I N T R O D U Z I O N E
Dopo tanti anni dalla sua approvazione, la legge 194 "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza", suscita ancora divisioni e polemiche.
Promulgata in uno dei momenti più bui delle nostre istituzioni democratiche quando cioè la violenza terroristica attaccava più ferocemente, questa legge costituì un ulteriore motivo di tristezza ed oscurità nella storia civile ed umana del nostro Paese.
Già dal suo iter parlamentare, la legge 22 maggio 1978, n. 194, nacque come "segno di contraddizione". Contraddizione, anzitutto, tra i partiti politici ibridamente riuniti in un cosiddetto "fronte laico" e gli altri partiti, con in testa la Democrazia Cristiana; ma contraddizione ancora più profonda nel Paese, tra un potente schieramento abortista, e la maggioranza ancorata ai valori umani ed etici della vita individuale ed associata.
E' questo un primo punto che, nell'accoglienza pur sempre responsabile della legge, deve essere decisamente affermato e posto a principio di un programma d'azione comune a tutti i cittadini solleciti del bene generale dello Stato e delle libere istituzioni democratiche: la legge 194 è profondamente anticostituzionale, perché contrasta non solo con i principi fondamentali della Costituzione repubblicana (artt. 2 e 3), ma pure con alcune sue norme particolari, quali quelle sulla libertà religiosa (art. 19), sui diritti dei figli verso i genitori (art. 30), sulla protezione della maternità (art. 31) e sul diritto alla salute (art. 32). Invano, per mascherare un nominalistico ossequio alla pur tanto discussa sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 18 febbraio 1975, la normativa sembra ammettere soltanto l'aborto terapeutico. In realtà, non solo essa fa rientrare sotto questa figura situazioni o "indicazioni" che, secondo il pensiero sempre e dappertutto affermato (per tacere del buon senso), nulla hanno che vedere con la stessa; ma, riducendo la funzione del medico a quella di un registratore solo formalisticamente necessario dello stato di gravidanza e della volontà di liberarsene, riconosce alla donna il diritto di abortire sempre che lo voglia e, per di più, a spese della collettività! In altre parole il sistema si fonda su uno scambio: lo Stato chiede alla donna di manifestare il suo proposito di aborto e di sottoporsi al colloquio con un medico, offrendo in cambio l'esecuzione a sua cura e a sue spese dell'intervento abortivo. Ne è prova l'altissimo numero di interruzioni di gravidanza: 150.000-200.000 casi all'anno che certamente non possono riferirsi a "casi particolari" estremi e non altrimenti risolvibili. Del resto sono le stesse relazioni ministeriali, obbligatorie a norma di legge, che hanno spesso denunciato l'uso delle interruzioni di gravidanza come mezzo di controllo delle nascite. Lo prova la frequenza della recidiva, dell'ordine del 30% (laddove l'esecuzione dell'aborto avrebbe dovuto essere l'occasione per educare alla procreazione responsabile). Lo provano lo spregiudicato ricorso alla dichiarazione d'urgenza per omettere persino l'attesa dei sette giorni che in certe città ha coperto l'81% delle certificazioni nei primi novanta giorni di gestazione; la decadenza e la inefficacia dei consultori; la criminalizzazione dell'obiezione di coscienza; la mancanza di qualsiasi attenzione alla realtà e serietà dei colloqui; l'assenza del richiamo al diritto alla vita e alla identità umana del concepito negli strumenti illustrativi della legge e nei sussidi di educazione sessuale; l'insufficiente valorizzazione del volontariato che si propone la prevenzione dell'aborto attraverso l'assistenza alle maternità difficili o indesiderate, costretto ad uno stato di semi-clandestinità.
Qual è il problema che questa legge ha voluto risolvere?
Non è certamente, nonostante le dichiarazioni in contrario, il problema dell'aborto clandestino. Ognuno sa, quando non si lasci pregiudizialmente dominare da faziosità polemiche, che nessuna legge che legittimi l'aborto ha risolto questo problema. Il problema non è neppure, nonostante il titolo della legge, la "tutela sociale della maternità, dal momento che l'articolato è costruito in maniera tale che la maternità non ha pressoché nessuna garanzia". Occorre maggiormente penetrare in profondità: il vero problema è altrove.
A mio giudizio, è il problema di una persona umana "di troppo", di una persona umana giudicata "soprannumeraria": si tratta di giudicare cosa farne.
Una conferma, fra le altre, che questo sia il vero problema che si è voluto risolvere, è offerta dal fatto che ovunque, da una parte l'aborto va sempre più diventando mezzo di controllo delle nascite e, dall'altra, esiste un indubbio legame effettivo fra mentalità abortista e mentalità contraccettiva.
Il concetto di "persona soprannumeraria" diventa possibile e credibile all'interno di una precisa concezione dell'uomo e della società umana che ora giova descrivere, sia pure assai schematicamente. Si tratta cioè di sapere a quali condizioni è potuto sorgere un concetto come questo.
La prima, quella ultimamente decisiva, è che la persona umana non sia null'altro che numero, che l'umanità una somma o una serie di tanti individui. E' una variabile non di estrema importanza che la conseguenza dedotta da questo "null'altro che" consista, secondo l'individualismo libertario, nel considerare il sociale umano come rapporto di opposti egoismi oppure, secondo il collettivismo totalitario, come un tutto di cui il singolo non è che una parte o un momento.
E' necessario riflettere più a fondo su quel "null'altro che". Questa posizione rivela la volontà di ricondurre tutto l'umano alla categoria della quantità misurabile. La volontà, ho detto, poiché si tratta della decisione di escludere dalla definizione di uomo tutto ciò che non rientra in quella categoria. In questa decisione sta l'origine prima del concetto di persona umana soprannumeraria, comportando esso la non considerazione della persona umana come tale, in ciò che essa ha di irriducibilmente singolare e non sommabile con altro.
La seconda condizione è, allora, la negazione del rapporto originariamente costitutivo della persona umana, il rapporto con Dio che crea ogni uomo. Solo davanti a Dio, per il suo essere creata da Dio, la persona umana, ogni persona umana, è irriducibilmente fuori ogni serie. Poiché per Dio l'uomo è sempre qualcosa di unico, di assolutamente singolare: qualcuno eternamente pensato ed eternamente scelto, qualcuno chiamato con il suo proprio nome.
Queste due condizioni sono interagenti. L'oscurarsi ed alla fine la negazione del rapporto di creazione comporta la riduzione dell'uomo ad un oggetto di calcolo; la riconduzione dell'umano alla categoria della quantità rende impossibile l'affermazione di un atto creativo avente come termine ogni uomo.
Di tutto questo che si è andato dicendo, la L. 194 è l'espressione inequivocabile e completa, gettata ormai ogni maschera. Si tratta, infatti, della negazione pura e semplice della norma etica fondamentale ed originaria: ad ogni e singola persona è dovuto il riconoscimento della sua verità-dignità. Pertanto questa legge non è solo un'infrazione dell'ordine morale, ma ne è la negazione in toto, ne è la soppressione pura e semplice. Con essa, dunque, è la ragione stessa dell'ordinamento giuridico che è stata messa in questione, poiché nel medesimo ordinamento giuridico è stata inscritta una norma che legittima la violazione della esigenza fondamentale della verità dell'uomo. E' la coscienza morale come tale che è stata uccisa da questa legge e da qui l'urgenza di una più profonda evangelizzazione di una cultura che, ridivenuta pagana, sta distruggendo l'uomo.
CAPITOLO PRIMO
Il contenuto
Il 7 giugno 1977, con 156 voti a favore e 154 contrari, il Senato respingeva il disegno di legge sull'aborto del 25 gennaio 1977, n. 4831 , precedentemente approvato dalla Camera, facendolo così decadere. Due giorni dopo, 9 giugno 1977, il testo del progetto bocciato veniva ripresentato alla Camera come nuova proposta di legge dai capigruppo del PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI; Democrazia Proletaria e Sinistra Indipendente2 .
Presentato alla Presidenza della Camera il 9 dicembre 1977, il progetto venne fatto oggetto di accese discussioni. L'opposizione democratica, vista l'impossibilità di ottenere un cambiamento radicale del testo, sostenne energicamente la necessità di addurre almeno alcune modifiche, al fine di rendere il progetto il meno pericoloso e negativo possibile; e riuscì, anche se in piccola parte, ad ottenere alcuni emendamenti migliorativi, fra i quali: la precisazione che compito del consultorio è anche quello di contribuire "a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza" (art. 2,d); la elevazione dell'età della donna richiedente da 16 a 18 anni (art. 12); la partecipazione del padre del concepito, se la donna lo consente, nella consultazione in seno al consultorio o alla struttura socio-sanitaria in ordine alla scelta abortiva o meno (art. 5).
Il progetto, così modificato, venne approvato dalla Camera il 13 aprile 1978 con 308 voti favorevoli e 275 contrari. Passato al Senato il 18 aprile1, dopo un tentativo da parte della DC di bloccarlo con il voto per il non passaggio all'esame dei singoli articoli, il progetto, senza subire alcuna modifica, venne approvato in via definitiva il 19 maggio 1978 con 160 voti a favore e 148 contrari. Restavano così abrogati il titolo X del libro II del codice penale ("Dei delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe") e alcuni commi dell'art. 583 dello stesso codice, in qualche modo collegati con gli articoli soppressi. La legge è entrata in vigore il 5 giugno 1978.
Il testo che porta il n. 194 e consta di un titolo e di 22 articoli, fu presentato al Senato, dopo l'approvazione della Camera dei deputati, insieme con una proposta d'iniziativa popolare: "Accoglienza della vita umana e tutela sociale della maternità". Il titolo della n. 194 è: "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza". Titolo contraddittorio, come osservò la senatrice DC, Alessandra Codazzi, perché nel contesto non si pone affatto l'obiettivo di dettare norme per la tutela sociale della maternità, ma piuttosto quello di sancire il principio dell'interruzione della gravidanza.
Si analizzano ora gli articoli della legge che più si prestano a valutazioni morali
L'ARTICOLO I
- Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio.
L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite.
Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi sociosanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l'aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.
Questo primo articolo, così impostato sicuramente a causa dell'acceso contrasto politico e culturale suscitato dal tema "aborto", farebbe supporre che la legge è a favore dei valori della maternità, della vita, della procreazione responsabile piuttosto che a favore dell'aborto. Ma il fatto che nei tre commi siano ribaditi concetti già largamente presenti nella nostra costituzione fa pensare che questi non sarebbero risultati sufficientemente chiari nella legge.
Innanzitutto è da notare che, in una legge che vuole disciplinare l'interruzione di gravidanza e in definitiva tutelare la maternità nella fase prenatale, non è indicato il momento preso in considerazione come inizio della vita umana. Per quanto si introduca la legge con una formulazione di principi, in verità ci si vuol mantenere neutrali riguardo agli stessi, così come si è dichiarato nella relazione che accompagnava il testo del progetto presentato al Senato nel 1978: "Lo Stato rimane neutrale nei confronti dei problemi di principio posti dall'interruzione di gravidanza". Ovviamente il primo problema di principio è proprio quello di stabilire quando abbia inizio la vita umana. Certo spetta allo scienziato individuarlo, essendo questo un fatto biologico. Per quanto ormai si dovrebbe ritenere pacificamente individuato nel concepimento1 , in realtà la gran parte delle controversie in tema d'aborto verte proprio sul rifiuto di accettare come giuridicamente vincolante il dato biologico: il legislatore così è nella possibilità di sovrapporre ad esso criteri propri. Il problema ideologico di fondo dell'aborto è quasi tutto qui, oltre che nella volontà di rimettere ad ogni costo la vita nelle mani della libertà della donna, così come vedremo.
Possiamo già individuare la prima grande ipocrisia, perché di ipocrisia si tratta, di una legge che, pur avendo scelto la strada delle formulazioni di principio vuole d'altro canto restare "neutrale" rispetto alle "questioni di principio". Questa preoccupazione di non compromettersi con esse risulta evidente, in tutta la legge, dall'uso delle parole. Il termine "aborto", con il suo retaggio che fa pensar alla soppressione di un essere umano, è usato solo due volte negli articoli 1 e 22. Negli altri casi si parla di "interruzione di gravidanza". Questa imprecisione di linguaggio può creare grossi problemi interpretativi, tenendo conto che vi può essere interruzione di gravidanza senza aborto. La gestante è chiamata "madre" una volta sola nel primo comma dell'art. 5, negli altri casi è chiamata "donna". La parola "maternità" viene accuratamente usata in modo da contrapporla alla "gravidanza". La parola "figlio" è scrupolosamente evitata e sostituita con "concepito", "nascituro", "feto".
Alla luce del secondo comma si comprende come il termine procreazione è usato come sinonimo di concepimento e il diritto alla procreazione responsabile comprende la possibilità di interrompere la gravidanza purché non divenga mezzo di controllo per le nascite. C'è sì un divieto nel secondo comma, e cioè che non si può equiparare l'aborto ad un contraccettivo, ma questo non significa riconoscere la presenza di una vita umana fin dal concepimento, anzi, una lettura attenta di questo secondo comma spinge ad una interpretazione contraria.
Per approfondire la questione dobbiamo individuare il perché e a chi è rivolto questo divieto.
1.a) I beni protetti dalla legge. Il valore ermeneutico dell'art. 1
Il voler essere rimasti neutrali sulla questione dell'origine della vita implica di per sé una scelta ben precisa: il non voler riconoscere l'umanità del concepito sin dal suo inizio. Se non si fosse presa questa posizione la legge sarebbe risultata anticostituzionale.
Ma c'è da chiedersi se è poi possibile legiferare sull'aborto senza aver prima cercato di stabilire chi e che cosa sia il concepito, cosa poi che non spetta al legislatore stabilire ma alla scienza, quantomeno alla scienza cosiddetta "esatta".
Leggendo gli articoli si evidenziano tre momenti della gestazione con diverso regime giuridico:
- il primo: dal concepimento al terzo mese compiuto (artt. 4 e 5);
- il secondo: dal terzo mese compiuto al punto in cui per il nascituro diviene possibile la vita autonoma (artt. 6 e 7);
- il terzo: dal momento in cui inizia la vita autonoma alla nascita (art. 7, 3° comma).
Questi tre periodi prevedono sì limiti formali ma, come vedremo in seguito, esistono in realtà condotti legali che rendono possibile l'aborto fino al nono mese.
Dal divieto di uccidere il nascituro nel terzo periodo di gestazione, che ha come solo limite il grave pericolo per la madre, e dall'ultimo comma dell'art. 7, si può dedurre che la legge ha stabilito come criterio di umanità il criterio di autonomia. Scelta infelice e tra l'altro non scientifica. Infatti biologicamente l'uomo è autonomo fin dal concepimento perché distinto dal padre e dalla madre e diverso da qualsiasi altro individuo umano. Inoltre il concetto d'autonomia, come capacità di vita autonoma, è relativo in quanto coglie solo il rapporto della realtà umana con l'ambiente ma non la realtà in sé.
Dal momento in cui il concepito diviene capace di vita extrauterina la legge protegge la vita, quella della madre e quella del figlio. L'equilibrio viene ricercato solo tra questi due valori, mentre l'esegesi degli articoli 4, 5, 6, 7 mostra che prima di questo periodo vengono protette la libertà e la salute della donna con una progressiva limitazione della prima quando aumentano i rischi per la seconda. Viene pertanto negato al nascituro il carattere umano per tutta la fase che precede l'inizio della vita autonoma
Contro questa affermazione si potrebbe forse sostenere che la tutela del concepito è proporzionale alla sua crescita. Secondo il nostro ordinamento non è però sostenibile una tutela che vari in rapporto alla grandezza e all'efficienza dell'uomo.
Si potrebbe distinguere tra "vita umana", presente nel concepimento, e "uomo" a partire dal momento dell'autonomia . Ma questa distinzione o introduce una categoria inammissibile, quella del "mezzo uomo", o non giustifica la non tutela del concepito.
O ancora si potrebbe sostenere che la logica di questa legge sta nel voler combattere l'aborto clandestino con una diminuzione complessiva degli aborti con conseguente difesa della vita anche dal suo concepimento. Ma se l'aborto è considerato soppressione di un individuo, questo avviene sia se si interviene clandestinamente che legalmente; si dovrebbe quindi evitare il danno che provoca l'aborto, quali che siano le circostanze in cui questo avviene. Invece la legge combatte l'aborto clandestino non per tutelare la vita umana, ma per altri motivi quali: i maggiori rischi che questo comporta per la salute della donna, lo sfruttamento economico, perché crea disuguaglianza tra donne ricche e povere, perché diventa più difficile trovare persone disposte a praticare l'aborto. Ciò che viene tutelato è sempre la salute e la libertà della donna.
C'è anche da considerare che l'aborto clandestino significa non rispetto della legge penale quindi con la legalizzazione lo Stato difende la sua "dignità" in quanto non ha nessun interesse a dare comandi che vengano disubbiditi. Ma non è certo la vita ad essere difesa!
E' vero che l'aborto clandestino non permetterebbe un intervento di dissuasione da parte dello Stato e ciò comporterebbe una minore difesa del nascituro, ma è proprio impossibile che coesistano un divieto generale d'aborto e una legislazione che prevede una capillare educazione sociale?
Al di là di queste considerazioni resta il fatto, come prova schiacciante che la legge non è nata per combattere l'aborto clandestino, che l'attuale legislazione non prevede nessun irrigidimento penale tale da favorire il ricorso alla legalità. Al contrario, l'art. 19 non solo riduce le pene anche per i fatti rimasti punibili, ma addirittura riduce la pena per la donna, nei primi tre mesi di gravidanza, a quella pecuniaria da £ 5.000 a £ 100.000.
Se si fosse intrapresa la strada della liberalizzazione per garantire il diritto alla vita del concepito, riconoscendone la sua dignità umana, la repressione dell'aborto clandestino avrebbe dovuto conservare tutta la sua forza dissuasiva. Questo non è avvenuto.
1.b) Il concetto di "interruzione di gravidanza"
La definizione tradizionale del procurato aborto è quella di uccisione intenzionale del feto all'interno dell'utero (per tutto il periodo della gestazione) o intenzionale morte del feto, nato vivo, ma incapace di vivere a causa della precoce interruzione di gravidanza1.
L'attuale legge ha voluto usare, al posto del più preciso termine aborto, il termine "interruzione di gravidanza". Per interruzione di gravidanza sappiamo che si intende l'artificiale cessazione dello stato di gestazione prima dell'esito naturale del parto. Vi può pertanto essere interruzione di gravidanza per tutto l'arco dei nove mesi. Da ciò deriva che non sempre l'interruzione di gravidanza determina la morte del concepito, si pensi ai parti prematuri in cui è possibile la sopravvivenza del bambino. L'interruzione di gravidanza non è, perciò, sinonimo d'aborto.
C'è da chiedersi se usando ripetutamente il termine "interruzione di gravidanza" la legge abbia voluto veramente intendere ciò che la parola significa o piuttosto allargare lo spazio limitato espresso dal concetto d'aborto.
L'uso ipocrita di questo termine può causare molti equivoci. Prendiamo l'esempio di un medico obiettore che deve effettuare un taglio cesareo al settimo mese per salvare la vita del figlio. Deve essere in questo caso revocata l'obiezione di coscienza?
