La conversione di S. Paolo. 

 

 


L’episodio della conversione di S. Paolo, di cui ci parlano gli Atti degli Apostoli e Paolo stesso e che la Chiesa celebra il 25 gennaio con una forte impronta ecumenica, è ben noto. Prima fervente giudeo e, pertanto, fiero persecutore della nascente chiesa di Cristo, Saulo.

(Paolo dopo la conversione), mentre si recava a Damasco con alcune lettere anticristiane per la sinagoga di là, vive un incontro misterioso con il Signore Gesù, che sceglie di apparirgli in tutto il suo fulgore di carità. Si tratta di un momento abbagliante, fisicamente e spiritualmente, che ha segnato in modo indelebile tutta l’esistenza di S. Paolo.

 

Frutto di questa esperienza è la fulminea comprensione non tanto del mistero di Cristo, quanto della sua presenza nella storia e, in particolare, nelle comunità cristiane. È Cristo stesso, del resto, ad identificarsi con i suoi discepoli, quando rimprovera a Saulo-Paolo di perseguitarlo proprio in essi (“Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”). Quest’esperienza di fede e di intelligenza, di comprensione razionale e di conoscenza per grazia, giuda l’Apostolo delle genti (così è spesso indicato S. Paolo in virtù della sua indefessa opera di evangelizzazione tra i pagani) nel suo cammino di uomo e di fedele, come ci mostrano i suoi scritti, quelle tredici lettere indirizzate alle comunità cristiane da lui fondate in Acaia (cioè in Asia minore e Grecia, allora sotto il dominio romano) e che costituiscono il più antico documento scritto del nascente Cristianesimo (Paolo comincia a scrivere a meno di vent’anni dalla morte di Gesù).Attraverso queste lettere è possibile comprendere, almeno in parte, quali verità S. Paolo abbia scorto e intuito nell’insondabile mistero d’amore della Santissima Trinità. Dico “almeno in parte” perché ci sono alcuni passaggi delle lettere paoline così densi di significato e così “difficili” da legittimare l’ipotesi che egli abbia voluto esprimere in essi verità talmente alte da riuscire ineffabili, con il rischio -purtroppo realizzatosi tante volte nella storia- di interpretazioni anche in netto contrasto tra loro, e comunque lontane da quelle della Chiesa cattolica e della Tradizione dei Padri. Ma cerchiamo di focalizzare, in una sorta di vademecum che vuole fornire una piccola “guida alla lettura” dell’epistolario paolino, quali sono gli aspetti della “pienezza dei tempi” sui quali S. Paolo ritorna più di frequentemente, aspetti del Mistero di Cristo che accompagnano e accompagneranno il pellegrinaggio terreno della Chiesa fino alla fine dei tempi.

 

Innanzitutto S. Paolo si rende conto della profonda differenza di spirito che passa tra il Giudaismo ed il Cristianesimo. In sintesi, all’epoca della Legge si è succeduta quello dello Spirito e della Grazia: l’uomo, insomma, non si salva più perché segue fedelmente un certo numero di norme e leggi, che nel caso ebraico sono il Decalogo e la Torah, ma per pura accoglienza della Persona di Gesù, che avviene attraverso la fede in Lui. È Lui, infatti che “giustifica”, cioè salva, e non l’osservanza stretta dei Giudei ortodossi, che si risolve sostanzialmente in quella superba ipocrisia contro al quale tanto lottò anche Nostro Signore. Questo non significa che la Legge non serve più a nulla, ma è la sua funzione nell’economia (cioè nel piano) di salvezza che viene profondamente rivista: la Legge mostra la nostra incapacità a salvarci da soli, perché dà coscienza del peccato ma non le armi per combatterlo o vincerlo. Essa, così, apre alla Grazia salvifica del Cristo, gratuita, universale, cosmica, ma necessariamente basata sulla fede, e cioè sulla sincera ed umile certezza che da soli non abbiamo la forza di salvarci.

Se questo è il motivo conduttore del messaggio paolino, non meno importanti sono due aspetti la cui comprensione alimenta la fede di cui abbiamo parlato. Innanzitutto lo scandalo della croce: Dio ha scelto ciò che è debole, disprezzato, reietto dagli uomini per dimostrare la sua potenza, perché ciò che è debolezza di Dio e più forte degli uomini.

Umanamente parlando, Gesù è uno sconfitto. Come altrimenti definire, infatti, un profeta che finisce in croce solo ed abbandonato da tutti dopo essere stato picchiato, schiaffeggiato, sputato e frustato?

 

 Eppure, da questo abisso di dolore e di povertà scaturisce la resurrezione e la salvezza. Dio ha esaltato gli umili, ha messo in crisi l’intelligenza degli intelligenti con ciò che è stolto ai loro occhi, con ciò che il mondo (e cioè la mentalità corrente) considera una pazzia, un fallimento, un obbrobrio. Perché solo così si può smontare l’orgoglio degli uomini.

In secondo luogo, poi, Paolo esalta, in ogni ambito sociale e culturale, la carità, che non è soltanto un amore generico, ma è il ricordo costante della presenza di Gesù nei fratelli: cosa altro ha voluto dire Gesù stesso, infatti, con il celebre discorso escatologico di Matteo (“ogni volta che avrete fatto queste cose agli altri le avrete fatte a me”) ed il rimprovero a Saulo già ricordato (“Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”), se non che Egli continua ad essere presente nei fratelli, soprattutto i più deboli e poveri? Ebbene, queste due grandi verità (lo scandalo della croce e la carità) esigono fede, perché senza di essa ci è impossibile vedere il trionfo di Dio nella miseria e nel dolore o la Persona stessa di Cristo nei fratelli. Certi occhi intimi li apre e li pulisce solo la fede, e questa operazione non richiede una preparazione culturale, un titolo o un merito particolare, perché altrimenti non tutti gli uomini sarebbero posti nella condizione di essere salvati. I primi adoratori di Gesù sono stati dei semplici pastori ed umili pescatori di Galilea sono diventati “pescatori di uomini”. Ed un persecutore della fede è diventato l’ “Apostolo delle genti”. Veramente nulla è impossibile a Dio in che crede. Per gli altri, la serratura dell’orgoglio rischia di essere troppo stretta per la chiave della carità e della fede.

 

S. Paolo ha compreso e vissuto tutto ciò in un attimo che si è dilatato profondamente nella sua vita, nella storia e nel cammino della Chiesa. È ancora in atto, nel nostro tempo così problematico (ma quale epoca non è “problematica”?), la dilatazione di questo germe di Verità che la Sapienza stessa di Dio si è degnata di seminare nel cuore e nella mente di un nostro fratello ebreo di duemila anni fa. Invoco la sua intercessione su tutti noi, perché il suo esempio e le sue parole ci aiutino finalmente a capire che Dio non chiede nulla da noi, se non che la porta del nostro cuore si spalanchi finalmente alla Sua luce. È per amore nostro che Egli desidera tanto comunicarsi: del resto, cos’è un uomo perché Lui se ne ricordi, un figlio di uomo perché Lui se ne curi?

                                                  

                                                                            Prof. Andrea Narduzzi