Finchè c'è vita 
                c'è speranza 

 

  Il caso  Welby  ha suscitato un’attenzione tutta particolare sul cosiddetto “accanimento terapeutico”, presentato come espressione di “potere”  medico fine a se stesso e di tortura di Stato nei riguardi di chi vorrebbe porre fine alla sua vita segnata ormai da gravi sofferenze.

Perché ciascuno di noi sia capace di discernere tra ciò che sia giusto e ciò che non lo è nel campo dei trattamenti sanitari è necessario che siano chiari i significati dei termini di cui sentiamo tanto parlare: eutanasia,  accanimento terapeutico, cure palliative, testamento biologico poiché il loro corretto uso è di fondamentale importanza.

Per eutanasia  si intende “un’azione o un’omissione  che, di sua natura o nelle intenzioni, procura la morte allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa  a livello delle intenzioni e dei metodi usati” (Congregazione per la Dottrina della Fede, 5/5/80). Il Comitato nazionale di Bioetica l’ha definita come l’uccisione “diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta”.

L’eutanasia può essere attiva, passiva o omissiva.

L’eutanasia attiva  si ha quando il medico, o chi per lui, interviene direttamente per procurare la morte di un paziente gravemente malato e inguaribile,su richiesta sottoscritta dello stesso. L’eutanasia passiva  o omissiva si ha quando si sospende una terapia, proporzionata, utile e necessaria alla sopravvivenza del paziente, in una condizione patologica in cui la morte non è prevista come inevitabile né è attesa allo scopo di accelerare o procurare la morte per eliminare le sofferenze che la malattia comporta, la sospensione della terapia è determinante per la morte. Nessun uomo può dare la morte ad un altro uomo. Questa è la condizione fondamentale per costruire una società civile. La vita è un bene prezioso, inviolabile, indisponibile, è, per noi cristiani, “la manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria”. Dentro ogni vita c’è un tesoro da scoprire, eliminarla equivale a impoverire l’intera umanità di quella unica e irripetibile ricchezza.

L’eutanasia è una sconfitta per tutta l’umanità, è una fuga individuale e sociale da una situazione provata come insostenibile.”Chi ama la vita non la toglie ma la dona, non se ne appropria ma la mette a servizio degli altri. Nei momenti estremi della sofferenza si ha il diritto ad avere la solidale vicinanza di quanti amano la vita e se ne prendono cura, non di chi pensa di servire le persone procurandolo loro la morte”.

 

L’accanimento terapeutico è  il prolungare in modo esasperato attraverso la tecnologia una vita destinata a concludersi a breve, è una  situazione definita da alcuni parametri oggettivi e non da percezioni soggettive, è effettuare una terapia quando si sa che non servirà a nulla se non a fare danni. Accanimento  significa, quindi,  praticare terapie sproporzionate per eccesso. E’ il medico curante che valuta di volta in volta  e si chiede se quello che sta facendo porta veramente beneficio al paziente, se sta andando oltre una terapia utile e proporzionata. Certo il paziente può rifiutare la terapia, nel pieno rispetto della sua libertà e autonomia, ma non possiamo giustificare qualsiasi rifiuto, dicendo che si vuole evitare l’accanimento. Se il criterio di scelta nella terapia sono solo le percezioni soggettive qualsiasi terapia, ritenuta soggettivamente insopportabile, diventa di per sé “accanita”, tutto potrebbe rientrare nell’accanimento terapeutico. La questione non è se esiste o meno il diritto a rifiutare le cure, bensì quali limiti e contenuti abbia tale diritto. Al diritto di rifiutare trattamenti terapeutici non può corrispondere il dovere di uccidere, a meno che si crede che “uccidere” sia una forma estrema di terapia e che la vita è una malattia e la morte un rimedio.

Non praticare l’accanimento terapeutico è già un dovere deontologico del medico che valuta il trattamento terapeutico da attuare obbiettivamente e non emotivamente nel contesto clinico del paziente, in scienza e coscienza, secondo criteri rigorosi di proporzionalità delle cure. “Non si deve mai  rinunciare a cure proporzionate per non anticipare o causare  la morte, mentre si può e, per non cadere nell’accanimento terapeutico, si deve rinunciare a cure sproporzionate”.

 

Le cure palliative sono cure di mantenimento per i malati inguaribili ma non incurabili, si occupano di tutti gli aspetti del dolore e della sofferenza, allo scopo di aiutare la persona a morire, ossia a vivere  intensamente e serenamente l’esperienza ultima della sua vita, in maniera dignitosa e di qualità di vita accettabile.

Tali cure possono richiedere l’uso di analgesici ad azione centrale che possono però abbreviare la vita ma non per questo eutanasiche. Tali cure possono”essere moralmente conformi alla dignità umana, se la morte non è né voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile”.