Secondo l'art. 18 la pena per l'interruzione della gravidanza effettuata senza il consenso della donna viene diminuita quando dalle lesioni "deriva l'acceleramento del parto" mentre l'art. 1, dichiarando che l'interruzione di gravidanza non è mezzo di controllo delle nascite, certamente non si riferisce ad interventi che fanno sì cessare la gravidanza ma che determinano anche la nascita naturale. Questo dimostra che il parto prematuro è considerato una cosa diversa dall'interruzione di gravidanza e ogni volta che la legge parla di "interruzione di gravidanza" intende riferirsi ad interventi che causano la morte del feto. Il primo comma dell'art. 14, che chiama "procedimenti abortivi " tutti gli interventi disciplinati dalla legge, conferma che il termine "interruzione di gravidanza" è usato come sinonimo di "aborto". Possiamo pertanto concludere che l'uso del "sinonimo" è soltanto una ipocrita maschera con cui coprire la bruttura di atti che, al di là delle parole, restano soppressione intenzionale del feto.
CAPITOLO SECONDO
L'ARTICOLO II
- I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza:
a) informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio;
b) informandola sulle modalità idonee ad ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante;
c) attuando direttamente o proponendo all'ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali intervnti di cui alla lettera a);
d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza.
L'attività più importante dei consultori diventa, da una parte, quella di informare la donna sui metodi di contraccezione e di prescrivere ricette mediche a tale scopo, e dall'altra quella di rilasciare i certificati necessari per praticare l'aborto. E' vero che molte donne non chiedono di più al consultorio; è vero anche che le donne che si presentano al consultorio per avere il certificato d'aborto sono già decise ad abortire ed è difficile convincerle a portare a termine la loro gravidanza; è vero, infine, che il consultorio deve compiere gli accertamenti "nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna" (art. 5), cosicché se la donna rifiuta di esporre la sua situazione e, in particolare, i motivi per cui vuol abortire, il consultorio ha le mani legate e può fare ben poco; ma non è meno vero che in molti consultori pubblici la maggioranza degli operatori (medici, psicologi, assistenti sociali) sono favorevoli all'aborto e perciò non fanno nulla per aiutare le donne a non interrompere la gravidanza e a trovare una soluzione alternativa. Si deve rilevare, a tale proposito, la grave difficoltà in cui s'imbattono gli obiettori di coscienza che operano in consultori pubblici d'indirizzo abortista.
CAPITOLO TERZO
L'ARTICOLO III
- Anche per l'adempimento dei compiti ulteriori assegnati dalla presente legge ai consultori familiari, il fondo di cui all'art. 5 della legge 29 luglio 1975, n. 405, è aumentato con uno stanziamento di £ 50.000.000.000 annui, da ripartirsi fra le regioni in base agli stessi criteri stabiliti dal suddetto articolo.
Alla copertura dell'onere di lire 50 miliardi relativo all'esercizio finanziario 1978 si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto nel capitolo 9.001 dello stato di previsione della spesa del Ministero del Tesoro per il medesimo esercizio. Il Ministro del Tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le necessarie variazioni di bilancio.
La legge n. 405 del 1975 prevedeva uno stanziamento annuo di 10 miliardi; la nuova misura del contributo statale, quintuplicato rispetto a quello previsto nella legge istitutiva dei consultori, avvalora le importanti funzioni che i consultori devono svolgere. Infatti, se compito dei consultori fosse soltanto, alla luce della legge 194, il colloquio con il medico ed il rilascio del certificato o del documento previsti dal 3° e 4° comma dell'art. 5, il maggior onere finanziario a carico di essi sarebbe pressoché nullo e insensato l'aumento di fondi. Il vero è che l'aumento di disponibilità economiche deve servire per mettere in grado le strutture di offrire un sostanziale aiuto alla gestante in difficoltà, il che comporta un ampliamento e potenziamento degli organici dei collaboratori e non esclude, ritengo, neppure un intervento economico diretto allorché le difficoltà in cui si dibatte la gestante siano di ordine economico.
CAPITOLO QUARTO
L'ARTICOLO IV
- Per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell'articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975, n. 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.
Per comprendere l'art. 4 dobbiamo esaminare attentamente anche l'art. 5. E' dall'analisi di entrambi che si deduce come è stato attuato il principio della cosiddetta "autodeterminazione" della donna che, insieme alla "depenalizzazione", costituiscono le strutture portanti della legge.
A prima vista l'art. 4 sembra precisare una casistica. Ma l'art. 5 prevede che il medico deve in ogni caso rilasciare il "documento" che rende possibile l'aborto, anche se non vi è la possibilità di verificare la sussistenza delle condizioni elencate dall'art. 4. Pertanto la casistica dell'art. 4 non determina una distinzione tra aborto lecito e quello illecito mentre dobbiamo dire che l'ampia quantità dei casi previsti da tale casistica dà alla donna la possibilità di scegliere liberamente.
4.a) Il termine dei novanta giorni
Come già si è osservato nel commento all'art. 1, la legge per l'interruzione di gravidanza stabilisce tre diversi regimi giuridici nei tre periodi di gestazione. Il primo periodo è quello dei primi novanta giorni (artt. 4, 5, 19, 1° e 2° comma); il secondo quello che va dal 90° giorno al momento in cui il concepito è capace di vita autonoma (artt. 6, 7, 19, 3° 4° comma); il terzo quello che va dal tempo in cui il figlio raggiunge la capacità di vita autonoma fino alla nascita (art. 7 ultimo comma).
La prima considerazione da farsi è che il termine dei tre mesi ha un significato esclusivamente convenzionale in quanto nel processo gestativo non avviene nessuna modificazione tale da giustificare una disciplina differenziata dal giorno prima al giorno dopo il novantesimo. Come sappiamo, lo sviluppo intauterino consiste in una progressiva evoluzione.
La precisazione del termine ha come unico scopo quello di proteggere la salute della donna. Infatti nella relazione di maggioranza al progetto di legge presentato alla Camera nella VII legislatura leggiamo che "essendo l'aborto nel primo trimestre meno traumatizzante e rischioso che nel periodo successivo, lo Stato ha interesse a consentire l'interruzione di gravidanza, con assistenza medica, in detto periodo piuttosto che costringere la gestante a ricorrere all'aborto clandestino o porla in una condizione di indifferenza rispetto all'esecuzione dell'intervento in uno stadio più inoltrato della gravidanza"1.
Un'altra questione è stabilire il 90° giorno ai sensi dell'art. 4. Noi sappiamo che, non essendo possibile stabilire il momento della fecondazione, nel linguaggio medico e corrente si tiene conto dell'età gestativa e non concezionale, ovverosia la durata della gravidanza si stabilisce dall'ultima mestruazione della donna. Succede però che, trattandosi di interruzione di gravidanza e non potendosi interrompere un processo che ancora non esiste, i 90 giorni decorrono dal momento del presumibile concepimento, che per lo più avviene a metà del ciclo mestruale. In questo modo l'aborto sarebbe possibile, secondo una interpretazione letterale degli articoli 4 e 5, non più solo fino al 90° giorno ma fino a circa tre mesi e mezzo ( 15 settimane) dall'inizio dell'ultima mestruazione.
Altro punto importante è provare l'età della gravidanza prescindendo da ciò che dichiara la donna. In questo caso si tratta di controllare quanto ha detto la gestante mediante accertamenti accurati, la mancanza dei quali rende facilmente possibile un errore di 10-15 giorni ed anche di mesi. Teniamo presente, a tal proposito, che la legge prevede un solo incontro e la consulenza anche del solo medico generico il quale non ha la possibilità di fare accurati accertamenti.
4.b) Le indicazioni per l'interruzione di gravidanza
Solitamente le giustificazioni dell'aborto vengono catalogate in: indicazione terapeutica, indicazione etica, indicazione eugenetica, indicazione sociale. In questo tipo di classificazione l'aborto terapeutico è distinto dagli altri.
Secondo gli articoli 4 e 5 ogni interruzione di gravidanza ha come comune denominatore il pericolo per la salute della donna per cui l'aborto terapeutico è una categoria in cui far confluire tutte le altre indicazioni.
Prima di approfondire il concetto di "salute", analizziamo le altre indicazioni menzionate.
Per quanto riguarda le "condizioni economiche, sociali o familiari" a cui fa riferimento l'art. 4, sono indicazioni estremamente generiche in quanto si riferiscono a tutto l'ambiente in cui la gestante vive e alle modalità con cui vive. E' praticamente impossibile stabilire in che cosa consistano tali condizioni, si può solo dire che ci si vuole riferire sicuramente a "difficoltà" economiche, familiari e sociali, non di più. In queste situazioni si fanno rientrare i casi di "ragazza madre", di ragazze giovanissime, di madri di famiglie numerose.
Nelle "circostanze in cui è avvenuto il concepimento" rientrano i casi di violenza carnale e di incesto. Ma essendo questa espressione molto più ampia della tradizionale "indicazione etica", è possibile far rientrare in tale indicazione, non solo i casi di vera violenza carnale, ma anche tutti quei casi in cui la gestazione è imposta, come per esempio il non funzionamento di un anticoncezionale. In definitiva questa indicazione può riguardare tutte le gravidanze che sin dall'inizio non sono state volute. L'unico limite è costituito dal fatto che le circostanze devono incidere sulla salute fisica o psichica. Limite che in definitiva non esiste perché, come vedremo in seguito, il concetto di salute psichica elimina ogni limite, ogni barriera, rendendo giustificabili tutti gli interventi abortivi.
Per quanto riguarda le "previsioni di anomalie o di malformazioni del concepito", la legge parla esclusivamente di "previsioni", vale a dire di possibilità, anche remote, vissute a livello soggettivo da chi teme l'anomalia o la malformazione del futuro figlio. Non sono neanche specificati la natura e il tipo di danno, quindi l'anomalia potrebbe anche essere irrilevante o riguardare organi del tutto secondari.
In definitiva, secondo l'art. 4, tutte le ipotesi sono valide per ricorrere all'aborto.
4.c) Il concetto di salute nell'art.4
Il fatto che tutte le indicazioni siano state collegate al concetto di salute della donna, e soprattutto di salute psichica, fa perdere ogni possibilità di oggettivare le circostanze e le condizioni per cui si ricorre all'aborto. Se la legge avesse stabilito solo criteri di riferimento oggettivi sarebbe stato possibile stabilire criteri di liceità e illiceità per le interruzioni. Per quanto si sarebbe potuto ricorrere ampiamente all'aborto, perlomeno sarebbe stato possibile delimitare una stretta fascia di illiceità in cui far rientrare, per esempio, le azioni dettate da puro egoismo.
L'aver voluto riferire tutte le indicazioni alla salute psichica significa che non è presa in considerazione la "condizione" ma il modo con cui questa è personalmente vissuta dalla donna. Sappiamo come è facile enfatizzare situazioni in verità irrilevanti. Eppoi ciò che può essere di peso e angoscia per una donna non lo è per un'altra. E' dunque impossibile stabilire punti di riferimento oggettivi. Neanche il criterio di "serietà di pericolo" previsto dalla legge è valido per una oggettivizzazione perché anche l'intensità del turbamento è totalmente soggettiva nella sfera psicologica.
Viene da sospettare che l'introduzione della alternativa riguardante la salute psichica abbia voluto modificare il tradizionale concetto di salute in modo da rendere giustificabili interruzioni di gravidanza motivate da ragioni che non hanno nulla a che fare con la salute.
L'aver introdotto l'alternativa "fisica-psichica" fa perdere il tradizionale concetto di salute intesa come assenza di degenerazioni patologiche ciascuna con il proprio nome. Salute diventa "completo benessere" con assenza di qualsiasi turbamento, preoccupazione, dispiacere e contrarietà, che invece fanno normalmente parte di ogni esistenza umana.
Nell'art. 4 si elenca, tra le altre cause di pericolo per la salute fisica-psichica, anche la salute. Se non si deve pensare ad una svista del legislatore o ad una tautologia, si deve dire che per valutare le condizioni di generale benessere della donna bisogna considerare, oltre alle altre condizioni, anche la salute in senso proprio. Dunque la prima "salute", quella fisica-psichica, è cosa diversa dalla "seconda", che ha un significato più ristretto e diverso dalle altre circostanze.
Si fa poi riferimento al parto e alla maternità, ma le difficoltà che questi possono generare sono semplici previsioni future che hanno come fondamento l'ansia e la preoccupazione. E se si considera che la maternità copre tutto l'arco di esistenza della madre e del figlio e che l'unico limite cronologico che si può mettere è il momento in cui il figlio, uscendo dalla patria potestà, non comporta più responsabilità per i genitori, si può notare la genericità di tali riferimenti. Si pensi che nei primi mesi di gestazione la madre può essere eventualmente preoccupata per l'andamento scolastico del figlio o per la sua sistemazione professionale.
Se dunque per salute si intende uno stato di generale benessere, dobbiamo dire che ogni gravidanza non accettata è motivo di preoccupazione e di ansia che fanno perdere il benessere. La stessa gravidanza, rendendo più difficile i movimenti e dando origine ai consueti disturbi neurovegetativi, diminuisce lo stato di benessere.
Se così stanno le cose, in tutta verità dobbiamo dire che il riferimento alla salute non costituisce un effettivo limite in quanto il comune denominatore di tutte le indicazioni per l'interruzione di gravidanza non è il pericolo per la salute ma la non accettazione di una gravidanza non desiderata. Il non volere il figlio è ciò che rende facoltativo l'aborto e l'unica capace di giudicare la compromissione della salute diventa la donna.
4.d) La serietà del pericolo per la salute
L'art. 4 prende in considerazione non ogni pericolo ma quello "serio"
Secondo la dottrina penalistica "seri" sono da considerarsi quei pericoli che hanno una maggiore possibilità di attuarsi, cosicché il pericolo più marcato di tutti è quello "imminente", cioè quello in cui il danno quasi certamente si instaura.
La prima osservazione da fare è che nell'art. 4 la serietà è riferita al pericolo, non al danno. La legge non dice: "la donna che accusi circostanze che determinerebbero un pericolo di un serio danno alla salute", ma "la donna che accusi circostanze che comporterebbero un serio pericolo per la salute". Se ne deduce che non è presa in considerazione l'entità del danno ma la sua previsione.
C'è da notare anche la singolare formulazione con cui inizia l'art. 4: "La donna che accusi circostanze...si rivolge...". E' davvero ben strano che la norma non dica: "Quando sussistano circostanze la donna...si rivolge...". Secondo questa espressione non conta se esistano o no le circostanze, ciò che si pone in rilievo è la deduzione della loro sussistenza. Questo rende chiara la logica che è a fondamento della legge: rimettere il giudizio nelle mani della donna.
4.e) Il medico di fiducia
Secondo la legge la gestante può rivolgersi ad un consultorio o ad una unità socio-sanitaria o semplicemente al medico di fiducia.
Non è stato reso obbligatorio il passaggio dal consultorio ma si è lasciata piena libertà alla donna e il ricorso al medico di fiducia rende più facile la possibilità di ottenere il documento che consente l'aborto. Si pensi per esempio alla possibilità di ricorrere ad un altro medico qualora non si ottenga il desiderato documento dal medico consultato. C'è inoltre da considerare che al medico è richiesta solo l'iscrizione all'albo. Non si richiede né maturità, né esperienza, né la dipendenza da strutture ospedaliere. Non è nemmeno necessaria la specializzazione, e ciò è grave, considerando che si richiede l'accertamento dello stato di gravidanza e dell'età gestazionale. Anzi, vi è la paradossale possibilità da parte della donna di rivolgersi, non solo a medici generici, ma anche a specialisti di materie lontanissime dai problemi concernenti la gravidanza, come dentisti, ortopedici, oculisti, ecc.
CAPITOLO QUINTO
L'ARTICOLO V
- Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto.
Quando la donna si rivolge al medico di sua fiducia questi compie gli accertamenti sanitari necessari, nel rispetto della dignità e della libertà della donna; valuta con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, anche sulla base dell'esito degli accertamenti di cui sopra, le circostanze che la determinano a chiedere l'interruzione della gravidanza; la informa sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può far ricorso, nonché sui consultori e le strutture sociosanitarie.
Quando il medico del consultorio o della struttura sociosanitaria, o il medico di fiducia, riscontra l'esistenza di condizioni tali da rendere urgente l'intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l'urgenza. Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza.
Se non viene riscontrato il caso di urgenza, al termine dell'incontro il medico del consultorio, o della struttura sociosanitaria, o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all'art. 4, le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole ai sensi del presente comma, presso una delle sedi autorizzate.
L'intervento dei consultori e del medico di fiducia, oltre a garantire gli accertamenti necessari e a verificare l'urgenza, ha come scopo quello di analizzare con la donna i motivi che la spingono ad abortire, e quando fosse possibile, a dissuaderla dal gesto.
Pensiamo, per esempio, a casi in cui la donna è in ansia a causa di una sua malattia che in verità non ha poi incidenza sulla gravidanza. O all'eventualità di assunzione di farmaci da parte della donna gestante che si rilevano innocui all'indagine del medico. In questo caso la gestante potrebbe sentirsi rassicurata dal parere del medico e soprassedere dalla decisione di abortire.
Pertanto è doveroso da parte del medico compiere in ogni caso indagini, anche se purtroppo tali accertamenti hanno dei limiti.
Innanzitutto per quanto riguarda l'incidenza sulla salute psichica che le circostanze affermate dalla donna possono avere. E' noto infatti che le diagnosi di tipo psichiatrico e psicologico sono difficilissime e richiedono tempi molto lunghi. L'ultimo comma dell'art. 5, invece, prevede un solo incontro, così come è scritto: "Se non viene riscontrato il caso d'urgenza, al termine dell'incontro il medico... rilascia, ecc." Inoltre, nel caso vi sia pericolo per la salute psichica, il medico dovrebbe accertare l'esistenza della condizione dichiarata dalla donna e la sua incidenza sulla salute. In quanto al primo punto ci chiediamo quali strumenti di accertamento siano a disposizione del medico e quale competenze egli abbia, considerando che le circostanze accusate dalla donna possono riguardare questioni della sua vita privata e non è possibile effettuare sopralluoghi, interrogare persone, chiedere certificati, scrivere ad enti per ottenere informazioni.
E' difficile anche valutare le conseguenze che le circostanze dedotte possono avere sulla salute psichica. Se già comporta difficoltà stabilire se un soggetto è realmente affetto da ansia o da serio squilibrio psichico, tanto meno è possibile valutare un eventuale pericolo di squilibrio futuro in una persona che attualmente si comporta in modo normale. Inoltre, in presenza di identiche situazioni, la reazione varia da soggetto a soggetto. E' dunque impossibile un giudizio che valuti il rapporto tra le circostanze e le conseguenze che la donna dice di temere.
In definitiva il medico può compiere accertamenti soltanto in ordine a malattie psichiatriche di tipo tradizionale, soprattutto se ci sono precedenti certificazioni o ricoveri.
Altro accertamento che il medico ha il dovere di fare riguarda le "previsioni di anomalie o malformazioni del nascituro". Anche se nei primi tre mesi è impossibile fare verifiche sul concepito, si dovrà quantomeno dichiarare alla donna se il suo timore è o no ragionevole, dopo aver preferibilmente verificato le circostanze.
