La complessità del mondo contemporaneo ha forti ripercussioni sulla realtà giovanile, notoriamente più esposta alle suggestioni che provengono dall’esterno. Mai come oggi, allora, diventa fondamentale il problema educativo, come dimostra la crisi profonda che sta attraversando la scuola, e non solo in Italia. Educare, oggi, vuol dire innanzitutto mettersi in discussione, scendere dal piedistallo delle certezze più o meno false e puntare dritto alla personalità del giovane, al suo rapporto con sé stesso e con la realtà, sociale e culturale, nella quale egli vive. Ma significa, soprattutto, lottare perché non venga dimenticata la dimensione spirituale, impalpabile (San Paolo direbbe “invisibile”) ed intima, che presiede alle manifestazioni più tipiche del concetto stesso di umanità.

 

 

 In altri termini, l’uomo “ad una dimensione” non è completo, perché se si dà spazio solo all’ambito materiale si rischia di ridurre la meravigliosa complessità della religione, della cultura, dell’arte, della bellezza, dei rapporti umani ad un semplice meccanismo biologico e storico; d’altra parte, se ci si concentra solo sulla realtà spirituale, si cade nell’astrazione e si perde di vista, paradossalmente, la storicità stessa di Dio, che ha voluto nascere e vivere con gli uomini del suo tempo. Senza dubbio, mi pare che la modernità nasca sotto il segno di una concezione troppo scientifica e concreta dell’uomo, con il rischio di sopire e di offendere l’anelito innegabile verso l’eterno ed il trascendente che tutti ci portiamo dentro, come un’eredità che non marcisce. Ho riflettuto a lungo su queste problematiche durante un recente convegno in Belgio, a Bruxelles, relativo alle proposte in cantiere al Parlamento europeo per una maggiore mobilità dei giovani tra i 14 ed i 25 anni nei Paesi della Comunità Europea. Pur avendo partecipato al consesso come semplice uditore, ho percepito la bellezza e la utilità dei progetti sul tavolo di lavoro.

                Si tratta essenzialmente di una serie di provvedimenti che, nello spirito  dei Trattati di Schengen e, più di recente, di Lisbona, permetteranno agli adolescenti ed ai giovani comunitari di godere di tutta una serie di incentivi ed agevolazioni per viaggi di carattere formativo e culturale: si va dalla fornitura di una tessera di riconoscimento che consente di viaggiare gratuitamente su lunghi tratti di ferrovie europee alla facilità di trovare alloggio presso famiglie ospitanti o strutture create ad hoc; dallo snellimento burocratico per ottenere finanziamenti per progetti di comprovata ricaduta formativa alla creazione di reti attive di collaborazione tra Università e scuole; dalla digitalizzazione del maggior numero possibile di beni librari  alla creazione di tutta una serie di concorsi e certamina internazionali atti a favorire la reciproca conoscenza e la valorizzazione delle diversità, in uno spirito di dialogo e confronto. Come si vede, ci troviamo dinanzi ad una prospettiva di ampio respiro, per nulla utopistica e senza dubbio utilissima per abituare le nuove generazioni a percepire e vivere l’Europa come era assolutamente impensabile anche un paio di generazioni fa, quando ancora le ferite della guerra erano aperte e sanguinanti (il muro di Berlino è caduto solo vent’anni fa). Eppure, camminando per le strade di Bruxelles o di Gand, con una puntata fino ad Amsterdam, ho visto tante chiese chiuse o trasformate in musei. Ho percepito la diffusione di una mentalità profondamente laica e tecnicistica, che fa dell’efficienza umana e della produttività tangibile il segno del raggiungimento della felicità. Ho osservato tanti giovani sfatti dai divertimenti sfrenati o dall’assenza di limiti nella ricerca di una falsa serenità. In una parola, sembra che dinanzi alla bellezza delle opere delle proprie mani l’uomo tenda, ieri come oggi, a dimenticare la Bellezza con la “b” maiuscola, che pure riluce meravigliosamente nella creazione, nell’arte, nelle dinamiche più nascoste del cuore. E allora ho fatto il punto della situazione e mi sono messo in discussione proprio come educatore: ho capito che il mondo di oggi mette a nostra disposizione strumenti incredibili di crescita e di maturazione, ma che c’è anche il rischio di cadere nell’idolatria dell’opera delle proprie mani e nel culto di un progresso che diventa fine a se stesso, impedendo così ai meno fortunati di accedervi.

 

Educare, allora, significa versare il vino sempre frizzante di Cristo negli otri nuovi della contemporaneità, per offrire, soprattutto ai giovani, la linfa vitale che faccia maturate frutti di autentica condivisione e collaborazione. Occorre ripartire da qui, dall’incontro sempre attuale con il Cristo sulle strade del mondo. Da questo punto di vista non c’è molta differenza tra la Galilea di duemila anni fa e la Bruxelles di oggi: in entrambi i casi l’uomo aspetta una risposta alle sue domande e alle sue ansie intime, che paradossalmente diventano più struggenti proprio quando prendiamo coscienza, come oggi, dello stupefacente potere che è stato posto nelle nostre mani. Ne sapremo fare veramente un buon uso solo quando lo scopriremo strettamente legato a quello straordinario mondo di luce e di Bellezza che ci portiamo dentro e che come educatore non posso far altro che far emergere dall’animo dei giovani.

 

Andrea Narduzzi