sono pilotati dalla nostra amarezza. Come noi lasciamo andare rancori, noi non delimiteremo più le nostre vite da come siamo stati feriti, e potremmo persino trovare compassione e comprensione.
 Teniamo in mente che il beneficiario primo del perdono siamo noi stessi. Se ci sentiamo bloccati, può essere utile prendere del tempo, parlare con una persona saggia, come una guida spirituale.

Può anche essere utile riflettere sulle volte che noi abbiamo ferito altri e su quelli che hanno perdonato noi. Se ci ricordiamo come ci siamo sentiti, può aiutarci per capire la posizione della persona che ci ha ferito. Può anche essere utile pregare, usare meditazioni guidate. In ogni caso, se l’intenzione di perdonare è presente, il perdono verrà a tempo debito.

Il perdono può risultare in parole dette con sincerità come “ti perdono” o azioni tenere che mettano a posto la relazione. Ma più che questo, il perdono porta ad un tipo di pace che ci aiuta ad andare avanti con la vita. L’offesa non è più al centro dei nostri pensieri o sentimenti. La nostra ostilità, risentimento e infelicità hanno fatto strada a compassione, gentilezza e pace.

Inoltre ricordate che il perdono non è una cosa che avviene di botto. Esso comincia con la decisione, ma poiché la memoria o un altro set di azioni o parole possono provocare vecchi sentimenti, abbiamo bisogno di ricorrere al perdono più volte.

Far sì che l’altra persona cambi comportamento non è il punto del perdono. Infatti, la persona non è detto che cambi atteggiamento o si scusi per l’offesa. Pensiamo al perdono piuttosto come un modo per cambiare la nostra vita – portando a noi stessi più pace, felicità e benessere emozionale e spirituale.

E se invece sono io ad aver bisogno di perdono?

Sarebbe bene spendere del tempo per pensare all’offesa che abbiamo commesso e provare a capire l’effetto che ha avuto su altri. Ammettiamo il male che abbiamo fatto a coloro che abbiamo ferito, parlando del nostro sincero pentimento e chiedendo perdono – senza dare delle scuse.

Ma se questo sembra poco saggio perché può portare altro danno o sofferenza, meglio non farlo, non aggiungiamo sale sulla ferita dolente. Inoltre non possiamo forzare qualcuno a perdonarci, avrà bisogno del  tempo per perdonare.

In ogni caso, noi dovremmo impegnarci a perdonare noi stessi. Mantenere risentimento verso sé stessi può essere deleterio nello stesso modo come mantenere risentimento verso qualcun altro.

Accettiamo il fatto che noi – come chiunque altro – non siamo perfetti. Accettiamo i nostri errori, i nostri sbagli. Perdonare se stessi significa accettarsi per  quello che si è.

È impossibile perdonare gli altri, se prima non perdoniamo noi stessi.

Il perdono di noi stessi o di altri, sebbene non facile, può trasformare la nostra vita.

Il perdono è una decisione: non è un sentimento, ma un atto della nostra volontà. Decido di perdonare, anche se non me la sento. È’ la scelta di amare gli altri così come sono.

Il perdono è uno stile di vita: è lo stile di vita del cristiano che accetta di perdonare sempre, chiunque e per ogni cosa.

Il perdono è un processo, cioè una continua crescita verso la libertà interiore. Non dimentichiamo che alcune esperienze sono così dolorose da richiedere molto tempo trascorso nel perdono.                                   

                                                                         A cura di sorella M.Laura