Un secondo limite nella possibilità di accertamenti è dovuto all'espressione "nel rispetto della dignità e della libertà della donna". Questo comporta che la donna può non essere sottoposta a controlli che rifiuta o non chiede. Infatti il 1° comma dell'articolo non menziona questo "rispetto per la dignità e la libertà" ma solo dichiara che "si garantiscono" gli accertamenti desiderati. Dunque si suppone, tanto al 1° che al 2° comma il consenso della gestante agli accertamenti.
Se esistesse un obbligo per la gestante di accettare gli accertamenti, il loro rifiuto avrebbe una conseguenza giuridica: il rifiuto da parte del medico del certificato che autorizza l'interruzione di gravidanza, anche se può apparire ingiusto negare il certificato alla donna che abbia rifiutato un accertamento quando poi potrebbe ottenerlo adducendo "circostanze attinenti al concepimento o sociali, o familiari o economiche". Ma pur volendo lasciar libera la donna di abortire, l'obbligo avrebbe comunque messo la donna nella possibilità di avere maggiori chiarimenti così da poter decidere con più maturità e perciò con più libertà.
Tutta la logica dell'art. 5 sta, secondo me, nel fatto che la donna può abortire quando lo vuole, ma che deve pensarci bene e farsi aiutare a riflettere, il che potrebbe comportare il dovere per lei stessa di farsi fornire dal medico un giudizio esauriente e motivato sulle proprie condizioni di salute (in senso stretto). Resta però la difficoltà di accertamenti lunghi e complessi e quindi non coerenti con una procedura che sembra richiedere tempi brevi.
5.a) Esame e valutazione dei problemi proposti. Ruolo del padre del concepito
Secondo quest'articolo il consultorio "esamina le possibili soluzioni dei problemi" mentre il medico, che non è certamente in grado di suggerire soluzioni sociologiche ai problemi, "valuta" solo se le circostanze economiche, sociali o familiari possano creare seri problemi. Ma anche questa valutazione è difficile per il medico, si potrà giusto limitare ad esortare la madre al coraggio.
Sia nel 1° che nel 2° comma dell'art. 5 è ripetuta l'espressione "nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna", in riferimento al compito del consultorio che "esamina le possibili soluzioni del problema" e al medico che "valuta" se le circostanze economiche, sociali o familiari possono creare pericoli seri. Probabilmente in entrambi i casi per "rispetto" si intende non sottoporre la donna a dure e traumatizzanti pressioni per indurla a non abortire.
La legge chiede che si "esamini con la donna" e si "valuti con la donna". Pertanto il colloquio deve essere considerato una offerta di aiuto chiarificatore e non un rapporto di controllo, scoraggiando probabilmente un atteggiamento di sfiducia verso la gestante. Il giudizio del consultorio e del medico non deve sovrapporsi a quello della donna ma solo contribuire a farglielo formare. Da questo modo di esprimersi della legge si intuisce che la decisione ultima spetta alla donna.
Quanto alla "riservatezza" essa indica l'obbligo di non rivelare a nessuno, senza il consenso della donna, ciò che la gestante espone. Questo comporta un limite alle possibilità di controllo dei fatti esposti dalla donna, ci si dovrà fidare solo di quello che ella dice.
Sembra, inoltre, che il diritto alla riservatezza comporti da parte del consultorio e del medico anche l'obbligo di non esigere dalla donna rivelazione di fatti che essa non intende svelare perché penosi ed eventualmente lesivi della propria personalità morale.
Il fatto che il padre del concepito può essere interpellato nella "valutazione" solo se la donna lo consenta può essere considerato una particolare applicazione di questo principio.
La questione del padre del concepito comporta una scelta ideologica di fondo ed è stata oggetto di serrati confronti da parte delle forze politiche già nei lavori preparatori.
Per l'identificazione della paternità ci si deve rimettere alle indicazioni della gestante, essendo nota la difficoltà di identificare la reale paternità del concepito, ed è parzialmente comprensibile che la legge, in materia d'aborto, attribuisca al padre un ruolo secondario. Infatti, una gestante che vuole eventualmente escludere l'intervento paterno e teme da parte di questi di essere ostacolata nella sua decisione abortiva, potrebbe agevolmente contestare la paternità ricorrendo alla frode, o rifiutarsi di indicare chi sia.
Posto che esista un padre certo o indicato dalla donna, si possono fare due considerazioni.
Se al concepito si attribuisce una dignità umana, lo si riconosce perciò quale entità autonoma e distinta, sarebbe una ingiusta mortificazione della sfera giuridica del padre il fatto che non occorre il suo consenso per procedere all'aborto. Infatti la Costituzione sancisce (art. 30, 1° comma) che le responsabilità di allevare i figli, con i relativi obblighi e diritti, gravano su entrambi i genitori. Ed anche secondo il diritto di famiglia esiste completa parità tra coniugi nel matrimonio (art. 143 cod. civ. ) anche in ordine alla patria potestà attribuita congiuntamente ad entrambi i genitori ( art. 316 cod. civ. ), disposizione, quest'ultima, valida anche per la filiazione illegittima ( art. 261 cod. civ. )
Nel caso invece non si attribuisca al concepito il carattere di individuo, l'aborto diventa una questione che riguarda solo la donna e la sua salute, e l'esclusione del padre e di qualsiasi altra terza persona farebbe parte del diritto di autogestione del proprio corpo. Ed è proprio la logica della legge 194.
Consultare il padre, senza comunque conferirgli potere decisionale, sarebbe stato un riconoscere la sua situazione di "paternità", anche se in modo indiretto. Pur lasciando alla donna la "decisione finale", il parere del padre avrebbe potuto portare ad una maggiore chiarificazione e pertanto ad una scelta più matura. Sicuramente il padre avrebbe potuto fornire ulteriori informazioni riguardanti le condizioni della donna accusate ai sensi dell'art. 4, consentendo al medico e al consultorio una valutazione più approfondita e vera, quindi più seria, e perciò più capace di allontanare la prospettiva dell'aborto. Molto spesso la donna vive in totale solitudine il "dramma dell'interruzione della gravidanza", basterebbe solo suscitare un po' di solidarietà intorno a lei per renderlo evitabile.
A questa ipotesi si potrebbe obiettare che la donna, esistendo l'obbligo di informare il padre del concepito, rifiuterebbe il colloquio con consultori e medici ricorrendo all'aborto clandestino, peraltro ancora possibile, data la scarsa perseguibilità da parte della legge. Si poteva ovviare a tale difficoltà usando una espressione che ponesse l'obbligo di ascoltare il padre quando ritenuto opportuno ai fini della dissuasione dell'aborto. La legge invece lascia al solo consenso della gestante la possibilità di intervento del padre tutelando così esclusivamente la libertà della donna.
5.b) L'aiuto a rimuovere le cause che porterebbero all'interruzione di gravidanza. Compito specifico dei consultori
Una volta compiuti tutti gli accertamenti si passa ad una fase che dovrebbe essere la più importante e cioè quella di dissuadere la donna dal proposito di abortire. L'azione di dissuasione è però mediata e indiretta in quanto si tratta di offrire alla gestante possibilità alternative che l'aiutino a superare le difficoltà che la inducono ad interrompere la gravidanza. In questa fase è diversificata l'azione del medico e quella del consultorio. Il primo infatti ha solo il compito di informare, mentre il consultorio ha anche compiti operativi. Dobbiamo rilevare, anche in questo caso, che si è affidato al medico un compito che supera di gran lunga le sue competenze. Infatti l'informazione dei diritti che spettano alla gestante comporta una approfondita conoscenza delle leggi ed una capacità di applicazione delle norme al caso concreto, cose che il medico può non avere. Così come possono essergli sconosciute le eventuali possibilità di "interventi di carattere sociale".
Queste competenze, invece, sono più pertinenti al consultorio, il quale deve aiutare la gestante a far valere i suoi diritti sostenendola ed aiutandola al fine di metterla nelle condizioni di poter continuare la gravidanza. Questo compito del consultorio appare chiaro da tutto l'art. 2, specie dalla lettera d). Il fatto però che il legislatore si sia rifiutato di prendere atto del carattere umano del nascituro sin dalle sue origini, determina equivoci tali che l'azione preventiva da parte del consultorio diventa inefficace.
Considerando poi che uno dei compiti del consultorio e delle unità socio-sanitarie è quello di "aiutare a rimuovere le cause che porterebbero all'interruzione di gravidanza", c'è da domandarsi se tra le cause non vi è spesso la mancanza di consapevolezza, da parte della gestante, del carattere umano del nascituro. E' chiaro che una donna sarà meno disposta a fare sacrifici per una "masserella genetica" o per un "progetto di vita", mentre si sentirà più pronta a dilatare generosamente il suo cuore di madre per accogliere la vita, già presente, del suo figlio.
Credo perciò che sia doveroso, anche se ciò va fatto con prudenza e cautela, richiamare alle esigenze morali che stanno alla fonte della legge ed anche descrivere i processi vitali che si svolgono nell'utero materno. Sono convinta che ai fini di una prevenzione dell'aborto sia molto più efficace un colloquio leale e aperto su queste tematiche che la semplice dichiarazione dei diritti che spettano alla donna. In fondo il senso della legge è di voler affidare al senso morale della donna la difesa del nascituro. E' pertanto giusto che i consultori e le strutture socio-sanitarie facciano leva su questo senso morale, certo non colpevolizzando la donna o richiamando astrattamente i principi, ma suscitando in lei il senso positivo della vita e dell'impegno; e questo è possibile solo se si comprende il grande significato della realtà umana che porta in grembo.
Purtroppo la legge così come è stata formulata appare incoerente, non solo perché non ha definito sufficientemente i compiti dei consultori, e questo comporta la possibilità di equivoci, ma soprattutto perché mancano norme collaterali capaci di mobilitare la coscienza collettiva.
Il fatto che la 194 abbia voluto sostituire l'intervento sociale a quello penale significa che lo Stato vuole combattere la soppressione di esseri umani nella fase prenatale, non sanzionando un divieto, ma con strumenti di carattere sociale. Ciò comporterebbe il ricorso a strumenti di tipo educativo e solidaristico-assistenziali.
Prescindendo dal voler approfondire se ci sia reale antitesi tra divieto d'aborto e il predisporre strumenti di prevenzione sociale, credo si possa ritenere alquanto riduttivo considerare il consultorio, l'unità socio-sanitaria o il medico di fiducia quali unici strumenti di socializzazione. Non si deve sottovalutare la possibilità di prevenzione che deriva da una educazione remota al rispetto della vita e dall'esercizio responsabile della sessualità. In fondo l'aver voluto affidare la tutela del nascituro al senso morale della donna più che al diritto penale comporta una certa preminenza di interventi a carattere educativo, senza per questo tralasciare quelli economici-assistenziali
Se per punti di socializzazione si intendono quei momenti di rapporto di interdipendenza con la società, sono questi momenti estremamente importanti nella vita di una persona in quanto condizionano di fatto le scelte che si possono fare. Non si può negare che vi sono punti di socializzazione che possono influire molto sulla questione aborto. Si deve ammettere, per esempio, che molto spesso la donna non riceve stimoli che l'aiutino a prendere coscienza del rispetto che merita il nascituro in quanto persona umana. Si può anche parlare di una "socializzazione" in favore dell'aborto ogni volta che viene omessa a livello educativo scolastico una informazione seria sullo sviluppo intrauterino del nascituro; o anche quando i mass media, contestando l'umanità del concepito, banalizzano l'interruzione di gravidanza prospettandola come comoda soluzione a difficili problemi; oppure quando l'obiezione di coscienza viene considerata da parte di certi medici non come incoercibile volontà di non partecipare all'uccisione ma l'espressione di interessi personali o di credenze irragionevoli.
Pertanto, una legge che punta sullo sviluppo del senso morale della donna, pur prevedendo l'autodeterminazione e la depenalizzazione, dovrebbe quantomeno prevedere interventi scolastici, il divieto di propaganda dell'aborto, una disciplina dell'obiezione di coscienza che ne sottolinei il valore educativo in quanto tutela il senso della vita umana.
Le lacune della legge sotto quest'aspetto, il linguaggio cauteloso dell'art. 5 ed equivoco dell'art. 1, ci danno la certezza che la 194 ha come scelta ideologica di fondo il voler mettere in secondo piano la vita del nascituro.
Ad ogni modo da un'attenta lettura dell'art. 5 appare chiaro che i consultori hanno l'obbligo di preferire la maternità, anche se non sono espressi sufficientemente i motivi di tale preferenza.
Ritengo che il compito del consultorio non dovrebbe essere quello di rendere possibile l'aborto ma piuttosto di tutelare la maternità, di informare correttamente sul carattere umano del concepito e sul suo diritto alla vita. A tale scopo il personale dei consultori dovrebbe essere scelto in modo da garantire la prevenzione dell'aborto, preferendo chi, per attività precedenti, sia già impegnato sul fronte della tutela della vita o quantomeno abbia una tale sensibilità, mentre si dovrebbe considerare grave violazione dei doveri d'ufficio l'omissione di una qualsiasi azione di dissuasione all'aborto. Così come si deve vietare, nei corsi informativi ed educativi, ogni descrizione dell'aborto avulsa dal suo reale significato di soppressione di una vita umana.
5.c) Il certificato attestante l'urgenza
L'art. 5 dà al medico di fiducia la possibilità di rilasciare un "certificato" d'urgenza con cui la donna può presentarsi ad una delle sedi autorizzate per praticare l'interruzione di gravidanza.
Ai fini amministrativi non vi è diversità tra il certificato d'urgenza e il documento normalmente rilasciato senza l'urgenza. Entrambi sono "urgenti" perché rendono possibile il ricovero ospedaliero secondo le procedure stabilite per i ricoveri urgenti. La differenza consiste nel non ritenere necessaria, nel caso d'urgenza, l'attesa di sette giorni prima che si possa effettuare l'interruzione di gravidanza.
L'attesa dei sette giorni ha una funzione importantissima in quanto dà alla donna la possibilità di prendere una decisione ponderata, escludendo la possibilità di ripensamenti o rimpianti. Spesso la notizia improvvisa di una gravidanza indesiderata fa nascere uno stato di ansia e angoscia, basterebbe una breve attesa per ritornare nella calma e prendere decisioni serene. Sarebbe anzi auspicabile utilizzare questi sette giorni per ulteriori azioni da parte dei consultori al fine di incoraggiare e sostenere la madre esortandola alla maternità. Questo non è previsto dalla legge, ma potrebbe essere una procedura possibile e giuridicamente non vietata.
In definitiva l'attesa dei sette giorni tutela, anche se in modo indiretto, la vita del nascituro e l'attestazione d'urgenza cancella l'ultima sua tenue difesa.
In questo caso è il medico e non la donna che deve giudicare se è il caso di dare il certificato d'urgenza. In verità, però, dal punto di vista strettamente terapeutico una situazione del genere sembra impensabile nei primi tre mesi di gestazione. Ci chiediamo quali possono essere le motivazioni che inducono all'urgenza rendendo impossibile l'attesa di sette giorni.
Possiamo prospettare diverse ipotesi:
1) pericolo per la salute fisica;
2) pericolo per la salute psichica;
3) situazioni indipendenti dalla salute;
4) età gestazionale.
Per quanto riguarda la salute fisica, raramente esiste la possibilità di un pericolo così incombente nei primi 90 giorni di gestazione da rendere impossibile un'attesa di sette giorni.
Nel caso di pericolo per la salute psichica possiamo supporre uno stato di angoscia e disperazione tale da non rendere possibile una benché minima attesa. In questo caso il medico, su cui ricade la responsabilità del giudizio d'urgenza, dovendo agire da tecnico, non può avvalersi delle sole dichiarazioni della donna, dovrebbe quantomeno richiedere un consulto urgente di uno specialista in psichiatria. C'è poi da considerare che desiderio della legge è che sia la donna a prendere una decisione matura e responsabile. Ma una gravidanza inaspettata genera sempre turbamento ed ansia e l'attesa dei sette giorni rende possibile una decantazione di tale stato. E' noto infatti come i soggetti ansiosi siano proprio quelli che tornano sui propri passi nelle decisioni prese frettolosamente. In definitiva, in campo di salute psichica non si possono supporre casi che giustificano il certificato d'urgenza al di fuori di un incombente pericolo di suicidio verificato dall'esperienza medica e su base scientifica1 .
Per quanto riguarda le situazioni indipendenti dalla salute possiamo pensare a casi di ragazze madri fuggite da casa che intendono rientrare ad intervento già effettuato o a donne che, non volendo far sapere niente a nessuno, hanno solo pochi giorni a disposizione. Ma questi casi o si fanno rientrare in situazioni che danneggiano la salute psichica, e allora vale quanto detto nel punto precedente, o si fanno valere per se stesse e allora il medico, in quanto tale, nell'accertamento da svolgere non ha nessuna funzione.
Se invece si tratta di problemi riguardanti l'età gestazionale, si può supporre che il legislatore abbia voluto escludere il termine d'attesa quando è imminente il passaggio del terzo mese, quando, cioè, si teme che una se pur breve attesa potrebbe trasformare il concepito da "cosa" ad una realtà "più umana". La legge ha posto il termine di 90 giorni per tutelare la salute della donna. Interrompere perciò in tutta fretta la gravidanza quando si è al limite dei 90 giorni ha un senso: evita alla madre i maggiori pericoli di un eventuale intervento successivo, cui la donna potrebbe ricorrere legalmente dove esistessero le condizioni di cui all'art. 6. Potrebbe inoltre ricorrere all'aborto clandestino, cosa che la legge si propone di combattere.
Ma contro questa interpretazione vi sono alcune difficoltà che insorgono a causa della differenza tra il "certificato" di cui al 3° comma e il "documento" di cui al 4° comma. La differenza sta nel fatto che, mentre nel documento si richiede la firma della donna in modo che la responsabilità della decisione ricada su di lei -cosicché, lei o i parenti, non possano eventualmente un domani recriminare- il certificato d'urgenza viene firmato solo dal medico che risulta essere l'unico responsabile dell'atto. Ora, se l'attesa comporta un aumento del rischio perché si oltrepassa la soglia del limite che garantisce una maggiore tutela della salute della donna, non è poi un controsenso che sia proprio il medico a firmare assumendosi da solo la responsabilità di questo maggior rischio?
E se quest'urgenza voleva evitare il ricorso all'aborto clandestino, ci chiediamo: quale differenza c'è tra un certificato d'urgenza firmato solo dal medico e l'aborto clandestino in cui chi opera e chi si assume le responsabilità è solo il medico?
5.d) Il documento attestante lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta
Non ci rimane che affrontare il fondamentale e centrale problema della legge e cioè se debba o no essere rilasciato in ogni caso alla donna che lo richiede l'attestato di cui parla l'art. 5 nell'ultimo comma. Questo ci può chiarire quale peso ha il principio dell'autodeterminazione ed i suoi eventuali limiti.
Per affrontare tale questione bisogna considerare se il medico ha un potere di controllo sull'esistenza delle circostanze riferite dalla donna. In caso contrario dobbiamo chiederci se il medico ha un potere di controllo sulla incidenza delle condizioni affermate sulla salute della gestante. Data una risposta negativa anche a questa seconda domanda si deve analizzare se esistono comunque per il medico possibilità, e quali, di rifiutare il certificato che autorizza l'aborto.
