Platone             San Paolo e l’eredità

          della cultura classica

 

 

Ricorre quest’anno, e fino a giugno 2009, l’Anno Paolino, fortemente voluto da Benedetto XVI in occasione del bimillenario della nascita dell’Apostolo delle genti, tradizionalmente collocata nell’8 d. C. Parlare di San Paolo significa imbattersi in una personalità eccezionale che, come ha ricordato Pietro Citati, ha profondamente segnato la coscienza religiosa e civile europea. Basti pensare allo spessore filosofico e teologico delle sue Lettere, che in un greco spesso difficile e frammentato hanno sondato il Mistero del Cristo con lampi di intuizione da sempre al centro del dibattito ecclesiastico, soprattutto da quando Martin Lutero fece della Lettera ai Romani il suo cavallo di battaglia contro il cattolicesimo romano, dando così avvio alla Riforma. In questa sede vorrei soffermarmi brevemente sull’inevitabile rapporto tra San Paolo e la cultura classica, greca in primo luogo ma anche latina, come mostra il fiorire di leggende quale un presunto carteggio tra l’Apostolo e Seneca. Se si è definito questo rapporto “inevitabile” è perché si pensa al contesto culturale nel quale si mosse San Paolo, profondamente inserito in un ben preciso quadro di riferimento storico-filosofico e letterario, all’interno del quale il nome che ricorre più frequentemente è quello di Platone, vissuto circa quattro secoli prima.

Platone, infatti, ha toccato, nel suo percorso filosofico, quattro aspetti eredita ti dal Cristianesimo fin dalla generazione paolina: il contrasto tra realtà visibile (o intelligibile, perché può essere osservata e compresa razionalmente) e mondo metafisico (il regno delle essenze ontologiche, o “idee”), il principio della immortalità dell’anima e della conseguente esistenza di un “luogo” ultraterreno che ci attende dopo la morte, l’esaltazione della virtù e del “bel vivere” e, infine, il valore supremo della bellezza, che in qualche modo tutto abbraccia e che fonda autentici archetipi della nostra identità culturale, come la coincidenza di ciò che è bello, vero e giusto o l’ascetismo morale che accompagna ogni autentica educazione alla verità e alla contemplazione della giustizia.

 

San Paolo ha profondamente “rivissuto” questi concetti e ne ha fatto splendidi grimaldelli per “forzare” le porte del Mistero. Da qui concetti basilari come la contrapposizione tra “carne” e “spirito” e, a livello storico, tra “alleanza della Legge” e “alleanza della Grazia”, che diviene il perno sulla base del quale il Cristianesimo nascente si differenzia dal Giudaismo (vedi, a tal proposito, le Lettere ai Romani e ai Galati); di qui l’elaborazione delle prime verità dell’escatol ogia cristiana e la dolcissima pedagogia morale che viene delineata nelle due Lettere agli abitanti di Corinto, una delle comunità

più difficili tra quelle

fondate da Paolo; di qui,

 infine, anche il rigore

 stilistico e la preziosità

 formale, quella che oggi

 chiameremmo

 “bella scrittura”,

fondamento essenziale

dell’estetica antica.

Le lettere paoline, infatti, non si lasciano apprezzare solo per i contenuti,

ma anche per la corrispondenza tra argomenti trattati e forma, per il rigore concettuale che scava nel significato lessicale dei singoli lemmi; all’interno di questo tessuto, poi, si aprono a volte squarci di poesia altissima, come l’inno alla carità posto quasi a conclusione della Prima lettera ai Corinzi o il grandioso inno cristologico che apre la Lettera agli Efesini. Della romanità, invece, Paolo sembra avere ereditato il piglio virile ed essenziale, che informa i suoi scritti di un rigore morale ed esistenziale sul quale hanno senza dubbio influito anche ben spiccate disposizioni caratteriali. Il mondo romano, poi, è il punto di riferimento storico-sociale più immediato, perché non dobbiamo dimenticare che la Palestina e l’Asia Minore erano di fatto delle province romane e che tale

presenza straniera aveva sempre suscitato il malcontento delle popolazioni locali, tanto da portarle a ricorrenti rivolte antiromane, la più disastrosa delle quali causerà la distruzione del Tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C.

 L’atteggiamento di San Paolo è a tal proposito improntato ad uno spiccato lealismo, che non mina le fondamenta dei rapporti sociali esistenti ma, in qualche modo, le spiritualizza: prima di essere sudditi o governanti e schiavi o padroni dobbiamo fare i conti con il nostro rapporto intimo e personale con Cristo ed il Padre d’amore che ci ha rivelato. Solo allora sono gettati i ponti che illuminano anche il nostro status e la nostra collocazione in un determinato contesto sociale. E’ così aperta la strada al fecondissimo rapporto tra i cristiani ed il mondo: la storia ha davvero assunto un nuovo significato.

 

                                                                            Prof.  Andrea N.