Come è noto, la seconda enciclica di Papa
Benedetto
è dedicata alla speranza. Si tratta di un tema che, come la
carità su cui il Pontefice ha riflettuto nella sua prima enciclica, nella
religione cristiana assume un significato per così dire archetipico, in quanto
si pone all’origine stessa del nostro rapporto con Dio. E come l’amore, anche
la speranza affonda le sue radice nell’identità stessa dell’uomo di ogni tempo,
come mostra la riflessione artistico-letteraria e filosofica di tutte le
epoche. Prima di qualche semplice osservazione generale, lasciamoci
suggestionare da alcune immagini. Ulisse, il prototipo del viandante
pellegrino, lascia le seduzioni di Calipso, di Circe, di Nausicaa per
raggiungere la moglie lontana, Penelope, insidiata giorno e notte dalla
tracotanza dei Proci; lei
stessa, del resto, spera che il ritorno del marito, di cui non sa più nulla da
tanto tempo, la liberi dall’ossessione dell’insicurezza e della precarietà.
Restiamo nel mito: il prigioniero della caverna platonica, dopo essere stato
liberato dalla contemplazione dell’ Idea del Bene, fiammante come il sole di
mezzogiorno, esce alla luce e si reca tra gli uomini, prigionieri anch’essi,
come lui una volta, di apparenze e di brandelli sparsi di verità; Enea, l’eroe
romano per eccellenza, abbandona Didone, la bella regina cartaginese con la
quale crede di aver finalmente raggiunto l’amore e la patria, per seguire il
volere dei fati, che gli impongono la fondazione di un’altra città in altri
lidi lontani. Pur con la morte nel cuore, obbedisce e provoca il suicidio della
regina abbandonata, da allora chiusa in un mutismo rancoroso che neanche
l’aldilà dei Campi del Pianto, dove Enea la incontra di nuovo, riesce a
forzare. Passiamo dal mito alla storia. Abramo parte da Ur dei Caldei, e la
destinazione la conosce solo il Dio che gli ha parlato; un’umile fanciulla di
Nazareth, promessa sposa ad un uomo della casa di Davide chiamato Giuseppe,
accetta il “compromesso” forse più grave, agli occhi del mondo di allora, per
una ragazza nella sua situazione e concepisce fuori da ogni intervento umano;
Francesco, il Poverello di Assisi, getta alle ortiche i privilegi della sua
condizione alto borghese e, per dirla con Dante, sposa la Povertà, che “privata del primo marito [Cristo] /millecent’anni dispetta [disprezzata] e
scura /fino a costui [Francesco] si stette sanza invito”; il Mahatma Gandhi
rinuncia alla violenza, e con le “armi” del dialogo e della più alta moralità
libera una moltitudine immensa dalla schiavitù dell’oppressore. Concludiamo con
l’arte. Il Pertenone di Atene, con le sue forme perfette e semplici al tempo
stesso, è un inno imperituro alla grandezza cosmica dell’uomo; la Pietà Rondinini, la scultura alla quale Michelangelo lavorò fino a qualche
giorno prima della morte, rappresenta la concretizzazione visibile di un
indicibile dolore (quello che lega Gesù e Maria nell’ora dell’agonia e
dell’abbandono del Figlio) che si trasforma in una fiducia silenziosa e
rigorosissima alla suprema volontà del Padre; tra i corpi contratti e spezzati
della Guernica picassiana, atroce eco delle centinaia di migliaia di
vittime della guerra civile spagnola e di tutte le guerre, si apre, timido e
raccolto, un fiorellino.
Gli esempi hanno un loro linguaggio che spetta alla
razionalità dell’uomo articolare e far parlare: da quanto abbiamo mostrato
finora, emergono chiaramente le due caratteristiche fondamentali della speranza
di ogni tempo. La prima la riassumiamo con le parole di U. Galimberti, autore
di un recente saggio sulla condizione giovanile dal titolo L’ospite inquietante.
Il nichilismo e i giovani, in cui si legge: “Nell’attesa non c’è durata,
non c’è organizzazione del tempo, perché il tempo è divorato dal futuro che
risucchia il presente a cui toglie ogni significato, perché tutto ciò che
succede è attraversato dal timore e dall’angoscia di mancare l’evento. La
speranza, invece, guardando più lontano e ampliando lo spazio del futuro,
distoglie l’attesa dalla concentrazione sull’immediato e dilata l’orizzonte”.
Tutti gli esempi che abbiamo proposto più sopra,
confermano che c’è un nesso molto stretto tra tempo e speranza e che quando
l’uomo non riesce a gestire il presente nella direzione del futuro rimane
vittima del passato, con effetti di annebbiamento psicologico e depressivo che
spesso sfociano nel suicidio. Ma manca ancora qualcosa. Manca, per così dire,
ciò che possa animare, nella direzione della speranza, un moto spontaneo dello
spirito dell’uomo ed il suo inevitabile confronto con il futuro. A tal
proposito, Benedetto XVI parla, nei capitoli finali della sua Spe salvi,
di “ “luoghi” di apprendimento e di esercizio della speranza” e fa riferimento
alla preghiera, alla sofferenza e alla dimensione escatologica dell’agire e del
credere .
Si tratta di tre prospettive che veramente completano ed
animano quanto da sempre la cultura ha sentito ed espresso a proposito della
speranza, come ancora una volta mostrano gli esempi su riportati: Omero tiene a
sottolineare a più riprese, nella ciclicità concettuale propria dell’epiteto,
che Ulisse è l’eroe “che ha molto sofferto”;
Penelope, dal canto suo, non smette di tenere desta la prospettiva del ritorno del marito nutrendosi di devozione e di pazienza; Enea, poi, è il “pius” per antonomasia, il profugo troiano che, nella notte fatale della sua città incendiata dai Greci vittoriosi, prende il padre Anchise sulle spalle e non dimentica i Penati ed i Lari, le anime venerate dei defunti e della famiglia. E di cosa si nutre la lancinante sobrietà della Pietà Rondinini se non di una sofferta e umilissima preghiera, cosa vivifica la Guernica se non un piccolo fiore di Paradiso in mezzo all’inferno scatenato sulla terra dall’odio e dalla violenza dell’uomo? E ancora una volta tra l’espressione artistico-letteraria e la Rivelazione religiosa, che davvero parlano lo stesso linguaggio, tanto da diventare una immagine dell’altra, in uno scambio reciproco di presenza-assenza che tanto ricorda il mistero dell’Incarnazione, si colloca il tempo, il nostro hic et nunc, quello che, con un termine di eccezionale pregnanza semantica, i Greci chiamavano “kairòs”. Il “kairòs” non è solo il momento presente; è anche, e soprattutto, la possibilità di scelta che il momento presente porta sempre con sé.
Dobbiamo essere veramente grati a Dio per il dono del tempo, non tanto perché esso ci consente di vivere, di esprimerci, di operare, ma soprattutto perché ci offre la possibilità di scegliere, di tornare sui nostri passi, di imboccare finalmente la strada della realtà vera e bella, quella che grida in modo ineffabile dalla riflessione e dalle creazioni dell’uomo di ogni epoca. Il Signore non smette mai di invitare a Sé, ed il tempo è l’occasione giusta per farlo, a partire da ora. Posso farlo. E devo farlo, prima che le tenebre dell’errore e dell’odio si trasformino in un gelo eterno di freddo senza stelle. Finché c’è vita, c’è speranza.
Prof. Andrea Narduzzi