A prima vista, secondo l'ultimo comma dell'art. 5, sembrerebbe possibile dare una risposta tanto in un senso che nell'altro, data la equivocità del testo.
Ma un primo punto da valutare è il seguente: analizzando il testo, compresa la punteggiatura che pone per inciso "sulla base delle circostanze di cui all'art. 4" separandolo con una virgola dalla espressione successiva che si riferisce all'attività del medico, si desume come la legge non dice che il sanitario rilascia il documento sulla base delle circostanze di cui all'art. 4, ma che il medico autorizza l'aborto di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all'art. 4. Ciò significa che le condizioni per l'aborto non sono constatate dal medico ma affermate dalla donna.
Ma l'interpretazione che sostiene l'obbligo in ogni caso di rilasciare il documento rende inutile l'art. 4, il cui senso è che ci sia una casistica, per quanto ampia, che suppone circostanze che giustificano la domanda.
Questo sarebbe avvalorato anche dall'art. 1 che, per quanto lo si possa interpretare in maniera elastica, vieta di usare l'aborto quale mezzo di controllo per le nascite.
Anche se è la donna ad affermare le circostanze, occorre comunque che ci sia una domanda fondata su queste circostanze e il medico deve giudicare se rientra nelle categorie di cui all'art. 4. Se la legge avesse previsto l'aborto a semplice richiesta avrebbe detto solo: "il medico... di fronte alla richiesta di interrompere la gravidanza... le rilascia", senza aggiungere l'inciso "sulla base delle circostanze di cui all'art. 4".
Sta di fatto, comunque, che la legge non vuole che ci sia un controllo, ne è prova la mancanza di disciplina dei controlli. D'altra parte, se pur si ammettesse la possibilità da parte del medico di "rifiutare" il documento, non si toglierebbe alla donna la volontà di abortire in quanto ella ovvierebbe semplicemente cambiando medico. Perciò sarebbe mistificante una interpretazione che volesse salvare il principio teorico del controllo perché servirebbe solo a nascondere dietro le parole la realtà operante della legge, che è l'unica che conta e che esprime la volontà del legislatore.
CAPITOLO SESTO
L'ARTICOLO VI
- L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
L'art. 6 parla di "pericolo grave". L'aggettivo "grave" è più intenso rispetto al "serio" di cui all'art. 4. Ciò significa che vi è maggiore probabilità di pericolo ma non che il pericolo sia imminente, incombente, "attuale"
6.a) Le cause determinanti il pericolo "grave"
Nella lettera a) viene considerato come causa di pericolo anche il parto, che è sì un evento certo nella gestazione, ma non necessariamente immediato. Tra i pericoli del parto vanno compresi anche quelli del "post-partum", cioè quelle malattie che sono causate dal parto e che si instaurano dopo di esso.
La lettera a) di quest'articolo non prevede, però, il pericolo derivante "dalla maternità" a differenza dell'art. 4. La maternità (la quale, in quanto contrapposta alla gravidanza, è qui intesa come rapporto madre-figlio successivo alla nascita) è impossibile che sia causa di pericolo per la vita.
Nella lettera b) non sono menzionati il parto e la gravidanza come cause di pericolo, anche se, evidentemente, il pericolo deve per forza di cose avere connessione con la gestazione. Ritengo però che, mentre il pericolo derivante dalla maternità non entri in gioco nella lettera a), questo non può dirsi della lettera b). Infatti il pericolo che può causare un processo patologico della madre o del figlio viene riferito alla salute fisica o psichica della donna. Ora, considerato il concetto di salute psichica1 e l'esclusione del requisito di attualità del pericolo, il non aver menzionato nella lettera b) né il parto né la gestazione comporta una compromissione della salute anche futura, senza limiti cronologici, potendo riguardare perciò anche la maternità. Ciò ha importanza pratica specie in rapporto all "salute psichica".
E' anche biasimevole che, secondo quest'articolo, il pericolo che giustifica l'interruzione della gravidanza non deve essere "altrimenti inevitabile", come prevedeva l'art. 54 del codice penale.
La norma così impostata ha conseguenze pratiche gravissime, considerando poi che la scienza medica è ormai in grado di curare gran parte delle malattie senza ricorrere all'aborto. Ciò significa che, anche se si può eliminare con cure mediche la possibilità di pericolo per la vita o la salute della gestante, la donna resta libera di scegliere l'aborto, la donna e non il medico, in quanto quest'ultimo ha esclusivamente il compito di documentare le condizioni previste dall'art. 6, tra cui non è prevista la inevitabilità del danno. Spetta perciò solo alla donna il giudizio di interrompere la gravidanza o far ricorso a normali presidi terapeutici. Si deve trarre come conseguenza logica che il diritto di libertà di scelta per l'aborto sussiste nella legge anche oltre il termine dei 90 giorni.
Abbiamo già visto come questo termine ha come scopo quello di tutelare la salute della donna. Le restrizioni poste oltre il 90° giorno potrebbero avere in primo luogo il senso di rendere possibile l'aborto solo quando il non praticarlo causerebbe maggiori rischi. Certo è che, anche dopo il 90° giorno, manca la tutela primaria del figlio, la sua tutela è solo secondaria, riflessa, in quanto il vero bene protetto è la salute e la libertà della donna la quale resta in definitiva libera di scegliere l'aborto al posto di una cura che semmai richiede sforzo, energie. L'aborto diviene così una sorta di mezzo terapeutico più comodo, più semplice. Se poi si vuole ricorrere all'aborto come alternativa ad una cura rischiosa non si è considerato che anche l'aborto legale può determinare danno alla salute della donna se non addirittura la morte.
Lo stesso discorso vale per i processi patologici e le anomalie o malformazioni del nascituro. Anche qui i fatti patologici non sono rilevanti per se stessi ma in quanto determinano un pericolo grave per la salute fisica e psichica. Ricordiamo che la legge intende per salute psichica il "completo benessere fisico e psichico". Perciò anche il grado di insuccesso e il carattere penoso delle cure possono essere presi in considerazione a livello di salute fisica e psichica.
6.b) Il danno temuto e le sue cause
Secondo quanto è scritto nella lettera b) la legge non dice che l'aborto è consentito quando la gravidanza fa sorgere grave pericolo o aggrava processi patologici di rilevante importanza. Se si fosse così espressa si sarebbe potuto circoscrivere, senza possibilità di equivoco, una indicazione accertabile medicalmente. Invece la legge prende in considerazione come cause i processi patologici della gestante e i processi patologici del nascituro che hanno come sbocco rilevanti anomalie e malformazioni e come effetto della causa la salute fisica o psichica della donna. Vale a dire che questa lettera b) dell'art. 6 è perfettamente parallela all'art. 4, vi è solo la diversa intensità del pericolo ed una più delimitata descrizione delle cause che comportano il pericolo.
Anche qui, come nell'art. 4, la salute psichica conserva il suo senso di totale benessere fisico-pscichico. Questo è dimostrato non solo dal contesto della legge, ma anche dal fatto che il legislatore abbia voluto specificare con due aggettivi il concetto di salute (fisico e psichico); dalla distinzione tra pericolo per la salute e i processi patologici, che, tra l'altro, sono di per sé lesioni alla salute. Soprattutto poi dal non aver voluto considerare come rischio per la salute della donna le patologie del figlio (questo sarebbe stato riconoscere al concepito un'entità di figlio) se non relativamente alla salute psichica della donna.
Questo comporta che ci sarebbe il pericolo di un ulteriore squilibrio nel caso in cui, in presenza di attuale e tradizionale malattia della gestante o del concepito, non si ricorresse all'aborto. Tale squilibrio, però, può essere qualcosa di diverso dall'aggravarsi del processo patologico già accertato e può non essere un processo patologico in senso proprio.
Ecco come continuano a giocare il loro importante ruolo il concetto estremamente lato di salute psichica e la difficoltà da parte del medico di determinare una futura difficoltà psicologica. Per una donna permanentemente ammalata di malattia mentale può essere motivo di grande disagio il dover accudire un ulteriore figlio, ma è difficile valutare quali conseguenze ci saranno per il suo equilibrio psichico. Può essere motivo di equivoci il fatto che la lettera b) dell'articolo parli di processi patologici "accertati" ma non dice che deve essere accertato il grave pericolo per la salute. Eppoi ci chiediamo se, nel momento in cui il medico deve verificare l'incidenza sulla salute, il suo giudizio non debba essere fatto in modo obiettivo cioè tenendo conto delle situazioni personali della donna. In tal modo si possono tirare in ballo tutte le indicazioni sociali, familiari, economiche, anche se limitatamente alla donna malata o al nascituro malato. Una donna ricca, per esempio, anche se malata, può occuparsi senza sforzi di un altro figlio a differenza di una donna povera. E ammettendo pure che il medico debba accertare l'incidenza dei processi patologici sulla salute, è poi possibile estendere le indagini al di là delle riscontrabili condizioni fisiche e psichiche della donna?
Un discorso a parte merita l'aborto eugenetico. Certamente è una questione che impegna ancora più a fondo i valori in cui un uomo crede. In una società come quella moderna, che si impegna per gli ultimi e gli emarginati, ripugna la soppressione di esseri che, per quanto meno efficienti, pur sono esseri umani. L'aborto eugenetico richiama alla nostra memoria orribili esperienze passate, ancora vicine nel tempo, che avevano a fondamento della loro ideologia la maggiore dignità di alcune vite rispetto ad altre. Eppure tra coloro che avversano l'aborto generalizzato si trova chi è disposto a tollerare l'aborto eugenetico per ragioni umanitarie. E' evidente che anche in questo caso la principale questione è il non riconoscere il carattere umano al nascituro.
Nell'art. 6 l'aborto eugenetico non è autorizzato se non in riferimento alla salute della madre, dove però il pericolo per la salute non è necessariamente una patologia ma anche un semplice turbamento.
A differenza dell'art. 4, le malformazioni e le anomalie devono essere "rilevanti" (l'aggettivo potrebbe riferirsi anche alle malformazioni oltre che alle anomalie, anche se risulta un'imprudenza non averlo ripetuto) e i relativi processi patologici devono essere accertati (l'art. 4 parlava di "previsioni"). Ciò dovrebbe rendere raro l'aborto eugenetico, anche perché è difficoltoso fare accertamenti sul feto nei primi mesi. A meno che la tortuosa espressione "processi patologici relativi a rilevanti anomalie e malformazioni" non voglia indicare soltanto le malattie del nascituro ma anche le malattie della madre capaci di indurre un danno fetale. Ma questo appare scorretto da un punto di vista letterale. Se fosse così non sarebbe molto importante la verifica del danno fetale ma la sua possibilità in base all'accertamento della malattia materna. Con tutto il rischio però di frodi e di errori. Sembra invece sicuro che le assunzioni di farmaci lesivi o l'essersi la gestante sottoposta a raggi X e fatti simili non definibili come processi patologici, non possono essere presi in considerazione a meno che non si provi rigorosamente che essi hanno di fatto determinato un processo patologico che interessa il feto.
CAPITOLO SETTIMO
L'ARTICOLO IX
- Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l'interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione. La dichiarazione dell'obiettore deve essere comunicata al medico provinciale e, nel caso di personale dipendente dell'ospedale o dalla casa di cura, anche al direttore sanitario, entro un mese dall'entrata in vigore della presente legge o dal conseguimento dell'abilitazione o dall'assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette alla interruzione della gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali che comporti l'esecuzione di tali prestazioni.
L'obiezione può sempre essere revocata o venire proposta anche al di fuori dei termini di cui al precedente comma, ma in tale caso la dichiarazione produce effetto dopo un mese dalla sua presentazione al medico provinciale.
L'obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza, e non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento.
Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l'espletamento delle procedure previste dall'art. 7 e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la modalità del personale.
L'obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo.
L'obiezione di coscienza si intende revocata, con effetto immediato, se chi l'ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l'interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge, al di fuori dei casi di cui al comma precedente.
E' un articolo di particolare importanza perché solleva
la questione dell'obiezione di coscienza.
E' questo punto il sigillo autentico della contraddizione impresso alla legge dallo stesso legislatore, il quale, cedendo alla necessità di tener conto delle inviolabili esigenze etiche di buona parte dei cittadini, riconosce espressamente a quanti tra essi sono più direttamente chiamati a dare la loro opera per l'applicazione della legge il diritto di esimersene, sollevando "obiezione di coscienza". Qui non si tratta più della debolezza o inopportunità politica di un provvedimento legislativo, derivante dalla contrastatissima sua approvazione. Qui non si tratta più soltanto della discutibile legittimità costituzionale del provvedimento stesso, che non ne esclude l'applicazione sinché il vizio non sia dichiarato in sede competente. Qui si tratta di una minorazione intrinseca della legge, la quale, per quanto democraticamente approvata, riconosce in modo esplicito di non potersi porre come volontà generale, perché in contrasto con una legge morale sì radicata nell'animo degli stessi cittadini da non consentire loro un comportamento contrario. Ora, in questo positivo riconoscimento dell'obiezione di coscienza è necessariamente implicito il riconoscimento di una certa validità, quanto meno sociale, dei principi sui quali essa si appoggia e, quindi, di una contraddizione tra essi e quelli seguiti da una legge dello Stato.
7.a) Fondamento e obbligo dell'obiezione di coscienza
Come risulta dal paragrafo precedente, il fondamento dell'obiezione di coscienza, in quanto legislativamente riconosciuta, non sta nel semplice contrasto tra una o più prescrizioni di una legge civile e la convinzione della illiceità morale degli atti prescritti che l'individuo si sia soggettivamente formato; essa sta, invece, nell'opposizione di quelle prescrizioni e principi etici ben stabiliti, anche perché ugualmente professati da un numero non trascurabile di cittadini specie in quanto "destinatari" delle prescrizioni medesime. E' chiaro che, per coloro che aderiscono a tali principi, essi hanno un valore oggettivamente obbligante, tale da giustificare, se non pure da esigere, il rifiuto dell'obbedienza pur normalmente dovuta alle leggi dello Stato.
Tre sono le categorie di principi etici, cui gli oppositori alle leggi liberalizzatrici si richiamano.
Il primo riguarda la morale naturale, secondo la quale ripugna in ogni caso all'individuo il sopprimere una vita umana, soprattutto quando sia innocente ed indifesa. E' questo l'atteggiamento che potremmo definire "laico", secondo cui il concepito è un individuo appartenente alla specie umana, ovverosia un uomo a tutti gli effetti. E' facilmente comprensibile che chi abbia acquisito questa certezza provi ripugnanza a prestare la propria opera per l'interruzione della gravidanza. E questo atteggiamento della coscienza tanto più forte sarà in quelle persone, quali appunto gli esercenti le professioni ed arti sanitarie, che hanno maggiore consapevolezza delle acquisizioni scientifiche ed operano professionalmente per la salvaguardia della vita umana.
Un secondo ordine di motivazioni, riguarda l'aspetto della morale che potremmo definire deontologica. Si ricordi che medici, infermieri ed ostetriche hanno, o hanno avuto, nel codice deontologico delle rispettive professioni il divieto di praticare l'aborto. Va a questo proposito rilevato che i codici deontologici non vengono imposti alle categorie professionali dall'esterno, ma vengono posti dagli stessi consociati e costituiscono un vero e proprio specchio in cui si riflette la coscienza professionale della categoria. Al momento della iscrizione all'albo professionale, viene fatta una solenne promessa (alcune norme prevedono addirittura il giuramento) di rispettare il codice deontologico, onde una trasgressione ad esso, sia pure legittima o imposta da una norma dello Stato, importa per il professionista il venir meno all'impegno solennemente assunto.
Il terzo ordine, infine, riguarda la morale religiosa in senso stretto. Tanto per fermarci alle religioni più diffuse in Italia, Ebrei1 e Cristiani hanno sempre visto nell'aborto un atto soppressivo di una vita umana innocente e, in quanto tale vietato come uno dei più gravi peccati2 . L'insegnamento della Chiesa Cattolica, i special modo, è sempre stato univoco, dagli albori del Cattolicesimo fino ai nostri giorni3 .
Non c'è dubbio che l'obiezione di coscienza disciplinata dalla legge italiana, come da quella di altri Stati "liberalizzatori", può appoggiarsi su una qualsiasi di queste tre etiche oggettive, sicché essa non riguarda soltanto i cattolici ma tutti coloro cui ripugna moralmente, anche per le sole ragioni di diritto storico, costituzionale e internazionale che escludono, per la donna, un diritto all'aborto, cooperare alla soppressione della vita di un innocente. E' facilmente intuibile che il terzo ordine di motivazioni è quello maggiormente vincolante per il credente.
7.b) A chi spetta il diritto all'obiezione di coscienza
La legge 194, oltre ad essere eticamente riprovevole e costituzionalmente illegittima, è tecnicamente mal redatta, anche per l'urgente volontà politica di arrivare alla sua approvazione, senza attendere ai numerosi emendamenti proposti per migliorarne il testo. Di questa pressante volontà politica risente non poco anche la disciplina dell'obiezione di coscienza.
L'espressione "personale sanitario" per indicare la prima categoria di soggetti, cui è consentita l'obiezione di coscienza, non è certamente felice, perché sembra indicare soltanto quei medici che, prestando stabilmente la loro opera in un dato istituto, ne costituiscono appunto il personale sanitario.
Ora la legge stessa prevede che, per l'interruzione di gravidanza entro i primi 90 giorni, la donna può rivolgersi, oltre che a un consultorio pubblico o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, anche a "un medico di sua fiducia" (art. 4); e questi può essere anche un "libero professionista". Per esimersi validamente e in via generale dall'obbligo di rilasciare il certificato o il documento previsto dall'art. 5, anche a questi medici va riconosciuto il diritto (oltre s'intende al dovere morale) di dichiarare preventivamente la loro obiezione di coscienza, comunicandola al medico provinciale.
In conseguenza di ciò, e con riguardo anche alle leggi di altri Stati in cui è riconosciuta l'obiezione di coscienza, si parla di due, e persino di tre categorie di soggetti aventi diritto a sollevare detta obiezione.
Nella prima categoria rientrano tutti i medici, specialisti e non specialisti, o addirittura con specializzazioni che nulla hanno che vedere con la gravidanza, il parto e la maternità. La legge italiana, come si è già detto, non esige nessuna specializzazione o particolare abilitazione e autorizzazione pubblica per assistere le aspiranti all'aborto!
Nella seconda categoria sono da comprendere: "paramedici" e tutti coloro che esercitano attività ausiliarie (caposala, infermieri professionali e generici, ostetriche, vigilatrici d'infanzia, assistenti sociali ecc.) che prestano servizio negli ospedali, nelle case di cura, negli istituti religiosi con attività sanitarie, nei consultori, nelle strutture socio-sanitarie, in quanto concorrano in qualche modo alle consultazioni preliminari all'interruzione della gravidanza e all'esecuzione di essa.