La Società Europea di cure palliative ha identificato tre criteri per distinguere le terapie del dolore da manovre eutanasiche: l’intenzione dell’operatore, la procedura di intervento e il risultato. Quando lo spirito che muove l’intervento o l’omissione di intervento è quello dell’eliminazione del sintomo si parla di trattamento palliativo, se è l’eliminazione del paziente si parla di eutanasia. Se l’intenzione dell’operatore è la morte del paziente, se la procedura instaurata per omettere un trattamento è atta a procurare la morte, se il risultato della interruzione della manovra è la morte procurata e immediata  del paziente specie se non in fase terminale, tale manovra è eutanasia.

Il testamento biologico o dichiarazione anticipata di volontà è un documento sottoscritto dal paziente col quale manifesta  “dichiarazioni anticipate sulle forme di assistenza che desidera ricevere o non ricevere in condizioni di incapacità ( in Italia sono state presentate in Parlamento otto proposte, tutt’oggi in discussione).

Come fa una persona sana a decidere in anticipo che cosa si vuole si faccia quando sarà malata e questo fra dieci, venti anni, quando forse la medicina avrà fatto dei progressi nella terapia e negli studi di quella malattia; rifiutare le cure in anticipo equivarrebbe a precludersi qualsiasi strada di guarigione.La dichiarazione anticipata di volontà non può essere considerata un consenso consapevole ed attuale, in quanto prestato molto tempo prima e in condizioni di salute e di vita differenti, il soggetto potrebbe aver cambiato idea e non aver avuto il tempo di modificare il testamento o averla cambiata  proprio nel momento in cui non è più capace di comunicare la sua volontà verbalmente, in seguito all’”incidente” incorsogli,  non verrebbe lesa la sua libertà di scelta, se si agisse diversamente dalla sua volontà attuale?  

 

E’ una ipotesi che non può essere scartata, lo stesso divorzio si basa sul fatto che il “sì”  per sempre pronunciato nel giorno del matrimonio può non avere la stessa valenza di un tempo perché ci si trova in condizioni di vita differenti.

Nelle proposte di legge si parla della figura del fiduciario ossia di quella persona che deve decidere per il malato laddove non è capace per le sue condizioni cliniche di intendere e di volere. Come si potrà essere certi che sia la volontà attuale del paziente, chi garantisce che il rapporto di fiducia persista anche al momento dell’intervento medico o che la decisione sia ispirata dal rispetto della volontà del paziente e non da eventuali interessi personali?

Voler rivendicare il diritto del paziente di rifiutare una cura  e imporre di conseguenza al medico il dovere di rispettare la sua volontà equivale a togliere alla medicina il dubbio sulla incertezza della prognosi, a rendere il medico non più tutore della salute e della vita del paziente ma semplice esecutore passivo di prestazioni a comando. Il rapporto medico paziente è innanzi tutto un rapporto umano, è un’alleanza terapeutica tra medico e paziente: il paziente fa le sue richieste, il medico si fa carico dello stato complessivo del paziente e crea le condizioni perché questi possa orientarsi verso la scelta migliore per la sua persona.

Sotto mentite spoglie con il  testamento biologico o dichiarazione anticipata di volontà si chiede l’eutanasia  omissiva, l’abbandono terapeutico che priva il paziente del necessario sostegno vitale  attraverso l’alimentazione, l’idratazione, la ventilazione. L’oggetto delle cure mediche è la vita dell’uomo, le cure di fine vita  devono sempre e comunque essere cure di vita per permettere al malato di esprimere la sua personalità che è anche ma non solo vita di relazione. Ogni terapia rivolta alla sopravvivenza va attuata perché è in difesa della vita. Ogni terapia che potrebbe peggiorare le condizioni di vita attuale del paziente va esclusa e intesa come accanimento terapeutico, eccezione fanno le terapie sperimentali ma sempre con il consenso del paziente.

 

Il caso singolo non può essere preso come esempio per  legiferare sul diritto del rifiuto delle terapie, per burocratizzare la morte, perché ci sono tanti che vogliono vivere, non vogliono sospendere le terapie e non devono un domani chiedere scusa agli altri per aver deciso di esistere. Sono persone che costruiscono giorno dopo giorno insieme ai propri cari e a uomini di buona volontà la loro esistenza, nutrendosi di un progetto unico:la gioia di vivere, nonostante tutto, citiamo solo alcuni che i mass-media hanno reso noti: Mario Melazzini, primario del day hospital oncologico di Pavia, Elena Marchesi Paino, medico, Giancarlo Mascetti.

 E’ importante anche garantire una qualità di vita accettabile e dignitosa ma questa è subordinata alla sopravvivenza, per dare corpo al principio  primum vivere. Dando cosi la possibilità e il tempo ad eventuali scoperte scientifiche nel campo di quella determinata malattia. Se per il miracolo la scienza richiede del tempo perché possa  valutarlo scientificamente perché poi questo principio non può essere applicato per la malattia: far sopravvivere oggi il malato in vista di ulteriori scoperte scientifiche e perchè non per un possibile miracolo?

                                                       A cura della Dott.ssa sorella M. Laura