Pur chiarendo l'ovvia differenza con le prime due, alcuni parlano di una terza categoria di soggetti aventi diritto all'obiezione di coscienza: i soggetti-istituzione, tra i quali sono compresi in special modo gli ospedali cattolici e le cliniche gestite da religiosi o religiose cattoliche1 . Altro è, però, sostenere che la legge civile non può obbligare tali istituzioni a praticare esse stesse interventi abortivi, ovvero a concedere per essi le proprie attrezzature e il proprio personale, altro è fondare sull'obiezione di coscienza il diritto al rispetto della loro confessionalità e al loro fine istituzionale. Le persone giuridiche non hanno una coscienza propria e, perciò , la loro autonomia non è protetta, per sé, dal riconoscimento legislativo dell'obiezione di coscienza. Possono però avere, e di fatto hanno, un loro fine istituzionale (assistenza agli infermi come opera di carità cristiana, come testimonianza di fede religiosa e come forma di apostolato), con cui è incompatibile la pratica dell'aborto. Ed è giusto che questo fine istituzionale sia tutelato anche sul piano giuridico. In via di principio perciò, occorrerebbe o una norma a parte nelle leggi "liberalizzatrici", o si dovrebbero invocare norme più generali come quelle (costituzionali) sulla libertà dell'assistenza privata, o quelle (concordatarie o non) concernenti specificamente gli enti ecclesiastici. In pratica, però, si può ottenere lo stesso scopo per altre vie. Siccome le istituzioni sono costituite, dirette e formate da persone singole, basterà che tutti gli individui i quali presiedono e gestiscono un ospedale o clinica cattolica, ovvero prestano in essi la loro attività medica o paramedica, sollevino obiezione di coscienza, per assicurare all'istituzione la possibilità di rifiutare ogni cooperazione alle leggi liberalizzatrici. I dirigenti, poi, hanno il diritto di esigere che il personale da essi dipendente sollevi l'obiezione. Così è avvenuto anche in altri Stati che non prevedono esplicitamente l'esecuzione per i soggetti-istituzione.
Con più particolare riferimento alla legge italiana, è da osservare che questa dispone espressamente che l'interruzione della gravidanza può essere praticata o "presso gli ospedali generali", o presso ospedali pubblici specializzati ed altri istituti, enti ed istituzioni "sempre che i rispettivi organi di gestione ne facciano richiesta". Solo nei primi novanta giorni essa può essere praticata "anche presso case di cura autorizzate dalla regione" (art. 8). E' sufficiente, pertanto, non fare alcuna "richiesta" e non sollecitare alcuna "autorizzazione", per essere esclusi dal numero delle strutture sanitarie presso le quali l'aborto può essere praticato.
7.c) Oggetto dell'obiezione di coscienza
Nel determinare l'oggetto dell'obiezione di coscienza, l'art. 9 è sufficientemente chiaro. L'obiezione ritualmente proposta dà diritto "a non prendere parte alle procedure di cui agli artt. 5 e 7", e a non prendere parte "agli interventi per l'interruzione della gravidanza" (1° comma). Il 3° comma porta qualche ulteriore precisazione: "L'obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza, e non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento".
Per il personale ausiliario, si tratterà di ogni attività diretta a effettuare l'intervento, come il preparare la sala, sterilizzare gli strumenti, trasportare la paziente, e quanto altro esso sappia o comprenda sia diretto a praticare l'aborto.
Per i medici, a me sembra che il meccanismo concreto delineato nella legge imponga di estendere l'obiezione di coscienza oltre che all'intervento abortivo, anche all'accertamento delle condizioni della gestante in ordine al giudizio sull'interruzione della gravidanza.
Nella questione vanno distinti (senza separarli) il momento giuridico da quello puramente morale o, più concretamente, l'oggetto del diritto all'obiezione da quello dell'obbligo di sollevarla.
Sotto il primo profilo, se il legislatore concede il diritto di "non prendere parte alle procedure" preliminari all'interruzione della gravidanza, non pone affatto, per nessuno, l'obbligo di rifiutarvisi: non si vede, allora, perché proprio dei medici e moralisti cattolici, per i quali più urgente è l'obbligo morale di valersi dell'obiezione, siano restii ad approvare questa disposizione legislativa.
Il vero è, però, che nel congegno giuridico posto in essere dalla 194, le "procedure di cui agli artt. 5 e 7" non consistono semplicemente nella consultazione di un medico sullo stato di gravidanza e nello svolgimento, da parte di lui, di un'opera più o meno efficace di dissuasione all'aborto. Certo, anche questo la legge richiede: ma no in questo sta la precisa funzione giuridica assegnata all'opera del medico nel contesto del sistema legislativo. Quel che in questo importa, per ammettere la donna all'intervento abortivo, è soltanto il "documento attestante lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta" ovvero il "certificato attestante l'urgenza dell'intervento".
Secondo la legge, dunque, tali documenti costituiscono la condizione necessaria e sufficiente per procedere all'aborto.
Lo stesso legislatore, che non mostra alcuna tenerezza per l'obiezione di coscienza, ha avvertito che nel sistema da esso delineato (in cui si afferma un vero e proprio diritto della donna ad "autodeterminarsi" in ordine all'interruzione della gravidanza), non concedere agli obiettori la possibilità di esimersi dalle "procedure di cui agli artt. 5 e 7" significava obbligarli a cooperare in modo necessario all'intervento abortivo.
A conferma di tal giusto convincimento, sta l'ultimo comma dell'art. 9, in virtù del quale l'obiettore che prende parte alle dirette "procedure" (e non solo agli interventi) decade senz'altro dai vantaggi della obiezione sollevata.
Se così è sul terreno del diritto positivo, su quello morale, finché quello vige, non può dubitarsi che il partecipare a tali "procedure" costituisce cooperazione preliminare, ma necessaria all'operazione abortiva e che, pertanto, il medico cattolico ha l'obbligo grave di sollevare obiezione di coscienza anche in relazione a siffatta partecipazione.
Ciò non significa, peraltro, che ginecologi e medici cattolici, o più genericamente coscienziosi, subiscono una diminuzione della loro benefica attività professionale.
Da una parte, infatti, non tutte le donne italiane sono smaniose di abortire, né tutte quelle che si rivolgono a un ginecologo o medico di fiducia lo fanno per carpirgli un documento che le abiliti all'interruzione della gravidanza: la presentazione dell'obiezione di coscienza, anzi, può valere come titolo per meritare maggiore fiducia presso gli onesti cittadini e presso le buone famiglie.
Dall'altra, l'art. 9 parla specificamente di "procedure di cui agli artt. 5 e 7" e, non genericamente di "consultazioni" comunque fatte, a qualsiasi medico richieste, con qualsiasi scopo effettuate.
Come già il termine "procedure" manifesta, si deve trattare di una serie di atti, considerati unitariamente in quanto costituiscono lo svolgimento di un impulso iniziale e tendono al fine inteso da chi pone in essere tale impulso. Orbene, l'art. 4 della legge è chiarissimo in proposito: "Per l'interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni, la donna [...che accusi una delle circostanze o indicazioni subito dopo specificate] si rivolge a un consultorio pubblico o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia ".
L'atto iniziale ed essenzialmente determinativo della "procedura" necessaria per l'eventuale intervento abortivo è, dunque, una chiara manifestazione della volontà della donna di interrompere la propria gravidanza. Senza questa manifestazione di volontà, non hanno inizio le "procedure di cui agli artt. 5 e 7" della legge; perciò, gli atti di consulenza medica o sociale prestati alla gestante, non finalizzati all'aborto e non seguiti dal rilascio di quel "certificato" o "documento" in cui le procedure stesse si concludono, non costituiscono minimamente cooperazione all'eventuale successivo aborto, ma assistenza medica e sociale, cui anche le future madri hanno diritto.
CAPITOLO OTTAVO
EFFETTI PSICOPATOLOGICI NELLA DONNA CHE HA ABORTITO
I medici che sono dell'opinione che l'interruzione della gravidanza sia "inevitabile per motivi terapeutici" sono portati a minimizzare le conseguenze dell'aborto e si guardano bene dal mettere in guardia le pazienti dai pericoli che correranno "dopo" l'intervento.
Molti autori1 sottolineano che una grande maggioranza di donne incinte, sia che considerino la loro gravidanza non voluta, sia che l'abbiano desiderata, nei primi mesi provano delle reazioni nevrotiche, per lo più di timore e di depressione. La donna che pure desidera molto avere un figlio può nutrire nei confronti di questo figlio una sorta di avversione quando si sente abbattuta e stanca, ma si tratta, come è logico, di una avversione dovuta all'enorme sforzo biologico, cui è sottoposta in periodo di gravidanza e queste reazioni sono segni di stanchezza. Se in questo primo periodo la donna non incontra comprensione, si sente isolata ed è porta a considerare la gravidanza come un peso insopportabile, specialmente se è sola, o comunque un peso troppo gravoso per lei, fino a reagire con la disperazione. La donna decide di abortire perché non reagisce da persona tranquilla che prende delle importanti decisioni con calma e consapevolezza, ma sentendosi come perseguitata; agisce irrazionalmente ritenendo l'aborto la sola via di uscita ad una situazione per lei insostenibile. La decisione di abortire è, dunque, molto spesso frutto di uno stato d'animo passeggero, in un certo senso è sintomo di nevrosi.
Generalmente la donna arriva dal medico in preda ad emozioni che provocano tensioni di carattere opposto. Non si sa mai, e non si è sicuri se il figlio sia voluto o no. Molte donne cambiano idea dopo aver parlato con un medico. Ci sono moltissime donne che vorrebbero avere un figlio, ma non vorrebbero partorire. E' un grande e complicato meccanismo di reazioni umane, cui la donna stessa non è in grado di resistere.
Nel primo periodo periodo di gravidanza, la donna è in uno stato che richiederebbe aiuto, invece depressa si reca dal medico e questi anziché farla guarire dalla depressione ed aiutarla a superare il periodo difficile, le prende il figlio. E' come se davanti ad un individuo affetto da mania suicida, il medico considerasse suo compito quello di fornirgli la corda per l'impiccagione.
Dal punto di vista della psichiatria, le donne che decidono di abortire, a causa delle cosiddette "ragioni sociali", lo fanno in preda ad una tipica sindrome depressiva. Sentendosi come paralizzate, perplesse, dominate dal timore, cercano una soluzione qualsiasi [1]per uscire da quello stato non certo esaltante e credono di trovarla liberandosi da ciò che reputano la causa della loro depressione. In realtà in questo atteggiamento va ricercata una componente isterica: la donna si comporta in maniera infantile, non rendendosi esattamente conto di ciò che sta facendo. E' ovvio che si tratta di una reazione nevrotica, essa si ostina a chiudere gli occhi, a non vedere, a non sentire, a dimenticare, e svegliandosi vorrebbe che tutto fosse già "dopo". La gravidanza non è un breve istante, né un piccolo incidente, ma dura molto ed ha un suo corso e uno sviluppo. Il figlio cresce e la madre muta il suo stato.
Il periodo iniziale di inquietudine emozionale di timore e di ambivalenza, si attenua via via che si normalizza lo stato di gravidanza e anche psicologicamente questa donna in capo a sei mesi cambia completamente atteggiamento rispetto alle prime settimane. Poiché alla donna incinta è assicurata l'assistenza medica, toccherebbe proprio al medico capire di che essa ha bisogno e prevedere, ponendovi rimedio, reazioni che può avere. Risulta dall'esperienza che i consigli dei medici diventano a volte determinanti ai fini delle decisione della madre, magari fino a quel momento ancora incerta sul da farsi. Bisogna anche tener presente che oggi la società, in alcuni settori, non si aspetta più dalla donna che partorisca un figlio, ma al contrario che abortisca.
La legge che riconosce legalmente l'aborto ha fra l'altro soppresso un freno esterno. Non si vuol dire che la legge imponga una decisione in senso abortivo, ma è certo che ha tolto un freno rispetto a quanto avveniva nel contesto di una legislazione antiabortista.
8.a) Traumi psichici dopo l'aborto
Dal punto di vista delle complicazioni, se ne possono individuare di dirette, secondarie e a lungo termine.
Sembra che la percentuale di queste complicazioni aumenti col passare del tempo; sono relativamente pochi i traumi immediati mentre si manifestano molto più spesso a distanza di tempo. Tuttavia se ne possono stabilire alcune in base ai sintomi più evidenti: 1) depressione causata da senso di colpa; 2) aggressione rivolta verso sé stessa e verso il partner sessuale, il padre del figlio, o addirittura verso tutti; 3) costanti contraddizioni nella personalità con sintomi riferibili alle sindromi encefalopatiche, depressivo-isteriche e ipersteniche.
La gravità della depressione può essere di diverso grado, andando dalle sindromi nevrotiche alla psicosi profonda. Molto più spesso che la psicosi depressiva si notano le sindromi reattive nevrotiche che tendono però a stabilire e ad aumentare o si intensificano soprattutto nel periodo del climaterio. La depressione a volte presenta una componente se non di chiara fissazione, quanto meno di paranoia; queste donne credono di essere trattate peggio delle altre o che il loro segreto sia noto a tutti, che l'ambiente sia cambiato nei loro confronti. Di regola alla depressione contribuiscono i rimorsi ed il senso di colpa. Non si può, dunque, affermare che il senso di colpa nella donna che ha abortito sia da ricercare nella concezione del peccato instillata in loro dalla educazione religiosa. Esso affonda, invece, le sue radici nei più profondi sentimenti della coscienza umana, in particolare di quella materna, che ha in sé impronte essenziali. Il figlio è ciò che la madre vive in modo più suo, è parte del suo stesso essere, la impegna più di qualsiasi altra cosa, al di là di qualunque altra esperienza. La donna viene come stigmatizzata di grandezza e il distruggere tutto questo le procura un autentico strazio interno.
Tutti gli autori che si occupano di questo problema, accentuano il fatto che le donne non riescono a liberarsi dal senso di colpa, anche se in pubblico si esprimono per l'aborto. Anche il ricordo è una prova che il senso di colpa non sparisce, che non si riesce a dimenticare; la donna rammenta, cerca freneticamente una giustificazione; tenta di arrivare alla liberazione dalla colpa il cui senso porta nascosto dentro di sé. Il senso di colpa non sempre si manifesta direttamente. All'inizio la donna sembra essere distesa, ma, passato un certo tempo, il pensiero del figlio ritorna e diventa un pensiero ossessionante.
Con il figlio la donna ha distrutto qualcosa di importante, ciò che avrebbe potuto diventare uno scopo della vita; avendolo sacrificato a fini meno importanti alla comunità o a valori meno reali ed esaltanti, ora condanna se stessa e si giudica con severità. La donna ha perduto la dimensione del proprio valore. La donna che ha ucciso il proprio figlio soffre poi molti anni. Ci sono donne che guardano le carrozzine e sono prese dalla tentazione di "rubare" il figlio degli altri; se vedono un bambino viene loro fatto di paragonarlo al proprio che avrebbe avuto la stessa età... Il netto ricordo dell'aborto produce pian piano come una lesione fisica nell'organismo della donna. Sono i cosiddetti stati di ipermnesione da insulto: un fatto insignificante ad un tratto suscita un ricordo di ciò che è successo come se improvvisamente venisse proiettato un film.
La causa di questi sintomi va ricercata in una lesione famelica del sistema endocrino, specialmente della corteccia surrenale. Sembra che l'aborto procurato disturbi così profondamente l'economia ormonale da non escludere una lesione organica. E ciò potrebbe spiegare la tendenza all'insorgere di certe sindromi.
Dal punto di vista dell'endocrinologia, l'aborto deve essere trattato come uno "shock" per l'organismo; su questo non possono esserci dubbi e si spiega forse così che depressione e senso di colpa finiscano con l'attanagliare l'animo delle donne. Il senso di colpa cresce anche secondo fattori somatici ed in rapporto al destino che incontrerà la donna.
Ecco i fattori somatici che rendono più acuto il senso di colpa:
- Sterilità. Se dall'aborto risulta la sterilità completa, il senso di colpa aumenta. Queste donne dopo un certo tempo desidererebbero avere un figlio, e la consapevolezza che la mancanza di figli è un risultato dell'aborto, fa sì che si sentano addirittura infelici, profondamente infelici e nulla riesce a consolarle. La vecchiaia solitaria è a volte un risultato dell'aborto praticato in giovinezza e quel rimorso finisce con l'acuire nelle anziane le sindromi depressive.
- Gli aborti spontanei. Che siano però conseguenza di un aborto procurato, fanno anche essi che il senso di colpa si intensifichi.
- Quantità e frequenza dell'interruzione della gravidanza. Sembra che il senso di colpa sia radicato nell'anima della donna e che sia così grande come è grande la loro vocazione all'eternità.
Una obiettiva dimensione della maternità spiega la devastazione che si crea quando la maternità viene distrutta. Lo prova il fatto, ben noto ai medici, che un certo senso di colpa lo si riscontra anche nelle donne che hanno subito l'aborto spontaneo e completamente incolpevoli. Il senso di colpa è legato ad una reale perdita del valore più importante: la persona umana. La maternità è strettamente legata alla nobiltà; se manca quella si crea un rimpianto e se c'era un'occasione di avere un figlio, che ora non c'è più, il rimpianto si intensifica. Quel tormentoso senso di colpa con cui la donna è costretta a vivere, si ripercuote su tutto il suo ambiente. Si può dire che è così difficile da sopportare che la donna cerca una giustificazione e cerca di riversare la colpa sul padre del figlio ritenuto la causa della sua disgrazia.
Il senso di colpa, in questo caso, appare in linea secondaria: si tratta di una negativa reazione verso il partner, il padre del figlio.
Il rimpianto ed il senso di colpa si trasformano in aggressività per il partner, specialmente quando gli aborti si ripetono.
La tensione che segue l'aborto è una minaccia per l'amore, si può dire che l'uccisione del figlio è nello stesso tempo l'uccisione dell'amore della madre per il padre del figlio. La donna perde fiducia nell'uomo che non ha saputo assumersi le sue responsabilità, non si sente più sicura accanto a lui, prova rancore e spesso non vuole vederlo più. Talvolta accade che lo lasci subito dopo l'aborto e in maniera definitiva, talaltra la loro relazione molto tesa dura ancora un certo tempo, ma diventa sempre più conflittuale e alla fine si rompe completamente (questo è frequente causa di divorzio). Se un figlio vivo unisce due persone e richiama la loro responsabilità, l'uccisione del figlio, al contrario, separa i suoi genitori.
8.b) Aggressività verso il medico
Oltre all'aggressività verso il padre, si forma anche un rancore per il diretto autore della loro comune decisione, ossia il medico.
La scienza medica dovrebbe prevedere le conseguenze di una scelta. La donna viene dal medico rivelando la sindrome di depressione e di timore, e l'aborto non è una cura adatta. Sebbene a lei possa sembrare che con l'aborto si libererà da tutte le angosce, è il medico che deve sapere come si presenta la situazione reale.
La donna a cui il medico ha rifiutato l'intervento per abortire, non soltanto non proverà mai rimpianto, ma al contrario gli sarà riconoscente per averle salvato il bambino.
8.c) Aggressività verso l'ambiente
Il rancore della donna si sposta non solo sul partner ma coinvolge tutte le persone che più o meno direttamente sono state complici. Generalmente i rapporti nelle famiglie dove si interrompe la gravidanza si guastano. Sia la donna sposata che quella sola, rompono con l'ambiente e nella loro anima cresce un senso di solitudine. Si separano dagli amici che hanno consigliato di farlo. Nasce una serie di reazioni che influiscono sul comportamento tanto da poter parlare di mutamenti della personalità. Un modo di esternare l'aggressività lo si riscontra nell'atteggiamento verso le donne incinte. In teoria ci si dovrebbe aspettare che il loro consiglio sia un avvertimento; esse hanno provato che cos'è l'aborto e ne soffrono; e si potrebbe pensare che vogliono consigliare calorosamente di non farlo. E invece è diverso. C'è una specie di invidia o la ricerca di un certo sollievo o di una giustificazione nel fatto che altre donne facciano lo stesso, quasi che il peso della colpa comune sia meno grave o più facile da sopportare. Questa reazione permette di capire una avversione, del resto incomprensibile per i metodi biologici della regolazione della fecondità. Essa denota, in ultima analisi, avversione a qualsiasi altra soluzione come se il fatto di affermare che si potrebbe agire altrimenti, aggravi la consapevolezza di essere colpevoli e diventi un ulteriore peso. Il loro senso di colpa a volte si trasforma paradossalmente in aggressività, in un negativo atteggiamento verso le persone che cercano di aiutarle.
8.d) Aggressività verso i bambini
Un atteggiamento ambivalente verso la maternità influisce sull'atteggiamento verso i bambini, quelli propri già viventi e quelli altrui. E' caratteristico che abortiscano quelle donne che hanno pochi figli: uno o due e nei loro confronti dimostrano una strana insofferenza aggressività o iperprotezione.
Col passare del tempo le razioni depressive e l'inclinazione all'aggressività vengono giudicate dall'ambiente come qualità fisse del carattere; è cambiata l'indole della donna.
Al posto della tenerezza e di una certa dolcezza, qualità tipiche delle madri, le donne che hanno limitato la loro fecondità con gli aborti, diventano amareggiate, impietose, sempre malcontente e nervose e gli altri le definiscono "difficili da sopportare". Questi mutamenti sembrano fissi ed irreversibili.
Questo peggioramento del carattere contribuisce ad aggravare il conflitto matrimoniale ormai esistente. Che questo conflitto esista, non c'è dubbio, le persone che si amano profondamente non prenderanno mai una tale decisione, i coniugi che uccidono i loro figli saranno sempre in stato conflittuale.
Conoscendo le tragiche conseguenze degli aborti, la medicina ha l'indiscutibile obbligo di prevenirli. L'obbligo deontologico del medico di difendere la vita sempre, soprattutto contro l'aborto, è indiscutibile ed inderogabile.
CAPITOLO NONO
LA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE ITALIANA. NECESSITA' DI ADEGUAMENTO COSTITUZIONALE DELLA LEGGE
Preliminarmente è opportuno ricordare che la normativa vigente nacque sotto il segno della precarietà e fu accompagnata da qualche promessa di revisione.
Le varie proposte parlamentari non avrebbero preso l'avvio se nel 1975 il Partito Radicale non avesse promosso un referendum per abrogare il Titolo X del Codice Penale. L'esperienza del referendum sul divorzio svoltosi l'anno precedente (12/5/74) rese quasi tutte le forze politiche assai preoccupate per la prospettiva di una nuova consultazione popolare. Mutare la disciplina allora vigente sembrò l'unico modo di evitare il referendum. Molte speranze furono subito affidate alla Corte Costituzionale, investita di una questione sul delitto di procurato aborto. In effetti, in piena campagna per la raccolta delle firme, il 18/2/1975 la Corte emanò la decisione n. 27, rimasta tuttora fondamentale, che modificò la disciplina penale allargando lo stato di necessità al pericolo per la salute della madre (oltre, cioè, il pericolo per la vita). Ma le firme furono ugualmente ottenute in numero sufficiente. Così la spada di Damocle del referendum dette una forza di ricatto altissima a chi chiedeva la liberalizzazione di fronte ad una maggioranza di governo divisa sui contenuti e comunque convinta insieme alle opposizioni, che l'obiettivo politico prioritario fosse quello di evitare la consultazione popolare, al punto che il governo, al momento decisivo costituito da un monocolore democristiano, mantenne e dichiarò una posizione di neutralità.
Il referendum avrebbe dovuto effettuarsi nel 1976, ma la mancata conclusione dell'iter legislativo contribuì alla decisione dello scioglimento anticipato delle Camere, che fece così slittare la prova popolare al 1978.
I fatti di Seveso (estate 1976), abilmente sfruttati dalla propaganda abortista dettero nuovo impulso alla legge, non appena il nuovo Parlamento si fu insediato.
Ciò nonostante, il 7 giugno 1977 il Senato bloccò l'iter legislativo approvando a sorpresa una pregiudiziale di incostituzionalità. Ma l'incombente referendum radicale impose l'immediata ripresa dei lavori e a nulla valse la presentazione ad opera del Movimento per la Vita di una proposta di legge di iniziativa popolare alternativa, che tentava di conciliare il riconoscimento del diritto alla vita con un'ampia rinuncia allo strumento penale.
Come emerge dai lavori preparatori, il nuovo progetto non fu preso in considerazione con l'espressa motivazione che ormai il referendum radicale era ormai incombente e che occorreva in tutti i modi evitarlo. Vi sarebbe stato modo, in seguito, si disse, di correggere la legge. Così essa fu approvata definitivamente il 19/5/78, quindici giorni prima del giorno già fissato per il referendum, dieci giorni dopo l'assassino di Aldo Moro (il che spiega anche il clima del momento e perché la priorità politica venisse collocata altrove).
Una traccia di disponibilità alla riforma si trova nell'art. 16: una annuale relazione al Parlamento, a somiglianza di quanto stabilito in altre leggi (ad es. equo canone, fermo di polizia, droga) ha il significato di stimolo a possibili riforme legislative.
Incombeva comunque l'ipotesi di un nuovo intervento della Corte Costituzionale intrecciato con la vicenda di nuovi contrapposti referendum, questa volta contro la L. 194, proposte ancora dal Partito Radicale (per allargare le maglie della legge) e dal Movimento per la Vita (preoccupato di evitare ulteriori slittamenti e convinto dell'opportunità di mobilitare l'opinione pubblica per ridurre la lesione del diritto alla vita)1 .
L'esito del referendum è noto. Di meno larga conoscenza è la situazione della giurisprudenza costituzionale italiana2 , il cui esame, dal punto di vista tecnico-giuridico dovrebbe orientare verso la riforma della L. 194.
In effetti la decisione n. 27 del 1975 inquadrò il tema dell'aborto nell'ambito di un conflitto, tra il diritto alla vita del figlio, costituzionalmente garantito dall'art. 2 della Costituzione ("La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo") e il diritto alla vita e della salute della madre (garantito, quest'ultimo, dall'art. 32 della Costituzione), ma spostò il bilanciamento a favore della madre, dichiarata "persona", a differenza del figlio, "che persona deve ancora diventare".
L'utilizzazione del concetto di "persona" in funzione discriminatoria tra categorie di uomini, è il punto più debole dell'argomentazione.
Quello che qui preme è meditare sul dispositivo di quella decisione e sulle parole conclusive della motivazione.
Il primo dichiarò incostituzionale l'art. 546 c.p. "nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venire interrotta quando l'ulteriore gestazione implichi danno o pericolo grave medicalmente accertato e non altrimenti evitabile per la salute della madre".
L'esigenza che il pericolo sia "medicalmente accertato" e "non altrimenti evitabile" contrasta in modo evidente con la libera scelta di interrompere la gravidanza consentita dalla L: 194 nei primi tre mesi di gestazione.
Questa conclusione è rafforzata dall'esplicito invito contenuto nelle parole finali della motivazione: "ritiene la Corte che sia obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l'aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno e del pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire la gestazione e perciò la liceità dell'aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione delle circostanze atte a giustificarla".
L'esplicito invito al legislatore è di per sé una forte ragione che renderebbe opportuna ed urgente la riforma.
Numerose pronunce successive della Corte non hanno modificato questa giurisprudenza. Anzi l'hanno confermata e richiamata in vario modo1 .
Contemporaneamente, però, la Corte ha dichiarato la propria impossibilità di annullare in tutto o in parte la L.194.
Vi osterebbe l'art. 25 della Costituzione. Infatti, secondo la Corte, l'eventuale abrogazione avrebbe per effetto una estensione della punibilità dell'aborto. Ma ciò avverrebbe in forza di una sentenza e non di una legge, violando così il citato art. 25, secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge.
Senza indugiare in sofisticate critiche a questa tesi2 , basta segnalare la conclusione: vi è una materia di primaria importanza costituzionale, come quella inerente al diritto alla vita, che di fatto, per ragioni sostanzialmente procedurali resta sottratta al potere di annullamento della Corte Costituzionale. Il solo giudice ordinario può intervenire per far rispettare la Costituzione.
In questa direzione resta l'espresso invito formulato dalla Corte nel 1975.
Vi sono dunque forti ragioni tecnico-giuridico-costituzionali che imporrebbero la riforma. Di fatto nella XI legislatura è stata presentata alla Camera una proposta (n. 2159, Casini e altri), che si potrebbe definire di "adeguamento costituzionale" la cui sostanza è l'eliminazione della distinzione tra regime del primo e secondo trimestre di gestazione: in sostanza la disciplina dell'art. 6 (interruzione della gravidanza oltre il terzo mese che richiede l'accertamento medico del pericolo per la vita o la salute) viene estesa anche ai primi tre mesi (con abrogazione degli artt. 4 e 5).
9.a) Le linee di resistenza della legge 194. Valutazione
Quali prospettive di accoglimento ha una proposta come quella ora richiamata?
L'esperienza prova che il rigore tecnico-giuridico ha poco peso. D'altronde attorno alla legge sono state scavate trincee di vario tipo per sostenere l'immodificabilità. Certamente le laceranti polemiche di cui essa è stata oggetto rendono ardua l'impresa. Nei primi anni successivi al 1978 vi era persino il timore che tentativi di riforma in nome dei diritti del figlio avessero per reazione l'effetto di contrapposte maggioritarie iniziative capaci di peggiorare la norma.
Oggi questo timore sembra scomparso ed è già un segno di evoluzione.
Il tentativo di irrigidire la legge collegandola al senso dello Stato ("La legge è legge, è legge dello Stato") non ha bisogno di essere confutato perché ogni legge è per sua natura abrogabile e modificabile: non poche norme coeve alla 194 (in materia di droga, equo canone, malattie mentali, ecc.) sono già state riviste o sono oggetto di processi di riforma. Ma, si dice, la 194 è stata resa intangibile dal referendum del 1981.
Tecnicamente ciò non ha senso. E' vietato riproporre per cinque anni un referendum se il precedente è stato bocciato (art. 38 della L. 25/5/70, n. 352), ma niente vieta l'intervento del legislatore in qualsiasi tempo. E' vero però che il consenso popolare sembrerebbe rendere più robusta la legge. Ma una riflessione meno superficiale può, però, condurre ad una conclusione addirittura opposta.
Il referendum promosso dal Movimento per la Vita, infatti, fu bocciato insieme al referendum radicale, che ottenne una quantità assai minore di consensi. Il secondo proponeva un sistema basato sulla libera decisione della donna nei primi tre mesi di gravidanza. D'altra parte il no a quello del Movimento per la Vita fu motivato con un'interpretazione restrittiva della L. 194, quasi che essa consentisse l'aborto solo "in casi particolari". I mezzi di comunicazione in grandissima prevalenza si attestarono su questa posizione. Ma la gestione della legge, qual è andata consolidandosi, è stata, invece, nel senso della libera decisione della donna, salvo il tenue filtro di procedure (colloquio, attesa di sette giorni) che non cambiano la sostanza normativa. La reiezione del referendum radicale e la falsa restrittiva interpretazione della legge mostrano che la volontà popolare non è a favore della libera scelta. Questo assunto è confermato da tutti i sondaggi di opinione succedutisi nel tempo: alla domanda se si deve ammettere l'interruzione della gravidanza per libera decisione della donna, solo un quarto degli interessati risponde positivamente1 . Secondo questa linea di pensiero, vi è, dunque, un contrasto tra il risultato del referendum del 1981 e la realtà effettuale della legge vigente, la quale, in buona sostanza è pressoché coincidente con quanto chiedeva il rigettato referendum radicale. Che se poi si obiettasse che l'esistenza dei "filtri" prima della "decisione ultima della donna", esclude l'idea della libera scelta, si dovrebbe spostare l'attenzione sul contenuto, la consistenza, la controllabilità di tali filtri e, riscontrandosene la scarsissima efficacia, si dovrebbe ritenere ragionevole por mano ad una riforma che riguardasse, appunto, tali "filtri" in ottemperanza al presumibile desiderio popolare.
Resta comunque il problema della "giustizia" della legge in rapporto al bene da proteggere.
L'intangibilità della norma viene ancorata, inoltre, alla progressiva diminuzione degli aborti a partire dal 1982, quale risulta dalle relazioni ministeriali. "Vedete, si dice, la legge ha funzionato bene anche in ordine alla tutela di ciò che a voi preme".
In linea di fatto, il dato oggettivo della diminuzione degli aborti registrati deve confrontarsi con due domande.
1) Ciò che interessa è il numero complessivo degli aborti, illegali compresi. La valutazione dell'aborto clandestino, in sé difficile, deve tener conto del sempre più frequente diffondersi di una abortività precocissima e incontrollabile effettuata ovunque, e persino consigliata in strumenti divulgativi scolastici, impropriamente chiamata "contraccezione di emergenza" o "induzione mestruale". Tali metodiche, attuate anche nei "pronto-soccorso" degli ospedali, si praticano dopo un rapporto sessuale "non protetto" ed hanno per effetto l'uccisione dell'embrione eventualmente già formato non ancora impiantato in utero1 . Queste metodiche presumibilmente accrescono in misura incontrollabile l'aborto clandestino, la cui permanenza, nelle tradizionali forme, è provata da vari sintomi. Si può, dunque, essere certi della diminuzione complessiva?
2) Se riduzione vi è stata, essa è avvenuta "a causa" della legge o "nonostante" la legge? Il crescere della consapevolezza della gravità dell'aborto, il diffondersi di forme molteplici di volontariato a servizio delle maternità difficili, sono un dato di fatto. E' ragionevole pensare che ciò produce un contenimento degli aborti. Ma tutto nasce da una cultura alternativa a quella che sostiene la legge 194.
Resta comunque il problema della tutela giuridica e completa del diritto alla vita di ogni singolo individuo. Concepire la tutela soltanto in termini statistici significa accettare il principio machiavellico che il fine giustifica i mezzi. E' questo un punto di riflessione decisivo.
Il colloquio tra la donna ed il medico dovrebbe produrre in un certo numero di casi la desistenza dal proposito abortivo, ma per ottenere l'adesione al colloquio è necessario promettere credibilmente l'esecuzione dell'interruzione di gravidanza. In termini brutali si tratta dell'uccisione di un rilevante numero di esseri umani per non farne morire una quantità maggiore.
A questa logica si richiamano proposte modificative, germinate anche in campo cattolico che suggeriscono di rendere obbligatorio il colloquio nel consultorio, eliminando dall'iter abortivo il medico di fiducia e quello della struttura socio-sanitaria. In questa linea di pensiero si muove anche una soluzione più flessibile, che, pur mantenendo il ruolo del medico di fiducia e di quello della struttura socio-sanitaria, cerca di rendere più appetibile il contatto con il consultorio facendone una corsia privilegiata e più rapida per ottenere l'interruzione della gravidanza. La soluzione è stata suggerita più volte nelle relazioni dei Ministri della Sanità.
L'idea non è accettabile perché insiste nella linea "machiavellica" ed aggrava il coinvolgimento delle strutture pubbliche e ignora il problema della difesa giuridica e concreta del singolo essere umano minacciato di morte. Rispetto ad esso lo Stato ha un fondamentale ed elementare dovere di protezione. Rinunciare alla minaccia penale, tollerare comportamenti individuali che non si riesce ad impedire, non può significare in alcun caso che lo Stato da difensore si trasformi in esecutore di morte. Pur tenendo conto della particolarissima situazione della donna incinta e delle difficoltà culturali, il problema del che fare va posto di fronte alla concretezza di una gravidanza in atto.
La cultura abortista sfugge a questo problema riducendo la prevenzione alla sola contraccezione, cioè alla prevenzione del concepimento, mentre problema squisitamente giuridico e sociale è capire cosa fare per prevenire l'aborto (non in genere l'aborto come fenomeno sociale, ma quel determinato aborto) anche quando la gravidanza è iniziata.
Il coinvolgimento delle strutture pubbliche nell'esecuzione dell'aborto è, perciò, l'aspetto più grave. Tollerare l'interruzione volontaria della gravidanza è meno ingiusto che riconoscere il diritto di abortire e più grave ancora è garantire un tale diritto ponendovi a fronte un obbligo dello Stato gestito nella forma del pubblico servizio. La logica di una possibile riforma deve essere capovolta. Uno Stato che non vieta penalmente l'aborto deve, almeno, non lasciarsi coinvolgere e predisporre strumenti univoci a difesa della vita nascente. Il consultorio può essere questo strumento, a condizione che appaia e sia esattamente alternativo alla pretesa d'aborto, estraneo ad essa e non luogo privilegiato per darle esecuzione.
L'inopportunità di interventi modificativi sulla legge 194 è sostenuta anche con argomenti generali di carattere politico-culturale. Sarebbe imprudente, si dice, ritoccare la norma perché ciò susciterebbe un vespaio di polemiche laceranti: cerchiamo, piuttosto, di lavorare al di fuori di essa per rimuovere le condizioni economiche che sospingono all'aborto. Adeguate provvidenze per le famiglie e le ragazze-madri possono tutelare il diritto alla vita in modo più efficace. D'altronde, si aggiunge, l'aborto è un fatto culturale: meglio dunque agire a livello educativo.
Infine, si conclude, l'attuale condizione dell'Italia presenta ben altri problemi da risolvere ed un eventuale riaccendersi di conflittualità sull'aborto renderebbe ancora più ingovernabile il Paese.
Come rispondere? Non c'è alcun dubbio che si debba por mano finalmente ad una politica familiare in grado di rimuovere difficoltà che rendono problematica una gravidanza. Anzi è proprio la logica del diritto alla vita che spinge in questa direzione: è la mentalità abortista che, con la disumana e sbrigativa soluzione dell'eliminazione del figlio, fa da freno. Ma l'esperienza prova che l'aborto è assai frequente anche quando non sussistono motivazioni economico-sociali. Non c'è da illudersi in una contrazione significativa dell'abortività solo per effetto di una adeguata politica familiare. In ogni caso resta il problema della difesa giuridica del singolo concreto individuo a rischio di morte.
Questo ultimo argomento vale anche per replicare all'idea che per arginare il fenomeno basti la cultura. Si tratta, in primo luogo, di capire di quale "cultura" si tratta. Quella della contraccezione come strumento di una sessualità "banale" o quella della vita come "frontiera intransitabile" (secondo un'espressione lapiriana)? La prima si traduce in una ulteriore spinta all'aborto1 , la seconda determina, come logica ricaduta della responsabilità verso il concepito, anche la decisione di una procreazione cosciente e responsabile. Ma poi l'interdipendenza tra legge e cultura appare indiscutibile. Nessuna modifica legislativa sarà possibile senza una crescita di sensibilità rispetto al valore della vita, ma la legge è un fattore potente che incide, in un senso o in un altro, nel modo di pensare della gente. Inoltre in una società ordinata la legge è elemento tutt'altro che secondario. Essa esprime la razionalità collettiva. La tutela della vita tocca il punto essenziale in cui l'ordinamento persegue il suo fine ultimo, la ragione stessa della sua pretesa di porsi come giustizia e non come forza.
9.b) I dibattiti parlamentari sull'aborto dal 1978 in poi. Le condizioni culturali della revisione della L. 194
Il Parlamento italiano ha avuto occasione di occuparsi più volte della questione dell'aborto dopo l'entrata in vigore della L. 194. A parte un non modesto numero di interpellanze e interrogazioni, gli strumenti di sollecitazione al dibattito sono stati: le relazioni annuali del Ministro della Sanità, le discussioni sulla fiducia al governo, la presentazione di specifiche mozioni sul diritto alla vita.
Le relazioni ministeriali non hanno mai suscitato riflessioni scientifiche a livello di sedute plenarie ed è stato faticoso anche ottenerne la presentazione tempestiva, la completezza, la discussione in sede di commissione sanità (affari sociali). Il Movimento per la Vita ha contribuito a stimolare la valorizzazione di tali relazioni con propri rapporti nel 1982-83-87-92. Alla Camera dei Deputati ad ogni voto di fiducia un gruppo di parlamentari ha chiesto al governo impegni per una correzione della gestione della legge, ottenendo per vero risposte generiche o di principio.
Il dibattito fu particolarmente fruttuoso all'inizio del governo Spadolini (1981), che promise la valorizzazione dei Centri di Aiuto alla Vita e del governo Amato (1992). Ma i momenti più significativi sono stati i dibattiti alla Camera sulle mozioni per la vita nel giugno-luglio 1988 (mozione Martinazzoli)1 e nel 1993.
Nella prima circostanza non era in discussione la legge 194 in modo diretto, ma la tutela in via generale del diritto alla vita , da riconoscersi quale diritto umano in occasione del 40° anniversario della Dichiarazione dei diritti dell'uomo.
Aveva concausato l'iniziativa parlamentare una petizione popolare firmata da 2.500.000 cittadini.
La mozione Martinazzoli fu battuta per soli cinque voti. Il voto, comunque, dimostrò una discreta capacità degli argomenti a favore del diritto alla vita di determinare consenso anche tra parlamentari dei partiti favorevoli alla L. 194.
Altre mozioni votate per punti affermarono la validità della L. 194, ma esortarono il governo a condurre azioni per educare al valore della vita e impegnarono la Camera a costituire una commissione d'indagine sulla gestione della L. 194 (mozione Martini-Casini). Tale indagine non è stata mai conclusa.
Più favorevole il dibattito nel 1993, al termine del quale risultarono approvate sia una mozione unitaria redatta dal verde Mattioli, contenente espressioni di qualche pregio (si stabilisce infatti la protezione giuridica dell'embrione umano ammettendo esclusivamente gli interventi di carattere terapeutico che lo riguardano e vietando ogni sperimentazione che non sia riconducibile a tale finalità) sia la mozione del MSI in cui espressamente si chiedeva la revisione della L. 194.
Da questi dibattiti si ricava la prova di una crescente sensibilità per il valore della vita, ma anche la necessità di costruire condizioni più solide per avviare una riforma legislativa.
Mi pare che si possano precisare in sei punti tali condizioni:
I) la convinzione della piena umanità del concepito.
A questo riguardo la debolezza dell'abortismo è grande, perché anche il dubbio milita dalla parte della vita: non si arrestano le ricerche di un disperso in mare o di un sepolto da una valanga finché resta un dubbio sulla sua esistenza in vita. Tuttavia la condizione dell'uomo all'inizio del suo vivere è davvero particolare. Essa è contrassegnata dalla invisibilità, che non dipende soltanto dal suo nascondimento nel grembo materno, ma anche, nelle primissime fasi, dall'assenza di forme esterne umane. Egli è pienamente visibile soltanto per gli occhi della ragione, tipicamente umani, che vedono l'essenza. Difenderlo significa in primo luogo renderlo visibile alla società tutta intera. Perciò esso va collocato nelle categorie visibili dei "bambini" e come "poveri". In definitiva embrione, bambino, ragazzo, giovane, adulto, anziano, vecchio, sono nomi della identica realtà umana e il "bambino non nato" è il più vicino al "bambino già nato". Per povero, poi, intendo colui che non ha, che dipende dagli altri. Chi è più povero del nascituro privo persino di visibilità ed in rischio di vita?
II) La convinzione della laicità dell'istanza di tutela della vita nascente.
A volte si è accusati di biologismo o di terrorismo quando si dicono le cose or ora enunciate. Ma bisogno rendersi conto che solo la identità umana del concepito colloca l'istanza della sua difesa nello spazio della laicità ed acquista la forza attualissima del principio di non discriminazione. Se ciò che è in gioco non è la vita di un essere umano, allora l'accusa di confessionalismo e di violazione del pluralismo diverrebbe fondata. E' dunque il rapporto tra diritto alla vita e laicità che va approfondito e mostrato. Su questo punto la cultura "laica" deve essere richiamata alla sua verità e nobiltà. Proprio sull'aborto essa può salvarsi, ovvero decomporsi.
La lotta per la vita deve essere presentata come analoga a quella per la liberazione degli schiavi o per l'eguaglianza nei neri. Come non poteva essere accusato di confessionalismo chi proclamava l'eguaglianza degli ebrei rispetto agli ariani, così non lede la laicità chi afferma che tutti gli uomini sono uguali anche quando si trovano nella fase iniziale della loro esistenza.
III) La sensibilità acuta per la condizione femminile.
Fino ad ora l'attenzione è stata polarizzata su un solo protagonista: il figlio. Ma è giusto riflettere sull'altro protagonista: la madre. La gravidanza è una condizione particolarissima. Essa cambia totalmente la vita della donna. Di più il concepito è principalmente affidato a lei che di fatto può difenderlo contro ogni (per quanto soverchiante) difficoltà o rifiutarlo nonostante ogni (per quanto severo) divieto di legge.
Contro l'immagine costruita dai mass-media la popolazione femminile italiana è più contraria di quella maschile all'aborto e alla legge d'aborto1 . D'altra parte il nostro tempo è caratterizzato dalla prepotente emersione della donna che rivendica dignità e diritti. Occorre una operazione culturale che, riconosciuta la validità di fondo dei movimenti di liberazione femminile, li collochi sullo stesso piano della lotta per il diritto alla vita, invocando il diritto di non discriminazione sia per le donne che per i bambini, e stabilisca una alleanza tra le due categorie in vista di un obiettivo comune. In questo è di straordinaria importanza il comportamento della popolazione femminile.
IV) La rinuncia, in linea di principio, alla sanzione penale.
La particolarissima condizione della gravidanza implica che, nella concretezza di un rischio di aborto, si punti al massimo sulla collaborazione della madre. Essa non è certo isolata né indipendente dal contesto in cui vive: padre del bambino, famiglia, amicizie, società nel suo complesso. Ma di fatto essa ha l'ultima parola. La minaccia penale costituisce per la sua volontà una indicazione di valore e una controspinta di timore. Ma non è detto che sia l'unico modo di ottenere una efficace collaborazione. Tornano qui utili le riflessioni della sentenza costituzionale tedesca del 1993 sul carattere strumentale del diritto e sugli aspetti "costosi" del diritto penale, che ne fanno una "extrema ratio" da usare solo qualora altri strumenti "meno costosi" non si rivelino più (o almeno ugualmente) efficaci. La sensibilità contemporanea è "inquietata", oltre ogni contraria apparenza, dal pensiero della generalizzata condanna penale della madre che ha abortito. Perciò ha qualche speranza di successo soltanto un progetto che si muova tra due binari: da un lato il riconoscimento chiaro e fermo del diritto alla vita; dall'altro la rinuncia in linea di principio al diritto penale per la sua diretta difesa. E' possibile un tale percorso senza cadere in ipocrisie? In ogni caso una generale ripenalizzazione appare politicamente impraticabile e forse incapace di ottenere, anche ove passasse, l'effetto sperato. Sarebbe infatti prevedibile una contestazione durissima, mentre sembra urgente una pacificazione che renda maggiormente permeabili menti e cuori. Occorre dunque seriamente riflettere sugli strumenti di protezione del diritto alla vita alternativi al diritto penale e capaci di suscitare la collaborazione della madre e del contesto in cui essa vive.
V) la ricerca di soluzioni non ambigue a tutela del diritto alla vita.
E' necessario che questi siano di alto profilo, non mediocri "escamotages" per lasciar le cose come stanno e consentire senza ostacoli l'aborto salvandosi l'anima con belle parole. L'individuazione della tutela del diritto alla vita fin dal concepimento quale scopo primario della legge dovrebbe essere univoca, chiara ed espressa. Una tale formulazione avrebbe già di per sé una efficacia preventiva di non piccolo momento.
VI) L'accettazione del principio di gradualità.
La realistica valutazione della situazione politico-parlamentare implica l'accettazione del metodo della gradualità. E' difficile ottenere un testo normativo che rappresenti l'ideale della giustizia. Ma la materia è di così grande rilevanza che ogni spostamento in avanti costituisce un bene cui non si può rinunciare per il solo fatto che non si può ottenere di più. Oggi la situazione è capovolta rispetto al tempo in cui la legge era fondamentalmente coerente con il principio della tutela del diritto alla vita. Allora ogni sua demolizione, anche parziale, per legittimare l'aborto, costituiva un male inaccettabile. Oggi che l'interruzione volontaria di gravidanza è ampiamente legalizzata e costituisce oggetto di un diritto, ogni pur modesto intervento modificatore per meglio tutelare il diritto alla vita è un bene, non un "male minore". L'esempio del naufrago è calzante. Sarebbe illecito collaborare all'affondamento di una nave. Ma se è già avvenuto il naufragio, per grande che sia il numero dei naufraghi, colui che disponendo di una sola scialuppa salva un numero limitato di persone non può certo essere accusato perché gli altri, non raccolti, sono annegati.
9.c) Possibili correzioni della legge italiana
Dando per scontata la necessità e l'urgenza di interventi anche di carattere economico-sociale che abbiano come effetto l'aiuto alla maternità difficile o indesiderata, la riforma della L. 194 può seguire due criteri. Quello più rigoroso e costituzionalmente più corretto è stato già illustrato. Esso prende sul serio la sentenza n. 27 del 1975 e propone una disciplina fondata sulla soluzione di un conflitto fra gli interessi di due soggetti e configurata come descrizione di uno stato di necessità speciale che esclude la punibilità dell'aborto quando esiste un vero e grave pericolo per la vita o la salute della madre. Esclusa l'autodeterminazione della donna il sistema si incentra sulla serietà di un controllo medico preventivo. In questo senso si è mossa la già ricordata proposta di legge n. 2159 XI legislatura. Ove questa linea, come sembra probabile, non risultasse politicamente praticabile, si potrebbero introdurre integrazioni e correzioni per rendere il testo della legge coerente con l'affermazione dell'art. 1 secondo cui "Lo Stato tutela la vita umana fin dal suo inizio". Di essa si rende peraltro impossibile ogni interpretazione ambigua usando la diversa formula "Lo Stato riconosce il diritto alla vita di ogni essere umano fin dal suo concepimento". E' quanto ha fatto la proposta n. 2160 XI legislatura (Casini ed altri). Così stabilito con chiarezza il primo binario, il testo accetta arditamente l'autodeterminazione della donna ma non intesa come diritto o libera scelta, ma piuttosto come l'attribuzione di fiducia alla madre al fine di tutelare la vita del figlio. Il sistema ruota su un consultorio pubblico totalmente sottratto alla procedura per l'aborto. La sua funzione è esclusivamente quella di proteggere il diritto alla vita. Perciò vengono fissati criteri legali di composizione e controlli. In nessun caso esso collabora neppure indirettamente all'esecuzione dell'aborto. Esso interviene, invece, allo scopo di saggiare le alternative a richiesta della donna o di propria iniziativa. Alla gestante, che ha un primo colloquio solo con il medico ospedaliero (non più di fiducia) viene ricordato il dovere di accogliere la vita e di farsi aiutare in questo senso dalla società attraverso lo strumento consultoriale. Contemporaneamente il consultorio di zona o quello scelto dalla donna, sostituibile con organizzazioni di volontariato accreditate, viene avvisato della richiesta di interruzione di gravidanza e può intervenire presso la donna di sua iniziativa. La gestante può non recarsi al consultorio o respingere l'intervento ma è fortemente responsabilizzata circa l'intervento che intende compiere. L'immagine dello Stato è più quella di un difensore della vita che rinuncia alla pena e meno quella di un esecutore di condanna di morte. Muterebbe fortemente la cultura e la prassi consultoriale. L'esperienza dei numerosi centri di aiuto alla maternità difficile prova l'efficacia di interventi univoci non compromessi con l'aborto sia in ordine di ristabilimento di una cultura generale, sia in ordine alla difesa concreta della vita. Il consultorio dovrebbe divenire il centro di coordinamento pubblico di tutti gli strumenti di solidarietà e di assistenza a tutela del diritto alla vita. Questo sistema avrebbe bisogno, peraltro, di essere garantito e verificabile. Di qui l'obbligo di verbalizzazione del colloquio, sia pure in forma anonima, di indicazione per scritto delle cause per cui l'aborto è richiesto, il controllo del Tribunale dei Minorenni sull'attività consultoriale per la parte relativa all'accoglienza della vita. La presenza degli obiettori di coscienza nel consultorio non costituirebbe più un problema perché il consultorio non pone in essere alcun antecedente dell'aborto, né rilascia dichiarazioni di sorta. Esso ha il compito di fare il possibile per ottenere la collaborazione della donna nell'accoglienza alla vita. La donna può sottrarsi a questa attività o comunque procedere egualmente all'intervento. Ma almeno lo Stato ha fatto il possibile per evitarlo.
Attorno a questo nucleo ruotano le altre correzioni proposte: il coinvolgimento del padre del concepito; l'estensione delle procedure di dissuasione (attesa di sette giorni, intervento consultoriale) anche all'aborto oltre un mese; l'eliminazione dell'urgenza (che attualmente consente ampiamente la frode degli stessi tenui filtri contenuti nella legge); i controlli medici verificabili per l'aborto oltre il terzo mese (collegio peritale in caso di asserito rischio psichico, riscontro diagnostico in caso di aborto eugenetico); l'ampliamento dell'obiezione di coscienza (con l'eliminazione delle liste e degli impacci burocratici); il ristabilimento della patria potestà dei genitori e dei tutori; l'eliminazione della gratuità dell'intervento (che almeno simbolicamente rende corresponsabili dell'aborto tutti i contribuenti); la configurazione del delitto di pubblica istigazione all'aborto.
La rilettura di queste proposte può lasciare insoddisfatti quanti avvertano il carattere fondante del diritto alla vita. Ma chi conosce la durezza della resistenza ad ogni modifica sa che sarebbe già un notevole passo avanti l'eliminazione nella legge stessa di quelle equivocità che la rendono insincera, oltrechè lesiva del diritto alla vita.
CAPITOLO DECIMO
SPUNTI PROPOSITIVI PER UNA LEGISLAZIONE PIU' UMANA
In questo mio lavoro mi sono preoccupata di sottolineare l'incongruenza di una legge che ha reso possibile l'applicazione di principi che di fatto risultano essere anticostituzionali alla luce della nostra Costituzione.
E' auspicabile che si metta al più presto mano a tale legge, ma ciò che più preme e più risulta essere necessario, è che si crei un'opinione pubblica su tali questioni. E' indubbio, infatti, che molti hanno votato a favore della abrogazione senza avere piena consapevolezza di ciò che questo avrebbe comportato. Quanti, nel momento in cui sono stati interpellati per esprimere con un voto il loro giudizio, erano a conoscenza di ciò che avviene nell'organismo di una donna nel momento della fecondazione? Chi conosceva cosa è e come si evolve uno zigote? Era stato reso noto ciò che di fatto avviene nel momento in cui si interrompe volontariamente una gravidanza e le conseguenze fisiche, psicologiche e morali che questo evento comporta nella vita di una persona?
Ancora oggi sono certamente meno sono coloro che conoscono le possibilità mediche, giuridiche e sociali che esistono per poter superare molte delle difficoltà che spingono una donna o una coppia ad abortire.
Sono tutti fatti che necessitano divulgazione perché si formi un'opinione pubblica consapevole e matura, capace di affrontare con responsabilità la questione dell'aborto.
La legge attualmente in vigore ha voluto difendere la libertà della donna e, in nome di tale libertà, ha concesso la possibilità di uccidere quello che, pur se in fieri, è comunque un essere umano. E' noto come nella nostra società, libertà sia sinonimo di "fa' ciò che vuoi e come vuoi, l'importante è che ti piaccia". Su tale modo di pensare hanno puntato da sempre i mezzi di comunicazione, la pubblicità, il marketing e un certa "cultura d'elite" che si impone con le sue opinioni. Sono questi, in definitiva, che conducono le sorti della storia, non la ragione e l'esperienza umana.
Si dovrebbe incominciare a pensare di intervenire responsabilmente sulla formazione della coscienza collettiva, partendo proprio dal tanto bistrattato concetto di libertà che dovrebbe essere inteso nel suo reale e veritiero significato.
La libertà è ciò che in definitiva eleva l'uomo al di sopra delle bestie, perché lo rende capace di atti che, vagliati alla luce della ragione, sono liberi dagli istinti propri della sfera animale.
Libero non è chi fa ciò che gli piace ma chi è capace di affrontare la propria esistenza con responsabilità e dominio, facendo scelte che portino la propria umanità al pieno sviluppo. Libero è chi realizza la dignità del suo essere uomo e sa operare il bene per sé e per gli altri, chi sa astenersi da ciò che danneggia se stesso e gli altri uomini.
Pur volendo lasciare gli uomini liberi di scegliere il male, si abbia l'accortezza di informare che questa non è vera libertà perché il male, da che mondo è mondo, rende schiavo l'uomo.
E in ciò la storia ci è maestra. A che è giovato all'uomo camminare nei secoli della storia, se poi si ritrova nell'era moderna ancora convinto che "civiltà" è lasciare libera una donna di uccidere ciò che porta nel suo grembo?
In quanto a formazione della personalità umana, purtroppo, è ancora tutto da costruire e non saranno mai troppi gli interventi che si potranno realizzare sia con i mezzi di comunicazione sia direttamente nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri, nelle parrocchie.
Non solo, occorre promuovere una riforma dei mezzi di comunicazione, soprattutto della televisione, che non deve essere "libera" di danneggiare la psicologia.
Anche per la scuola è auspicabile una riforma con l'introduzione di nuove discipline che permettano una maggiore formazione umana. E' proprio nella scuola che i ragazzi devono sviluppare un forte senso critico per una giusta decodificazione della realtà che li circonda. E' anche nella scuola che si deve apprendere, oltre a nozioni scientifiche ed umanistiche, anche come affrontare il proprio futuro e non solo quello lavorativo.
La scuola deve essere "corso di vita", si deve poter apprendere l'etica di comportamento, nelle relazioni, nell'attività politica, sociale ed economica.
L'educazione sessuale nelle scuole, non fine a stessa e non considerata come esclusiva conoscenza dell'atto sessuale e di ciò che gli appartiene, ma intesa come piena conoscenza dell'essere uomo e donna, sempre accompagnata da una sana educazione morale, sarà la migliore prevenzione non solo dell'aborto ma anche di tanti danni psicologici a cui i giovani sono soggetti e sarà valida formazione per affrontare in modo adeguato la vita familiare.
E' necessario, inoltre, incentivare quella ricerca impegnata sul fronte della verità e del bene, mentre devono esser fortemente scoraggiate le indagini e le sperimentazioni che non pongono a fondamento la dignità-verità dell'uomo.
Se si guardano con occhio attento gli avvenimenti dei nostri tempi, appare evidente come la libertà, intesa come "fare ciò che ti pare e piace", sia diventata l'idolo dell'uomo moderno, idolo a cui anche gli Stati fanno il loro omaggio. E' in nome di tale libertà che si è giunti al paradosso di poter affittare uteri e comprare spermatozoi o di dare la possibilità di adozione a coppie omosessuali.
Chiunque è libero oggi di poter organizzare logge o sette con riti tribali ed incivili, mentre, assurda incongruenza, a coloro che vogliono operare il bene si richiede una scoraggiante trafila burocratica. Sono reali esperienze dei nostri giorni!
Ecco che diventa urgente operare perché nella nostra società si mettano i concetti al giusto posto e si inizi a chiamare bene il bene e male il male. Non è sopportabile che si danneggi l'umanità in nome di questa pseudo-libertà!
Se poi si vuol ricorrere al più presto ai ripari ed evitare il totale smembramento del tessuto sociale, si deve inderogabilmente mettere al centro di ogni azione politica, sociale ed economica, la famiglia, prima e vitale cellula della società, unico luogo dove l'individuo può formare armonicamente la sua psicologia e apprendere i valori etico-sociali. Garantire alla famiglia una casa, il lavoro, sussidi economici, strutture ed infrastrutture di sostegno, permetterà alle famiglie numerose, con presenza di anziani o di figli inabili, di affrontare più serenamente i problemi.
E questo, in ultima istanza, significa non vivere una ulteriore gravidanza o una gravidanza problematica come una insormontabile difficoltà.
Aiutare la maternità e l'infanzia bisognosa e in difficoltà, sia direttamente sia sostenendo ed incentivando quei movimenti ed associazioni che lavorano in questo campo, è il modo migliore per prevenire l'aborto. Anzi, a coloro che si prodigano in tal senso bisogna dare sempre più la possibilità di operare in modo capillare, sistematico, sì da penetrare in ogni ambiente e far giungere ovunque l'azione di prevenzione dell'aborto e di accoglienza della maternità e infanzia.
Uno Stato che si fa madre e sa provvedere ai bisogni dei suoi cittadini, sa affrontare e organizzare il futuro della popolazione, sa prevedere e superare le difficoltà, sa stimolare e sostenere i movimenti e le associazioni di volontariato, sarà uno Stato che vedrà rifiorire in sé la vita e poco dovrà ricorrere alla coercizione della legge.
Ciò che poi lo Stato non deve mai fare, è di mantenersi neutrale nella formulazione di principi. Quando fa questo danneggia se stesso poiché il suo operato, come boomerang, gli si ritorce contro creando instabilità e sfiducia da parte dei cittadini. Infatti lo Stato in tanto ha motivo di esistere in quanto stabilisce e tutela i principi per il bene della collettività.
Chi prende visione della 194 resta scandalizzato e fortemente destabilizzato dall'idea di appartenere ad uno Stato sornione che subdolamente sa ricorrere all'ambiguità pur di adattare una legge. Ma se un cittadino non ha la possibilità di confrontarsi con la lealtà e schiettezza del suo Stato, quale possibilità di confronto gli rimane? La mafia, la delinquenza, il sopruso organizzato!
Occorre pertanto una certa chiarezza di comportamento incominciando con il ribadire che non allo Stato compete stabilire quando inizia e quando finisce la vita, ma alla scienza. E se la scienza in questione di vita nascente si divide in due, per il solo fatto che esiste, secondo il pensiero di una parte della scienza, la possibilità di vita sin dal primo momento del concepimento, quella vita va tutelata e rispettata. Innanzitutto perché, in seno ad una democrazia, va rispettato il parere di una parte della collettività e poi perché, esistendo la possibilità di un dubbio, è da considerarsi comunque un atteggiamento omicida soprassedere a tale dubbio.
Comunque lo si voglia considerare, e qualunque sia la posizione che si vuole assumere nei suoi confronti, l'embrione ha un suo preciso "identikit":
1) L'embrione è un essere vivente in quanto è distinto da una cosa inerte.
2) La vita dell'embrione è vita umana in quanto, pur essendo unicellulare, ha in sé il numero di cromosomi che è tipicamente umano.
3) L'embrione è un individuo della specie umana in quanto è costituito dall'incontro tra i 23 cromosomi presenti nella cellula germinale maschile e i 23 cromosomi dell'ovulo femminile. Da questo incontro si costituisce una nuova cellula, detta zigote, con patrimonio genetico umano completo, diverso da quello paterno e materno e da quello di ogni altro essere umano. Questa prima cellula è capace di sviluppare un nuovo essere umano con caratteristiche sue proprie.
4) L'embrione è una persona in quanto l'intero organismo umano, cervello compreso, è realmente presente, e in ogni particolare, già nello zigote. Se infatti nello zigote non vi fosse il cervello, questo mancherebbe poi nel feto e nel bambino. Nello zigote, pertanto, esiste la capacità di agire umano. E' inconcepibile pensare che questa capacità non sia reale per il fatto che diventerà operante solo quando disporrà degli "strumenti" necessari. Vi sono infatti persone che mancano di strumenti necessari come gli inabili mentalmente, per esempio, ma che non per questo non sono considerate persone. O si vuol giungere anche a questo paradosso?
L'identità dell'embrione è una realtà che lo Stato deve definire, tutelare con una speciale norma e diffondere.
Fintanto che le autorità competenti non prenderanno atto di tali situazioni, assumendosi le dovute responsabilità, spetta a noi, persone di buona volontà impegnate sul fronte del bene, divulgare tutte queste verità e prodigarci nella tutela della vita, nell'accoglienza alla maternità e all'infanzia e nella diffusione del "Vangelo della vita".
CONCLUSIONE
Da sempre l'uomo ha cercato di giustificare le sue leggi commisurandole alla Giustizia, ma da sempre la Giustizia, come valore universale assoluto e intangibile, gli è sfuggita di mano. Ciò che è giusto per me non è giusto per te, e ciò che è giusto per noi non è giusto per gli altri. Così il relativismo e la scomposizione della cultura moderna si sono visti vanificare tra le mani l'idea stessa della Giustizia, e si sono rifugiati nella legalità.
La legge è giusta perché legge. Tuttavia, abbandonata la ricerca di una inattingibile Giustizia, l'uomo si è ritrovato tra le mani soltanto uno strumento di potere: la legge è divenuta la volontà del più forte. Le esperienze più cupe della nostra storia recente hanno smascherato a fondo il volto cinico del potere che si nasconde dietro l'orpello della legalità. I massacri degli Ebrei non avvenivano illegalmente nella Germania nazista, e nelle leggi trovano supporto le stragi staliniane. I criminali di Norimberga si giustificarono in nome del principio di legalità. Di qui la crisi del diritto. Una crisi dai molti aspetti, ma la cui sostanza più vera sta nel fatto che il moderno giurista è costretto a rinnovare le fatiche di Sisifo: cerca la Giustizia, ma non appena crede di averla trovata, gli sfugge di mano perché si trasforma in ideologia, in affermazione partigiana e non universale. La Giustizia resta un valore per tutti finché è soltanto un'idea. Non riesce a passare dall'astratto al concreto. Abbandonare l'impresa e acquietarsi del fatto? La Giustizia concreta è dunque soltanto la legge? Il diritto è il campo di battaglia delle opposte ideologie? Ha ragione il più forte?
Le tragiche esperienze degli anni trenta e quaranta fecero, però, intravedere un compromesso, una metodologia di partenza: l'uomo come sostanza del diritto. "Hominum causa omne ius constitutum est". La vita dell'uomo come fine del diritto, il precetto del non uccidere, universalmente accolto, come l'assoluto da cui dedurre ed a cui commisurare il valore di tutte le singole norme.
Ciò, certo, non esclude l'opinabilità, l'irrompere dell'ideologia, sempre più marcata quanto più gli aspetti della vita umana individuale e sociale si collegano più sfumatamente al bene della vita umana. Ma almeno c'è una bussola.
Per questo il tema dell'aborto è conturbante e non consente né il sorriso né il fastidio.
Ridotta al nocciolo, la questione è se il concepito sia o no individuo umano. Naturalmente c'è chi lo nega e chi ne dubita. Ma se lo fosse, così come afferma la scienza? Ammettere il diritto di sopprimerlo, anzi utilizzare la possente organizzazione statale per sopprimerlo, non costituisce un attacco al fondamento stesso dell'ordinamento giuridico?
Nessuno vuol negare la realtà di difficoltà in cui si dibatte la donna in molti casi. Si domanda però se l'opportunità di un atteggiamento indulgente e comprensivo per i suoi problemi esiga necessariamente di riconoscere il diritto di aborto. Soprattutto si domanda se la soppressione di esseri umani sia il modo migliore di risolvere i problemi. La raffinata potenza delle strutture sociali moderne, il diffuso spirito di solidarietà, la capacità di ricerca scientifica le possibilità educative dell'istruzione di massa, sono tutti strumenti efficaci che l'uomo di ieri non possedeva. Da sempre la guerra è sembrata il modo più sbrigativo di superare le controversie internazionali, ma da sempre essa è risultata inutile e dannosa. La depenalizzazione non ha necessariamente come conseguenza il diritto d'aborto, né una azione illecita può diventare lecita perché compiuta dallo Stato.
Non resta altro che indicare l'errore esiziale di quanto pretendono di relegare nell'ambito delle credenze religiose o morali la tutela della vita umana, che è invece tema "laico" per eccellenza, perché pone l'uomo, e solo l'uomo, a fondamento e fine dell'ordinamento giuridico, e perché chiede alla scienza, chi l'uomo sia.
Perciò non sarebbe poca cosa richiamare le forze politiche di destra a mantenere promesse più o meno disordinatamente fatte e convincere le forze di sinistra che, dopo il crollo del comunismo reale, non c'è istanza di giustizia sociale che possa realizzarsi se non fondandola sul valore misterioso di ogni essere umano, in ciò che Carte internazionali e Costituzioni chiamano "dignità umana". La questione del diritto alla vita ha, in definitiva, questo respiro in certo senso epocale. Esso indica la pietra di paragone che distingue il vero dal falso umanesimo1 ed anche la prima pietra per un possibile rinnovamento civile e politico.
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ZANCHETTI M., La legge sull'interruzione della gravidanza, Padova 1992.
INDICE
Introduzione p.
I
L'articolo I p.
II
L'articolo II p.
III
L'articolo III p.
IV
L'articolo IV p.
V
L'articolo V p.
VI
L'articolo VI p.
VII
L'articolo IX p.
VIII
Effetti psicopatologici nella
donna che ha abortito.
IX
La giurisprudenza costituzionale
italiana. Necessità di adeguamento
costituzionale. p.
X
Spunti propositivi per una
legislazione più umana. p.
Conclusione p.
Bibliografia p.
Indice p.
1 SENATO DELLA REPUBBLICA, Disegno di legge 26/1/77, n. 483, dal titolo: "Norme sull'interruzione della gravidanza", d'iniziativa degli onn. FACCIO e altri.
2 CAMERA DEI DEPUTATI, Proposta di legge 09/06/77, n. 1524, dal titolo: "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza", d'iniziativa degli onn. BALZAMO, BOZZI, GORLA M., MAMMI', NATTA A., PRETI, SPINELLI.
1 SENATO DELLA REPUBBLICA, Disegno di legge 18/04/1978, n. 1164, dal titolo: "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza", d'iniziativa degli onn. BALZAMO, BOZZI, GORLA M., MAMMI', NATTA A., PRETI, SPINELLI.
1 Più che citazioni di testi scientifici e divulgativi, che sarebbero lunghissime, basterà ricordare che nella fase finale dei lavori preparatori, dopo che nel corso degli anni precedenti si erano udite in Parlamento voci reticenti o discordi, gli stessi relatori, senn. Pittella e Tedesco, dichiararono a chiare note la indiscutibilità dell'esistenza di vita umana nel frutto del concepimento. Cfr. Resoconto-Sommario Senato CCLXXXVI seduta pubblica, 16 maggio 1978.
1 Cfr. TOCCI A., Il procurato aborto, Milano 1954, p. 161;
MANZINI, Trattato di diritto penale, VII, torino, UTET, 1963, p. 572;
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, Milano 1957, p. 81-82.
1 Atti della Camera dei Deputati, Stampato Senato 483, VII Legislatura, febbraio 1977, p. 11. Un'altra singolare giustificazione del termine di novanta giorni si legge in tale pubblicazione alla p. 188. In sede di I Commissione permanente (Affari Costituzionali) nella seduta del 30 novembre 1976, il relatore Bozzi, sostenne che il termine di novanta giorni, oltre che da ragioni medico-sanitarie, sarebbe giustificato "dalla presunta cessazione del particolare stato di angoscia della donna, la quale, dopo tale periodo, dovrebbe sostanzialmente aver accettato la gravidanza".
1 Sembra peraltro che il suicidio di donne incinte, anche se ad esse venga rifiutato l'aborto, sia particolarmente raro. Nel volume di WILLKIE B. e J., Manuale sull'aborto, Milano 1978, p. 57-58, si riporta uno studio da cui risulta che in Svezia tra il 1938 ed il 1958 l'aborto è stato rifiutato a 13.500 donne. Soltanto di tre tra esse è stato registrato il suicidio. Sempre nel testo dei Willkie si riportano i dati di uno studio effettuato nel Minnesota e si arriva alla conclusione che il suicidio tra le donne incinte è estremamente raro, tanto da pensare che il feto nell'utero deve costituire un meccanismo protettivo.
1 Cfr. commento all'art. 4.
1 Per gli Ebrei, l'interruzione volontaria della gravidanza è atto gravemente delittuoso e risulta vietato, oltre che dal diritto biblico, anche dal diritto talmudico.
2 Il V Comandamento del Decalogo è in tal senso perentorio nella sua lapidaria formulazione: "Non uccidere".
3 Al Sinodo di Elvira verso il 306 d. C., can. 63, risalirebbero le prime condanne esplicite contro i colpevoli di aborto. Coerente è sempre stata la Chiesa circa il procurato aborto, ritenendolo soppressione di una vita umana innocente e, quindi, da equipararsi all'omicidio. Il can. 2350 del codice di diritto canonico punisce l'aborto con la scomunica "latae sententiae", riservata all'Ordinario. Su questa linea si è mosso anche il Concilio Vaticano II, che nella Costituzione Pastorale "Gaudium et Spes" (n. 51) afferma: "L'aborto come l'infanticidio sono delitti abominevoli"
1 TETTAMANZI D., Aborto e obiezione di coscienza: etica umana e cristiana, "Obiezione di coscienza e aborto", a cura di FIORI A:-SGRECCIA E., Milano 1978.
1 Cfr. POLTAWSKA W., Effetti psichici sulla donna a causa dell'aborto procurato, "Anime e corpi", XXII(1985), p. 343-354.
1 Sulla storia dei referendum sull'aborto e sulle riflessioni che mossero i cattolici: CASINI C.-QUARENGHI, La ricomposizione dell'area cattolica dopo il referendum sullaborto, Milano 1981.
2 Per un dettagliato esame, vedi CASINI C., Diritto alla vita-La vicenda costituzionale, Napoli-Roma 1982.
1 Cfr. le decisioni 108/81, 109/81, 26/82, 44/82, 46/82, 49/82, 80/50, 297/85, 196/87, 445/87, 462/88, 463/88, 133/90, 293/93.
2 Sul principio di autodeterminazione, fin dalla sentenza 108/81, la Corte ha sostenuto la "irrilevanza" della questione non la sua "infondatezza". Ampia dottrina sulla controversa questione in CASINI C., Il diritto alla vita..., p. 113 e ss.
1 L'ultima indagine demoscopica e quella compiuta dal CIRM. Secondo tale indagine il 58% degli Italiani crede che la legge vada rivista in senso restrittivo contro il 21% che la vuole mantenere ed un 11% che ne accentuerebbe l'aspetto permissivo. In precedenza la DOXA aveva effettuato ripetuti sondaggi, nel 1975, nel 1980 e nel 1986. In questi tre anni, la percentuale dei favorevoli all'aborto per semplice decisione della donna è stata rispettivamente il 20%, il 30%, il 25%.
E' interessante anche l'analisi del giudizio sulle cause giustificatrici dell'interruzione della gravidanza: ad es., mentre nel 1975 il 60% riteneva valide le ragioni economiche, nel 1986 solo il 20% le riteneva sufficienti.
1 SGRECCIA E., Manuale di Bioetica, Milano 1994, p. 408-410.
1 CASINI C., Aborto e contraccezione, "Studi Cattolici", XXXV(1991), n. 368, p. 691-695.
1 La documentazione dell'ampio dibattito in: La difesa della vita in Parlamento, a cura di GIUDICI M., Roma 1988.
1 Come risulta dalle indagini DOXA, il 67% delle donne ritiene che la vita umana inizi con il concepimento contro il 52% degli uomini, il 23,4% delle donne pensa che la legge debba preveere l'autodeterminazione femminile contro il 27,6% degli uomini; ancora: è il 19% degli uomini che consiglia l'aborto alla donna coniugata che non vuole il terzo figlio, mentre il consiglio opposto è dato dal 14,8% delle donne, e via dicendo.
1 Merita a questo proposito ricordare quanto il Santo Padre ha detto durante un incontro con i giovani a Bologna il 18 aprile del 1982: "... e giustamente oggi si condanna il terrorismo, come attentato e violazione di elementari diritti dell'uomo; si condanna l'uccisione dell'uomo, come cosa manifestamente contraria all'esistenza stessa dell'uomo; nello stesso tempo, però, il privare della vita l'uomo non nato viene chiamato "umanesimo", viene considerato 'prova di progresso', di emancipazione che sarebbe addirittura conforme alla dignità umana: Non illudiamoci! Noi tutti -ricordatelo sempre carissimi giovani- dobbiamo avvertire, denunciare, superare simili contraddizioni. Ricordate che 'soltanto la verità vi renderà liberi' (Gv 8,32). Soltanto la verità ha la forza di trasformare il mondo nella direzione dell'autentico progresso e del reale "umanesimo".
Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Dieci anni per la vita, a cura di CAPRILE G., Firenze 1988, p. 176.